martedì 5 febbraio 2008

Il Foglio. "Lo chiamavano scuorno”

Storia di Sara e di Eugenio. Così una vita che già batteva è diventata un guaio da abortire. “Che significa non lo voglio? Che significa la scelta è mia?”

Chiudi gli occhi, conta fino a dieci e dimentica quel nome. Tesoro. Lo sai che non ti ama, lo sai che se ti dice così è perché non ti capisce. Lo sai che io ti amo. Noi ti amiamo, lui no. No, non ti ama. Non ti direbbe così. Lui pensa di sì, ma tu lo vedi, lo senti che non è così. L’hai capito, no? Lo sai, amore mio? No, non lo sai. Ascolta. Ascolta bene: lascialo parlare, lascialo dire, lascialo telefonare. E dimentica quel nome. E se te lo chiede digli di no, poi vedrai che se ti ama lui capirà. Sì: capirà. Sì, è vero. Non mi capisce, nessuno mi può capire, sono io. E’ mio. Forse, forse tu; sì: forse tu puoi. Che guaio, cazzo. Che guaio. Che scuorno, che vergogna. Che ho fatto? Mamma, che ho fatto. Non piangere. Mamma, mamma. Hai trovato quel numero?
Era un martedì, Sara aveva chiamato a casa la sera prima e l’aveva avvertita. Mamma, stasera non torno. Non era tornata lunedì, non era tornata domenica, non era tornata neanche sabato. Ragazzi, diceva la madre. Sono ragazzi, tesoro; lasciamoli divertire. Che vuoi che facciano, lei ha diciannove anni, è una bambina. Non ti preoccupare, fidati di me. Fidati, sono solo due notti. Erano state due notti bellissime: la prima, la seconda, soprattutto la terza. Lui e lei. Due notti, e lui che le aveva detto tutto; le aveva detto il dove, il come e il quando, le aveva detto chi ci sarebbe stato e le aveva detto anche cosa le avrebbe regalato. Due notti, sì, ma senza sesso: perché lui non sapeva ancora se era il caso, e lei non sapeva cosa pensare, non sapeva come si faceva in quei casi e non sapeva neanche a chi chiedere. Riccardino?, diceva lui, mentre lei sorrideva solo con le guance, senza muovere le labbra, proprio come faceva lei quando stava bene, e quando per dire di sì non c’era bisogno di dire nulla.
Domani però andiamo da mamma. Se vuoi, va bene. Andiamo. Lei e lui. Lei: diciannove anni, i capelli lisci, gli occhi blu, il primo anno di università, i tre esami in Scienze dell’educazione, e poi la parrocchia, il volontariato, la gonna verde, le calze di seta, le scarpette bianche che non erano da ballerina, ma un po’ sembrava di sì. E lui: ventisette anni, laureato, ingegnere, quartiere Bagnoli, Napoli. Lei, Sara; lui, Eugenio. Eugenio sale due piani di scale a piedi, guarda l’orologio, bussa alla porta e sospira. Risponde lei. Mamma siamo noi. Entrate, papà è appena uscito. Entra pure, caro Eugenio. Due caffè? Uno, disse lui, tutto serio. Uno? Bene. Sedetevi pure: che hai fatto piccola? Stai bene? Sì, tutto bene. Eugenio sorrideva, e lei, Sara, non la guardava mai negli occhi, la mamma. Non ci riusciva. Diceva mamma, ma poi si fermava e la voce rimaneva lì, strozzata. Mamma. Mamma.
Amore. Amore. L’ho fatto.
Sara non lo sapeva, ma aveva capito praticamente tutto: era da qualche giorno che aspettava, che diceva io mi conosco, grazie non ho fame e no: non mi sento male, però lo so, è una cosa strana, devo vedere, devo comprarla: tesoro, ho un ritardo. Non sapeva perché, aveva detto che non sapeva ancora, e aveva detto di no. Non ti preoccupare, non è niente. Gli disse così, poi passa una settimana, Sara esce dal numero dieci di via Suor Orsola, 10, la sede napoletana della sua università, corre via, arriva in strada, si avvicina a Eugenio con la borsa della Lonsdale appesa al collo, e una piccola linea blu che si era improvvisamente colorata, e ora lei sapeva perché, e sapeva che gli avrebbe detto di sì. Diciannove anni, fidanzata, felice, bella. E ora mamma. Nona settimana, amore mio. Ma non dirlo a nessuno, non dirlo agli amici, non dirlo a papà. Lo dissero solo a Luigi, il parroco della chiesa di San Giuseppe confessore, dove Eugenio e Sara erano cresciuti insieme, dove avevano fatto i volontari per la Caritas, dove lui si era innamorato di lei, e dove, tre giorni dopo la linea blu del test di gravidanza che saliva di nove settimane, tornarono tutti e due, firmarono sul registro, e controllarono la data: ventisei giugno; piccola, vuoi sposarmi? E lui, non c’aveva pensato. Non c’era nulla da pensare. Era un sì, due volte sì. Ti voglio, voglio sposarmi; voglio un bambino, voglio quel bambino. Lui, ventisette anni, ingegnere, e ora padre; e con gli amici che lo fissavano, e lo guardavano e lo abbracciavano, e non sapevano come fare, non sapevano cosa dire: se dire auguri, se dire complimenti, se dire in bocca al lupo, se farsi dire tutto, se aspettare che fosse lui a farlo, se chiedergli un particolare, o se chiedere solo le cose semplici. Come si fa, cosa si chiede quando diventi papà? Dimmi: com’è? Di chi è? Quanto è? Ma lei? E tu? E i tuoi? E i loro? I loro.
Mamma. Mamma. Mamma. Tesoro, sedetevi. Ditemi pure, ditemi che succede, cosa sono quelle facce? Ragazzi, ditemi. Che avete fatto, qualche guaio avete fatto? Signora, la vorremmo invitare a una festa. Una festa. La mamma di Sara poggiò la tazzina di carta sul lavabo, e ci pensò. La festa. Il caffè. Quegli occhi così. Ma quale festa. Quale festa? Che guaio avete fatto, che guaio avete combinato? Signora, nessun guaio. Non dissero altro, non lo nominarono mai, avevano capito tutti. Lei, e la sua bambina. Gli altri, e il loro bambino. Cosa avete fatto. Ma avete fatto le analisi? Oddio, oddio, oddio. Cosa avete fatto. Cosa avete fatto.
Mamma.
Figlia mia, ti prego. Ti prego. Non dovevate, non me lo dovevate fare, non me l’aspettavo, mi avete rovinato, ve ne siete approfittati, che vergogna, che scuorno, che vergogna, vuoi fare come tua cugina? Dimmi, vuoi un bambino adesso? Lo vuoi a vent’anni? Vuoi fare come lei, come tua cuginetta, eh? No, mia figlia non sarà una zoccola: uscite di casa. Io vi ho dato la libertà e voi mi fate un figlio. Se lo sapesse tuo padre. Andate, andate via. Vergogna. Andate via.
Ciao amore, disse Eugenio, mentre scendeva le scale, io è meglio che vado via. Apre il portone, sale in macchina, spegne il telefono, torna a casa. Lo riaccende la sera dopo, Eugenio: ma il telefono non squilla più. Non squilla oggi, non squilla domani. Non risponde oggi, non risponde neanche domani. E se risponde, lei sospira; ti ascolta, ma non parla; ti sente ma non fiata. E chissà che fa? Sarà sul letto? Starà studiando? Si starà coprendo? Starà bevendo? C’avrà parlato? Avrà ascoltato. Amore. Amore. Amore: ma di cosa parli? Amore, fammi entrare. Amore, apri quella porta. Amore, non scendere dalla macchina. Amore, stai per diventare mamma. Piccola mia, che significa guaio? Squilla ancora, il telefono. E dopo due giorni lei sospira, e finalmente parla. Vieni a casa mia? La mamma ti vuole parlare. Vengo, arrivo. Sale le scale, Eugenio, apre la porta, saluta, ma nessuno sorride; niente caffè, niente papà, niente cucina, siedeti – con la e –, disse la mamma che era diventata nonna e che invece di chiamarlo piccolo continuava a chiamarlo guaio. Siedeti, dobbiamo parlare. E gli spiega. E gli parla.
Parla la mamma della sua ragazza, e parla senza nominarlo mai, pensando sempre a quello. Perché i bambini che non sono voluti non sono mandati da Dio, diceva lei; e tu devi lasciare libera mia figlia, lei ha la sua età, è giovane. E fammi finire: non la non devi plagiare, non le devi parlare; perché lei deve essere libera: libera di scegliere liberamente; libera di prendere le decisioni giuste; e se tu le vuoi bene allora lasciala stare, disse passando in un attimo, come fosse un soffio, dal ciò che c’è da dire a ciò che non si deve fare. Siete liberi, mia figlia può scegliere quello che vuole, ma se sceglie di sposarti, se sceglie di tenerlo, lei in questa casa non entra più. Mai più. Perché è tanto tempo che mia figlia piange, e io non la voglio più vedere così. Perché tesoro, tu lo sai che io ti amo. Tu lo sai che noi ti amiamo. E lei era bellissima, e non parlava; e la mamma che l’accarezzava, e non si fermava, e che alla fine disse così, mentre Sara piangeva: perché se l’ami, Eugenio, tu devi accompagnarla ad abortire. Lui si alzò, le salutò tutte e due e se ne andò via. E poi pensò molto.
Pensò ancora al nome, pensò che Riccardino era un nome splendido, pensò che si sarebbero sposati tra un mese, pensò che sarebbero diventati una sola carne, come diceva don Luigi, e pensò che in quel caso, carne la sarebbero diventata non tutti e due, ma tutti e tre. Sara, Eugenio, Riccardino. Pensò che la madre, prima o poi, avrebbe capito, pensò che il guaio si chiamava bambino, pensò che la figlia di lei ora si chiamava mamma e pensò che la mamma era in realtà la nonna, ed era in realtà solo molto spaventata, e anche se diceva che bambini non voluti non sono mandati da Dio, Eugenio, anche qui, si ricordava di don Luigi, lì in parrocchia: se lo ha voluto il Signore, sorrideva lui, beh, il Signore non manda certo guai; manda solo benedizioni. Ma Sara piangeva ancora, e piangeva come la madre. Piangeva a casa, e piangeva a telefono. E lui lo sapeva che quando una mamma piange le lacrime spesso sono sincere. Ma non c’era da preoccuparsi, non c’era ragione di chiedersi se sì oppure no, semplicemente perché pensando al no non avrebbe capito perché. Tesoro, perché? Tesoro, non scendere dalla macchina. Tesoro, ti prego parlami. Tesoro, perché piangi? Tesoro, che senso ha? E lei: dammi qualche giorno, non so cosa fare, ti prego; lasciami pensare. E lui non capiva, non capiva di cosa parlava, non capiva cosa pensava, non sapeva cosa cambiava, come funzionava. Che significa un po’ di tempo? Che significa che devi pensarci tu a una cosa tua che è però anche mia. Che significa che hai studiato la legge? Che significa, ti prego, amore. Dimmi qualcosa. Dimmi dell’altro. Che significa non lo voglio. Che significa non sono d’accordo. Che significa un figlio non si fa solo in due. Che significa decido io. Che significa che la legge è dalla parte mia. La legge. Non sapeva neppure che ci fosse una legge, Eugenio. E allora cominciò a leggere, cominciò a cercare, la trovò su Internet, scoprì il testo, e poi trovò anche qualche dato. Ventisette anni lui, diciannove e quasi venti lei: diciannove, che a Napoli, negli ultimi sei anni, significa qualcosa che la legge racconta ma un po’ rischia di nascondere. Napoli, e la Campania. Lo scoprirà qualche mese dopo, Eugenio.
Scoprirà che negli ultimi anni, dal millenovecentottandue al duemilasei, mentre in tutt’Italia quelle che oggi chiamano Igv, erano diminuite del 44 per cento – dai quasi duecentotrentacinquemila casi del 1982 ai centotrentamila di ventiquattro anni dopo – e mentre succedeva questo, c’era una regione con i dati e con i conti che ancora oggi non tornano: una regione con il cinquantacinque per cento di pillole del giorno dopo vendute ai ragazzi sotto i venticinque anni, una regione con uno dei più alti numeri di interruzione di gravidanza nei primi tre mesi (3.411 in Campania, 36.864 in tutt’Italia), e una regione che insieme ad altre due (Basilicata e Valle D’Aosta) mentre tutte le altre in Italia ne fanno un po’ di meno, lei invece ne fa sempre un po’ di più. E se oggi Eugenio guardasse le tabelle, per quanto riguarda le donne straniere, scoprirebbe che in Campania, di Igv, ce n’è un sei per cento in più. Sei per cento, dal duemilacinque al duemilasei. Che significa, si chiede Eugenio? Che significa quell’articolo. Che significa che la legge è dalla tua parte? Che significa la scelta è mia.
Eugenio chiama un amico, che nella vita fa l’avvocato. Lo chiama, lo cerca e glielo chiede. Me la faresti leggere? Centonovantaquattro. La trova, arriva allo studio, cerca le carte, trova la legge, trova il comma e capisce tutto; capisce che quando la donna decide di farlo, allora si rivolge al medico, il medico le fa gli accertamenti, le fa tutte le domande e dopo di che valuta. Valuta se farlo oppure no; valuta “le circostanze che la determinano a chiedere l’interruzione della gravidanza”. Lo valuta con la donna, il dottore; e, ove la donna lo “consenta”, con il padre. “Ove la donna lo consenta”. E se io voglio e lei no? Come si fa? E se la donna non consenta? Eugenio piangeva, e lei non chiamava. Cinque, sei, sette giorni, e il telefono non squillava, mentre le sue nuove colleghe, le amiche della facoltà, le cantavano lo stesso ritornello. Sempre, tutta la settimana. Tu sei pazza, tu sei giovane, tu ti devi divertire, tu avrai altre occasioni, non ci pensare proprio, non ti preoccupare, non sei né carne, né pesce, e ascolta chi ti ama, ascolta chi ti conosce, ascoltami. Ascolta tua madre. Starai un po’ male, poi però riprenderai in mano la tua vita. Ti voglio bene, non è difficile. Chiudi gli occhi, conta fino a dieci e vedrai che poi passa tutto, che tutto si risolve.
Sette giorni dopo squilla il telefono. Eugenio, dobbiamo vederci, vienimi a prendere, ti devo dire una cosa. Era quasi il terzo mese, era il tredici maggio e lei aveva deciso. Salirono sul Belvedere del quartiere Bagnoli, a Napoli, a pochi metri dalla parrocchia di San Giuseppe Confessore, e a pochi metri dal mercato ittico dove lavorava il padre di lei; che non sapeva nulla e che non doveva sapere nulla. Chiusero tutti e due il finestrino e si fermarono lì.
Lei aveva gli occhiali neri, con le lenti a goccia grandi, come quelle delle attrici, che nei film piangono per finta, nascondendo gli occhi dietro la montatura cieca; e lei, Sara. Aveva i jeans stretti stretti, una maglietta nera, aderente e molto attillata. Troppo, troppo attillati però quei jeans. Per piacere, Sara, sbottonali un po’, non è prudente, è troppo stretto. E lei, senza togliersi mai gli occhiali, lei lo fissò, e disse no. Non mi sento, non lo cresco, non lo voglio, non lo meriti, mi hai lasciato sola, non mi hai accompagnato, non hai voluto sapere, non hai voluto capire, mi dispiace, ma lui non c’è più.
Mamma non voleva. E lo disse tutto d’un fiato, senza nominarlo mai, senza dire cos’era successo, senza dire quando, dove, come; e senza dire perché non lo aveva lasciato parlare, perché non lo aveva lasciato dire, perché non lo aveva lasciato telefonare. Senza aver capito cosa significava, quando gli dicevano se la ami accompagnala, se la ami non puoi lasciarla, se la ami non puoi pensare a te; senza aver capito perché, senza aver capito perché un figlio non c’era più; senza aver capito perché la mamma non capiva, perché il papà non sapeva, perché la nonna lo chiamava scuorno. Che guaio. Che scuorno, che vergogna. Che ho fatto. E senza aver avuto il tempo di dire signora, lui non si chiama guaio, si chiama Riccardino.
Claudio Cerasa

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