Due donne straniere, tre figli, un ginecologo e l’ospedale di Milano Cronaca di due vite impossibili che non trovavano il terzo piano
Era arrivata alle dieci e quarantasei minuti del nove dicembre, al primo piano del dipartimento medicina d’urgenza dell’ospedale Niguarda Ca’ Granda; era arrivata senza lavoro, senza casa, senza fidanzato, con un codice verde, una bambina di un mese e mezzo, un braccio che continuava a pizzicare un po’ e una gamba che quasi non c’era più; era salita fino alla stanza numero venticinque di piazza Ospedale Maggiore, al civico tre, e dopo undici minuti di attesa aveva letto la diagnosi sulle due paginette del verbale di pronto soccorso, in basso a sinistra, accanto alla prestazione offerta (ecografia ostetrica), alla modalità di accesso (spontanea), al motivo di accesso (perdite ematiche) e all’esito della visita (dimessa): “lieve minaccia di aborto”, aveva scritto il medico sulla tastiera del computer, prescrivendole due compresse di Buscopan al giorno (una la mattina e una la sera) proprio un mese dopo l’ultima volta che aveva fatto l’amore con lui.
A trentasette anni Maria Clara lavorava come colf in un appartamento al quinto piano di via Murat numero cinquantadue, a Milano; pagava un affitto di millecentocinquanta euro al mese in via Umberto Fracchia numero dodici e ogni mese guadagnava seicentoquaranta euro per pulire casa, per stendere i panni, per stirare le camice e per lavare i piatti: cinque giorni alla settimana, dalle undici di mattina alle sei del pomeriggio. Da sola Maria Clara non ce l’avrebbe mai fatta a pagare quell’affitto, non avrebbe mai potuto portare avanti la gravidanza e non sarebbe neppure partita dal suo bilocale a duecento chilometri da Lima, a Trujillo, in Perù, dove nove anni fa, dietro il bancone di una pasticceria di Piazza Antares, aveva conosciuto Carlos, l’uomo con cui aveva deciso di partire per l’Italia; l’uomo con cui avrebbe concepito una bambina che il papà non avrebbe mai visto nascere.
Maria Clara non aveva altra scelta: al primo mese di gravidanza, con quel braccio, quella gamba e quell’affitto, era andata per l’ultima volta a via Murat e aveva spiegato alla signora Rosaria che purtroppo non ce l’avrebbe fatta. La signora Rosaria era una donna di sessantadue anni, era arrivata a Milano ventidue anni fa, ed era sposata con un giovane farmacista calabrese. Maria Clara spiegava, Rosaria era lì che ascoltava, e non sorrideva mai, la guardava fissa negli occhi e dopo aver sentito quella parola, “incinta”, aveva alzato il telefono, aveva smesso di guardarla e le aveva detto ciao. Maria Clara, a parte il “ciao” che la signora non le aveva mai detto prima, sapeva perfettamente che sarebbe andata così. Lo sapeva, ma avrebbe voluto fare dell’altro, lei; le avrebbe voluto raccontare la sua storia, le avrebbe voluto descrivere la prima torta allo zabaione che le aveva preparato Carlos, le avrebbe voluto dire che erano otto anni che ci provava, avrebbe avuto voglia di abbracciarla, avrebbe voluto chiederle un consiglio, avrebbe voluto dirle che la piccola si sarebbe chiamata Lorena, le avrebbe voluto spiegare che si sarebbe chiamata come la nonna e che la nonna era morta lo stesso giorno in cui lei aveva fatto il check in per andare da Lima a Milano; e poi le avrebbe voluto chiedere come si dice in italiano quando una donna è davvero mui feliz; le avrebbe voluto urlare “viva” forte forte nell’orecchio; le avrebbe voluto dire che non riusciva ad alzare il braccio e che non riusciva più a muovere la gamba, le avrebbe voluto dire perché era rimasta da sola, perché il papà non avrebbe mai visto quella bambina e perché oggi avrebbe avuto voglia di piangere con lei, non di rispondere a un ciao.
Le prime due visite non erano andate molto bene. All’ospedale Niguarda Ca’ Granda, Maria Clara era uscita un po’ spaventata, ma non preoccupata. Le avevano spiegato che “lieve minaccia di aborto” non significava, naturalmente, aborto; ma più passavano i giorni e più che sentirsi incinta Maria Clara cominciava a sentirsi improvvisamente come se fosse una donna ammalata: iniezioni, analisi, ecografie, pronto soccorso, lastre, infermiere, cartelle cliniche, stetoscopi, sale d’attese e ambulatori. Non aveva capito perché: sapeva che in quelle condizioni sarebbe stato difficile portare avanti una gravidanza, ma non pensava di essere addirittura malata. Almeno, fino alla decima settimana, malata Maria Clara non lo era davvero.
L’ultima volta che aveva visto una scansione ecografica addominale era stato quando la cugina Silvia era rimasta incinta nella sua casa di Carpiano, in provincia di Milano. Silvia era molto più giovane di Maria Clara: aveva ventisei anni, viveva a casa di un amico dell’ex ragazzo, non pagava l’affitto, non aveva mai avuto problemi di salute, non riusciva a sopportare un fidanzato per più di due mesi e quando aveva scoperto di essere rimasta incinta non aveva la minima idea di chi fosse il figlio; e alla cugina, lei solitamente rispondeva così: “E’ stato un periodo un po’ movimentato”.
Non sapeva di chi fosse, ma le bastava sapere che era suo.
Silvia aveva scelto di portare avanti la gravidanza da sola, era arrivata al secondo mese e aveva deciso, finalmente, di ascoltare il consiglio di una collega dell’amico da cui abitava, anche lei incinta. “Hai fatto l’amniocentesi?”, le aveva chiesto lei. Pochi giorni dopo il primo prelievo di liquido, Silvia aveva letto il referto e aveva scoperto di avere un problema: la linfa della zona cervicale non passava perfettamente nel corpicino del piccolo e il cromosoma numero ventuno, dopo poche settimane di gestazione, si era triplicato, non duplicato. “Signora – le aveva detto il ginecologo – è una trisomia cromosomica: suo figlio potrebbe essere down”. Silvia pianse, poi parlò con il medico, andò al consultorio, le dissero di sì e decise di abortire. Era la ventiduesima settimana: Maria Clara rimase tre giorni a casa, senza mangiare nulla, senza parlare con nessuno, senza uscire dalla stanza e senza il suo nipotino.
Una settimana dopo la prima visita al Niguarda Ca’ Granda, Maria Clara scoprì che doveva abortire. Le avevano detto “può”, ma somigliava tanto a un “deve”. Dal giorno in cui aveva parlato con la signora Rosaria, Maria Clara non aveva più nulla: non aveva il lavoro, perché con quella pancia una colf non può stirare le camice; e non aveva più una casa, perché senza soldi un affitto in nero una come lei non può proprio pagarlo. Maria Clara, però, non aveva più nemmeno un fidanzato.
Era dal giorno in cui lei e Carlos erano arrivati a Milano che Maria Clara aveva deciso che non voleva pillole, non voleva preservativi, non voleva spirali. Perché lei conosceva tutte le tecniche di contraccezione: le aveva studiate a scuola e le aveva ripassate qua e là con la campagna di prevenzione in giro per la città. Sapeva tutto, ma aveva deciso così: voleva essere madre a qualunque costo. E lo voleva ora: anche senza soldi, anche senza lavoro, anche senza conoscere bene l’italiano. Facevano l’amore quattro volte alla settimana, lei e Carlos. Lo facevano sempre alla stessa ora, con la luce del bagno accesa e con la televisione di là, con il volume molto alto. Per otto anni non era successo nulla: e non era sterile lei e non era sterile lui; avevano solo qualche “difficoltà di concepimento”, come le aveva detto Carlos, che l’aveva letto su Internet; dopo otto anni, però, arrivata al suo trentasettesimo compleanno, Maria Clara aveva deciso di adottare un bambino. Ci pensarono un po’ ma poi il bambino arrivò davvero: lei fece il test di gravidanza, tornò a casa e aspettò che Carlos finisse il turno al supermercato della Despar, in via Caldera; lui aprì la porta e lei disse che aspettava Lorena. Due giorni dopo, Carlos uscì di casa molto presto senza dirle neanche ciao. Aveva promesso che l’avrebbe accompagnata al numero dodici di via della Commenda, al piano terra dell’ospedale Mangiagalli; e invece no. Carlos era andato via, e alla Mangiagalli Maria Clara ci arrivò da sola: scese con la metropolitana a Milano San Babila, attraversò Piazza delle Cinque giornate, superò viale Regina Margherita, chiese informazioni in portineria, cercò il reparto, aspettò quindici minuti e poi fu visitata. Prima al braccio, poi alla gamba, quindi alla pancia. Alla fine della visita, dopo quaranta minuti, il medico, con la cartella clinica stretta sotto il braccio, glielo aveva detto in due modi. Prima le aveva detto “coagulazione intravascolare localizzata”, poi le aveva detto cosa fosse quel dolore al braccio, alla gamba e ora alla testa: trombosi, le avevano spiegato prima che lei scoppiasse a piangere spalancando istintivamente le mani come per tappare le orecchie al pancione. Maria Clara era all’undicesima settimana di gravidanza. “Mi ascolti, signora: forse non è il caso di andare avanti”.
Pochi mesi prima, nella stessa città, nello stesso ospedale, nella stessa stanza, era arrivata Serena: una ragazzona di ventisette anni, nata in Ecuador e arrivata due mesi fa a Milano; con un posto letto al piano terra della Caritas ambrosiana, in via san Bernardino, con un fidanzato senza permesso di soggiorno e con un mamma che da poche settimane era stata seppellita nel cimitero General de Miraflores di Trujillo, a pochi chilometri dalla capitale dell’Ecuador. Serena si era sdraiata sul lettino, aveva parlato con il ginecologo, le aveva raccontato della sua condizione, le aveva detto che lei stava bene, che non aveva problemi e che fisicamente ci stava. Solo che Serena non aveva più molti soldi: lei aveva perso il lavoro e il futuro marito ancora non ne aveva trovato uno. Serena cercava un modo per capire come fare con quel pancione e con quella piccola bugia sussurrata al marito Eduardo, solo per non farlo preoccupare. E’ un bambino, gli aveva detto lei quando ancora vivevano in Umbria. E invece i bambini erano due.
Serena era partita due mesi prima da Perugia: faceva la colf, proprio come Maria Clara; lavorava tra Assisi e Todi in un casale del 1800, in cima a una collinetta, a pochi chilometri dal monte Subasio. Un buon lavoro, novecento euro al mese, un permesso di soggiorno. Aveva conosciuto Eduardo due anni prima a Deruta, seduta con un’amica su una panchina, fuori dal parcheggio della discoteca Matrioska. Dopo due settimane, Eduardo e Serena erano andati a vivere in quei sessanta metri quadrati, dietro via Matteotti, dove vivrebbero ancora oggi se lei non fosse rimasta incinta, se la madre non fosse stata uccisa da un piatto di funghi velenosi e se non fosse stata costretta a spendere tutti quei soldi per la vestizione, per la preparazione e per il trasporto internazionale della madre: 2.400 euro, quasi due terzi dei risparmi che Serena aveva messo da parte sul proprio conto corrente. Senza quei soldi, però, pagare l’affitto sarebbe stato impossibile. Eduardo e Serena decisero così, prima di arrivare alla Caritas, di farsi ospitare per un po’ da un amico a Milano: i due figli sarebbero dovuti nascere qui. Anche senza soldi, anche senza lavoro, anche senza casa. Anche se, arrivata in ospedale, il primo dei due ginecologi che l’avrebbero visitata non la pensava così; Serena quelle parole le ricorda perfettamente. “Se sei in questa condizione è meglio che tu non vada avanti”. C’aveva pensato un po’ e poi Serena al ginecologo gli aveva detto così, gli aveva detto di sì: non voglio il bambino.
Tra tutte le statistiche presentate lo scorso ottobre dal ministro della Salute Livia Turco, il dato che più sorprende è proprio quello relativo al numero delle interruzioni di gravidanza portate a termine dalle donne straniere in Italia. Dal 1980 al 2001, le donne nate all’estero che hanno interrotto la gravidanza sono passate da 4.510 a 32.161; sempre in questi anni, dal 1995 al 2002, la presenza di stranieri in Italia è quasi raddoppiata: erano 800 mila nel 1995 hanno toccato il milione e mezzo nel 2002. Oggi, la percentuale delle interruzioni di gravidanza delle donne straniere rappresenta il 24 per cento di quelle totali in Italia; nel 1995 era invece il due per cento. Negli ultimi dieci anni, il numero degli interventi portati a termine da donne con cittadinanza estera si è triplicato: nel 1996 erano il dieci per cento, nel duemilacinque erano arrivate al 29,6 per cento. E il dato è ancora più significativo, visto che in Italia le donne straniere hanno un tasso di fecondità che è esattamente il doppio di quello delle donne italiane (nel 2006, i bambini nati da genitori stranieri sono stati 57.765: l’11 per cento in più rispetto al 2005 e il 10,3 per cento di tutti i bambini italiani).
Qui in Lombardia, le straniere come Serena e come Maria Clara rientrerebbero in una statistica ancora più significativa: nelle sei province lombarde, infatti, su quasi ventiduemila interruzioni di gravidanze annue, 6.608 sono quelle completate da donne straniere; un dato che corrisponde a poco più del trenta per cento delle interruzioni di gravidanza straniere di tutta Italia. Secondo una recente indagine conoscitiva sul percorso di nascita delle donne extracomunitarie, la Lombardia è la quarta regione italiana come “adeguatezza di informazioni relative alla contraccezione”, nonché quella con il numero più alto di popolazione straniera di tutta Italia: 7,6 per cento.
“Sapevo tutto sul come non fare un figlio: sapevo tutto di preservativi, spirali, pillole del giorno prima, pillole del giorno dopo ma – racconta Serena – non sapevo nulla su come mi sarei dovuta comportare per fare nascere quel figlio, per avere qualche pannolino, per avere qualcosa da mangiare, per trovare un tetto, e per cercare, magari, anche un piccolo lavoro”.
Alla fine del secondo mese, Serena decide di abortire. Ogni anno, alla clinica Mangiagalli vengono registrati circa mille e ottocento interruzioni di gravidanza e aborti terapeutici, la metà di queste sono prenotate da donne extracomunitarie. Serena aveva deciso così, e non sapeva nulla delle sei stanze al terzo piano dell’ospedale più importante di Milano, dove ogni anno nascono ottocento bambini che semplicemente non ci dovevano essere; e dove Maria Clara e Serena avrebbero potuto salvare la vita dei propri figli, se solo lo avessero saputo. Perché le sei stanze al terzo piano del centro aiuto alla vita più famoso d’Italia, le devi conoscere per cercarle, e le devi conoscere prima se davvero vuoi trovarle. Perché entrando al numero dodici di via della Commenda devi salire una rampa di scale, superare la portineria, girare al secondo corridoio a destra, aspettare l’ascensore e premere il piano numero tre. Perché se chiedi informazioni in portineria, il portiere ti indicherà il quarto piano della scala D – invece che il terzo della scala B; perché se arrivi al quarto piano della scala D l’infermiere ti risponderà che non sanno cosa sia, il Cav; e perché se chiedi al piano terra, se chiedi di fronte al reparto di ginecologia, ti diranno che questo Centro aiuto alla vita non sanno proprio dove diavolo sia. E tu devi superare due corridoi, due rampe e tre reparti per trovare un piccolo foglio formato A4 appeso al muro fra le porte scorrevoli dei due ascensori della scala B. Devi arrivare qui per leggere di quel “Cav” che solo lo scorso anno ha fatto nascere 833 bambini che forse non sarebbero mai nati; lo ha fatto, la coordinatrice Paola Bonzi, con molti volontari, con pochissimi soldi, con parecchi colloqui, aiutando le mamme a trovare una casa e facendo semplicemente quello che la legge chiede: contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza. Gliel’hanno suggerito e dopo aver detto di no, Maria Clara ha detto di sì, e oggi muove ancora poco il braccio, non ha più dolore alla testa, veste con un maglioncino beige, ha i jeans poco aderenti, è rimasta senza Carlos ma Lorena è arrivata al quinto mese. Così ha fatto lei, così avevano suggerito di fare anche a Serena e a Eduardo, per salvare quei due figli che sarebbero nati senza casa, senza soldi, senza pannolini, senza cibo e con due cuoricini un po’ malati, e che oggi invece pesano due chili e mezzo.
Claudio Cerasa
13/02/08
mercoledì 13 febbraio 2008
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