Il super tuesday del pd e ad agosto W a denver con barack
Roma. L’ultima democratica gocciolina di partito liquido atterrerà a New York all’aeroporto John Fitzgerald Kennedy alle diciassette e undici minuti del prossimo primo febbraio, a quattro giorni dal super tuesday primario di martedì prossimo; sarà una gocciolina travestita da delegazione, una gocciolina molto giovane, molto veltroniana, molto democratica, molto americana, che busserà al numero 139 di Fulton Street (sede principale degli obamiani newyorkesi), farà un salto nel palazzo più bello della quarantatreesima strada (alla nuova sede del New York Times), si trasferirà al piano terra dell’American progress di Washington (il think tank di John Podesta), seguirà dieci giorni di primarie americane, comprerà qualche palloncino blu, lancerà in aria molti coriandoli e, con le urne degli stati più grandi aperte, spiegherà all’America democrat perché il Go Go Obama, oltre che a essere ora veltronianamente kennediano, sarà anche democraticamente rutelliano e molto franceschiniano.
Quattro giorni dopo l’ultimo endorsement per Barack Obama (quello di Ted, fratello di Jfk, che arriva dopo quello di Caroline, figlia di Jfk, di Ethel, vedova di Bobby, e di Patrick, figlio di Ted) da via Santa Anastasia, in piena estasi obamiana, partiranno due piccole delegazioni del Pd che studieranno gli ingranaggi primari del partito a vocazione obamiana: da un lato ci sarà il deputato Roberto Giachetti (e con lui i democrat Enrica Braccioni e Benedetta Marino); dall’altra ci saranno invece Gianluca Lioni, Luigi Madeo e Luciano Nobili: tre giovani – tutti ex Margherita – che tra qualche mese esporteranno nel Pd giovanile le primarie americane e che, al loro ritorno, presenteranno ai vertici del loft la propria relazione sulle sfumature del Pd di Obama; sfumature che, nel loft con o senza tessere, con o senza correnti, con o senza congressi, con o senza voti, hanno comunque avuto il tempo di creare qualche piccolo imbarazzo, dato che a piazza Santa Anastasia le idee di Obama sono quelle che piacciono da sempre a Veltroni (che lo scorso anno ha scritto la prefazione alla versione italiana del libro del candidato di colore, conosciuto tre anni prima alla convention democrat di Boston), sono quelle che piacciono dalla scorsa estate anche a Franceschini (ieri clintoniano, oggi molto più obamiano) ma sono quelle che non piacciono da tempo né a Rutelli né a D’Alema; che proprio come le tre figlie di Bobby Kennedy (Kathleen, Bobby e Kerry) tra un “Without Patricio”, un “Politics, the beautiful” e un “Audacity of hope” preferirebbero senz’altro le 672 pagine autobiografiche della metà clintoniana del Pd americano. Perché il loft oggi è certamente kennediano ed è certamente maggioritario: ma è noto che tra i veltroniani – almeno fino a poco tempo fa – c’è più Hillary che Obama e c’è più Bill che Barack. E se sabato prossimo a New York arriveranno i giovani del Pd a studiare l’obamismo elettorale, il prossimo 25 agosto alla convention democrat di Denver (che potrebbe incoronare candidato presidenziale Obama) quel giorno, che ci sia un governo tecnico o no, che ci siano elezioni oppure no, W ci sarà. Ed è anche per questo che quella leadership calda costruita sognando Luther King, Kennedy, Madre Teresa e Ségolène Royal, W oggi vorrebbe vedersela riconosciuta non tanto come post blairiana (come scritto dal Times) e neppure come postclintoniana (come suggerito da Newsweek): semplicemente, W la vorrebbe un po’ più a vocazione obamiana. E al suo ritorno, l’ultima democratica gocciolina di partito liquido proverà a spiegargli un po’ come si fa.
Claudio Cerasa
30/1/08
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