La gravidanza della madre, la pozione della nonna e poi l’uncino e i coltelli. Zeffirelli racconta i tre giorni in cui non doveva esistere
Il papà era un uomo molto affascinante: era ben piazzato, era forte, era agile, aveva gli occhi azzurri, passeggiava masticando stuzzicadenti, aveva dei magnifici cappellini monocromati e aveva sempre, quel mascalzone, un sorriso grande così. Si chiamava Ottorino Corsi, vendeva i tessuti più belli di Firenze, diventerà il padre di uno dei registi più famosi del mondo e anche quella volta fece la stessa scelta che aveva fatto per tutti i primi tre anni di guerra: solo quelle sposate, solo quelle con un marito, solo quelle belle come lei; come quella donna che, lottando contro tre aborti, di lì a poco sarebbe diventata la madre di Franco Zeffirelli. Lei si chiamava Alaide, era una sarta molto famosa, aveva un atelier al numero due di Piazza Vittorio Emanuele, a Firenze; aveva sposato da giovanissima un avvocato, un po’ più grande di lei; amava molto la musica di Mozart e aveva quel morbido profumo di seta che hanno solo le signore che lavorano con i tessuti. Alaide, però, per il signor Corsi, non fu esattamente come le altre: fu corteggiata a lungo, divenne la sua cliente preferita, cominciò a comprare da lui le lane più pregiate e scoprì quell’affetto che da due anni non aveva più trovato e poi, quando lei aveva ormai quasi quarant’anni, lui le regalò un figlio. Un figlio amato, ma non desiderato; un figlio che un giorno sarebbe diventato attore, regista, sir e senatore; un figlio che però proprio non doveva nascere, non doveva esistere, non doveva esserci. Perché, come le dicevano i genitori, non è il caso, non è il momento, non puoi farlo, e che cosa direbbero di te. E per tre volte, Franco Zeffirelli, rischiò di non esserci davvero. Ci proveranno in tutti i modi: la prima volta fu un coltello, la seconda fu una pozione, la terza fu un uncino. Era una questione di principio: ora tu non puoi, ora non devi. Non puoi: perché non hai l’età, perché hai già tre figli, perché sei una donna felice e perché con il tuo lavoro un altro figlio sarebbe una pazzia. Non devi: perché sei già sposata, perché lui oggi c’è e domani chissà e perché tutti saprebbero che il figlio portato in grembo non può essere di tuo marito, moribondo da tempo in un ospedale di Pratolino; doveva essere del tuo amante: Ottorino Corsi; quel signore diventato famoso a Firenze per essere caduto da cavallo, per essere stato riformato a ridosso della Prima guerra mondiale e per essere rimasto in Toscana quando tutti i mariti più belli, più forti e più giovani della regione erano partiti per andare al fronte, lasciando Ottorino libero di comportarsi come un galletto nel pollaio. Così fu. Dovevano essere belle, formose, alte e soprattutto poco disponibili: andò così con le famiglie Gherardini, Martelli, Gori, Venturi, Piccardi e andò così anche con sua madre Alaide. Come ricorda Franco Zeffirelli, quel mascalzone aveva anche una tattica. Funzionava così: lui inseriva nel suo calendario il giorno in cui sarebbe arrivata la licenza di questo e di quel marito, aspettava che il marito uscisse di casa, faceva passare due o al massimo tre giorni, poi bussava alla porta e ci provava. Fino a quando non arrivò lui: quel bastardino di Franco, come per anni fu chiamato il regista fiorentino. Non doveva nascere, non ci doveva essere e non doveva esistere. E Zeffirelli, o meglio Zeffiretti, che scoprì la sua storia qualche anno dopo la morte della madre, la rivive ora con il Foglio, seduto sul divanetto della sua casa romana sull’Appia antica, di fronte a una pila alta di vhs dell’“Otello”, dell’“Enrico V”, di “Sparrow”, del “Processo del lunedì”, di “Viva la diva”, de “Lo schermo vietato”, della “Traviata” e dei “Pagliacci”. “Non dovevo nascere, perché non era previsto, perché era uno scandalo, perché mia madre era al top del suo successo, e perché, come capitava ieri a Firenze e come potrebbe capitare oggi dovunque, se nasce un figlio non è detto che tu stia lì a pensare che quel bimbo potrebbe cambiare il mondo, è probabile invece che tu stia lì a pensare che quel figlio ‘potrebbe mettere a repentaglio il nostro rapporto’, che quello non sia ‘il momento giusto’, che ‘prima bisogna trovare un buon lavoro’ e che non ha senso se ‘non sei sistemato’. E spesso non ti viene neppure in mente che quella vita ancora non conosciuta andrebbe sempre e comunque rivelata. Sempre. Perché non è scontato che ti venga in mente che quel fiore è un fiore esplosivo, che quel fiore è già bello che fatto quando si crea, e non quando nasce. E quello che si chiama ‘l’incognito’, ‘il fascino del mistero’, perché quello è un fiore che esplode e che forse tu non lo sai, ma rivoluzionerà il mondo. E’ la nascita, quella. E’ quella cosa che fa cantare e che fa suonare le fibre più segrete di ognuno di noi. E’ la vita, e tu la vedi mille volte al giorno. La vedi quando nasci e la vedi anche in una di quelle camere buie dove tu entri, apri la porta e scopri che dalla stanza accanto arriva una luce che ti dice dove andare. E’ l’insostenibile fascino del mistero, questo. E’ la gioia di poter donare la luce a chi non vede ancora e di poter aprire una finestra, spalancandola sul mondo. E’ il sapere che lì dentro c’è una vita e che lì dentro forse ci può essere un genio, o forse no, e che comunque vale la pena di vedere, o almeno di sentire, la luce che fa”.
Il marito della mamma, Alberto, morì all’ultimo mese di gravidanza. Erano gli ultimi giorni dell’ottavo mese e la mamma, Alaide, arrivò al funerale del papà dei suoi tre figli (Giuliana, Adriana e Ubaldo) con il quarto figlio nel pancione. Lui, il marito, era un avvocato e da due anni era gravemente ammalato. Tubercolosi, dicevano. Poche settimane dopo la morte di Alberto, Alaide sarebbe diventata mamma per la quarta volta. Fu un parto difficile: a quarant’anni, e con un corpicino fragile come il suo, Alaide sapeva che sarebbe stato un rischio partorire. Ma quel figlio lei lo voleva, e senza che ci fosse una spiegazione precisa: lo voleva e basta, anche a costo di non farcela, anche a costo di non riconoscerlo, anche al costo di farlo nascere come se fosse “illegittimo”. “N”, “N”, scrissero. “Nescio nomen”, riportarono nel suo primo documento ufficiale. Perché in quegli anni, per i figli “illegittimi” con la doppia “N” c’era una regola precisa, e il figlio nato con il nescio nomen, per avere un nome, doveva essere abbinato a una lettera: una lettera per ogni giorno del calendario. Quel giorno era il dodici febbraio e toccava alla lettera zeta. Zeta, proprio come quei “zeffiretti gentili” di cui aveva sentito parlare mamma Alaide in un Idomeneo, visto pochi giorni prima. “Zeffiretti”, disse dunque la madre al copista del comune di Firenze, che prese nota e scrisse quel cognome con due “l” invece che con due “t”. Poche ore dopo, il piccolo Zeffirelli fu restituito a due puericultrici che per un anno lo affidarono a una coppia che abitava nella valle del Piombino. Senza cognome, senza nome, senza padre e con tre aborti andati miracolosamente male. Ma quel figlio lei lo voleva e basta.
“Diceva alle mie zie che la vita non va fermata, che un bambino non può essere schiacciato e che deve comunque aver la possibilità di nascere, a qualsiasi costo. Come darle torto? Se oggi penso a una vita che non c’è e che ci sarebbe potuta essere, io sto male; è una cosa che non accetto, è una cosa che non capisco ed è una cosa che neanche riesco a giustificare. Quella cosa va chiamata con il suo nome, cioè vita. E se una mano sublime ha fatto sì che un uomo e una donna si siano miracolosamente congiunti, e che il risultato alla fine sia stata la concezione di una creatura, che ci si creda oppure no, bisogna immaginarsela questa natura: una natura che vuole orientarsi, che per andare avanti ha bisogno di decine di migliaia di tentativi e che, se la si soffoca, qualcuno poi dovrebbe spiegare come fa ad andare avanti. Credo sia un discorso semplice: la mamma, quale che sia la sua condizione, è il tramite sacro per entrare nel mondo, è un ascensore per scendere giù, e se lei non ti aiuta, l’ascensore non funziona, si blocca; e l’amore rimane tutto strozzato”.
Continuavano a dirle mandalo via, tronca con lui, liberati del bastardino, vergogna, vergogna, vergogna. Per questo ci avevano provato tre volte: la prima con un dottore, la seconda con una pozione, la terza con un uncino. Con la pozione andò così. La mamma era sdraiata sul letto e non si sentiva bene. Colpa del bimbo, le dicevano; no, è solo mal di testa, lei rispondeva. Sua madre, la nonna di Zeffirelli, la vedeva, e diceva di volerla aiutare. Chiamò una fattucchiera, come la chiamava la zia, e fece preparare un intruglio: erbe, liquidi e qualche strano colorante. Prendine un po’, tesoro. Alaide ci pensò un attimo e poi scoprì l’inganno, e scoprì che la madre non pensava che fosse davvero tutto un problema di testa, pensava che fosse tutto un problema di pancia. E Alaide scoprì che quell’intruglio non era per la testa, scoprì che era per il bambino, buttò per terra il bicchiere, lo frantumò in mille cristalli, si alzò e uscì di casa. Lo voleva, quel bimbo. Lo voleva disperatamente, come se fosse l’ultima cosa buona della sua vita. Perché, seppur impropria, quella era una coppia bellissima: era al centro dei pettegolezzi, era diventata famosissima e sentiva che senza quel dono lei avrebbe vissuto con una parte di sé in meno, e con una parte in meno di Ottorino. Signora, le dicevano, lei è in pericolo di vita, non scherzi, lasci perdere con quel bambino. Bene, rispose lei, allora vorrà dire che se morirò, morirò più fiera di voi, e lascerò in terra quello che voi non avrete neppure in cielo: un figlio. Poi arrivò il coltello, perché l’uncino è troppo facile da immaginare. Un taglietto e via, le avevano detto. Ci provarono una sera di ottobre, e ci provarono legandola a una sedia. Mani, piedi, vita, collo. Tutto un nodo, tutto legato. Tutto un unico bavaglio. Si erano avvicinati in due per aprirle le gambe ma lei riuscì a slegarsi, si avvicinò al dottore e gli spaccò in testa un vaso di ferro. Il vaso in realtà non si ruppe, la testa del dottore, ricorda sorridendo Zeffirelli, un po’ sì. E quando glielo raccontarono, quando gli raccontarono dei tre quasi aborti, quando gli raccontarono della nonna, quando gli raccontarono che lui non doveva nascere, il regista fiorentino iniziò a pensarci un po’. Iniziò a pensare a quello che lui oggi chiamerebbe il grande manovratore, qualsiasi cosa volesse significare. “Mi sono chiesto perché sono io, dove sono io, come sono io, come sono diventato io, e perché il grande manovratore ha messo me nel grande novero, aprendomi quella porta. Quella porta che può essere aperta su una rampa di scale molto ripida, come ripida fu la mia; una porta che può anche aprirsi in un baratro, o in un burrone. Ma sempre una porta è, e tu non sai cosa puoi trovarci dietro. Ed è sempre meglio tenerla aperta che tenerla chiusa, qualsiasi cosa significhi tenerla aperta. Perché ogni figlio è come un desiderio mandato in terra, è una traduzione del linguaggio celeste in linguaggio umano, è una testimonianza del sublime, del supernaturale, e del principio del divino. Una donna che apre la porta è una donna molto forte. Una donna che non apre quella porta è una donna che resterà ferita per tutta la vita”.
Franco Zeffirelli, come scrive nella sua autobiografia, è cresciuto in un un periodo in cui il sesso non era così facile da frequentare; un periodo in cui la maggior parte delle ragazzine arrivavano vergini al matrimonio così come vergini, spesso, ci arrivavano anche i maschietti; un periodo in cui, come fu poi per lui, l’omosessualità si nascondeva come un fiume sotterraneo. Niente figli, dunque. Ma molti figli sono nati grazie a lui. Li ricorda uno per uno, Zeffirelli. Come se quei figli, che non dovevano nascere e che sono nati grazie a una sua parola, fossero in fondo un po’ carne sua: “Perché questa maschilità che non sono riuscito a esprimere attraverso la paternità ho cercato di farla vivere sfruttando la mia celebrità, e influenzare i cuori incerti nel prendere una decisione di vita. Quel mascalzone di mio padre lo faceva con il coitus che non voleva fosse interruptus. Lui lo faceva per il proprio piacere, io continuo a farlo come se fosse una piccola missione”. Ricorda quella volta in America, al New York City hospital, quando incontrò una signora di colore, scoprì che voleva abortire, scoprì che voleva farlo di nascosto dal marito, parlò con lei, parlò con il ginecologo e dopo qualche giorno la signora decise di non abortire più; ricorda quella volta alla Scala di Milano, quando una corista scoprì di essere incinta, scoprì che il suo fidanzato non voleva il bambino, vide il suo fidanzato andare via di casa, lui le parlò e provò a convincerla. Le disse di provarci, e così fu. Proprio come a Roma, all’Ospedale Fatebenefratelli, quando lui passò di fronte al reparto di ginecologia e vide una donna disperata. Era in fila, pronta per ricevere il certificato. Lui la guardò e lei lo riconobbe: “Maestro!”. Lui le chiese perché, si fermò a parlare e scoprì che lei voleva il bambino, ma non poteva. Lui la guardò, e le raccontò la sua storia: le raccontò dei tre aborti, del coltello, dell’uncino e della pozione; le spiegò che se quel giorno a Firenze, la mamma lo avesse ammazzato, lei, ragazza con il pancione, oggi non avrebbe nessuno da ammirare. Perché quel piccolo è come me, le disse. Io sono come lui, tu sei come lei, e se tu lo fai, il tuo bambino non disegnerà mai una stella più grande della mia. Poi arrivò il marito e ci fu una piccola baruffa. Il marito, il figlio non lo voleva, e la donna cominciò a urlare: “questa è una storia mia”, “questa è una storia mia”. Il marito non capiva, guardò il regista, lo spinse via e gli chiese che cosa significa “è una storia mia”. E gli chiese: mi scusi: ma lei conosce mia moglie? Parlarono un po’, poi Zeffirelli andò via. Pochi mesi dopo, i due diventarono papà e mamma, arrivarono sull’Appia, bussarono al cancello, chiesero di Zeffirelli, lo salutarono, presero in braccio un bambino, glielo passarono e poi gli dissero: buongiorno maestro, scusi il disturbo, siamo qui solo per presentarle il piccolo; il piccolo Franco.
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