martedì 19 febbraio 2008

Il Foglio. "Mia figlia valeva 232,19 euro al mese"

Consultori, comuni, assegni, buoni natalità, operatrici e una gravidanza “consapevole”. Storia di una bambina e della sua “incompatibilità normativa”

Aveva la bocca un po’ impastata, continuava a mangiare molte focacce, fumava qualche sigaretta in meno e aveva cominciato a nascondere tre Lindt al cocco nella tasca del suo piumino bianco. Poi era salita da sola a casa, si era seduta in cucina, il test era diventato tutto blu e le avevano detto sono affari tuoi. Il giorno dopo aver scoperto di essere incinta era un lunedì mattina: Tiziana era arrivata al consultorio familiare di Cinisello Balsamo, al civico numero due di via Friuli, e tra un pap-test, una visita al seno, una vaccinazione pediatrica, un’assistenza personalizzata, una consulenza sociale e una visita medica, sapeva che le avrebbero spiegato tutto. Dopo toccava a lei; e lei voleva capire, ora, come diavolo funzionava. Come avrebbe fatto una mamma senza soldi come lei a portare avanti la gravidanza. Non era semplice, però: Tiziana aveva trentanove anni, lavorava in una società di organizzazione catering per eventi e matrimoni, si era laureata qualche anno prima alla facoltà di scienze Politiche della Cattolica, a Milano, era stata votata come “rivenditrice dell’anno” nel 1999, si era licenziata dalla sua vecchia azienda di carta da macero, aveva iniziato da poche settimane un corso da barman e, proprio come ogni anno, ad agosto sarebbe andata per qualche giorno in vacanza in un posto a scelta tra Australia, Sudafrica, Valtellina, Montpellier e San Francisco. Quest’anno aveva scelto Melbourne e ci sarebbe andata anche se era incinta, Tiziana: ma con un codice “emme cinquanta” e con le contrazioni che le sarebbero cominciate già alla fine del quarto mese, da sola non sarebbe stata più in grado nemmeno di andare in bagno. Tiziana ora doveva scegliere, e la scelta era terribile: le avevano detto o il mutuo o la bimba, ma era come se le avessero detto signora, o la borsa o la vita
Tiziana era ancora indecisa: tre settimane di gravidanza non sono nulla, diceva, ma a trentanove anni il solo pensiero di diventare mamma per la prima volta era un’idea semplicemente pazzesca Lei avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di occuparsi della sua bambina: ora però voleva capire che cosa doveva fare; voleva capire che cosa significava, davvero, lasciare il lavoro per fare la mamma, e che cosa significava per una donna con la partita Iva – che prima di rimanere incinta e prima di lasciare il suo lavoro guadagnava mille e cento euro al mese – mettere la sua vita nel cassetto della maternità e rinunciare a tutto il resto per un po’; anche al suo unico stipendio, come le ripeteva, dal giorno dopo il test, la sorella Silvana; Silvana era molto eccitata, e Tiziana sapeva perfettamente perché. Anche lei era codice emme cinquanta.
La notte prima, Tiziana aveva cenato molto presto, aveva navigato per un’ora e mezza su Internet e aveva scoperto che una mamma aveva diritto a qualche aiutino dallo stato. Forse. Lo stato, aveva letto, garantiva un “fondo” per le “necessità della maternità”. Quel fondo un tempo valeva circa 50 miliardi di lire e sarebbe servito a bilanciare tutte “le carenze economiche che sono causa delle interruzioni di maternità”. Così dice la legge 194. Poi però Tiziana aveva scoperto che in Italia c’è un “bonus maternità” e un “assegno di maternità”. Tiziana aveva un po’ di confusione in testa, ma in linea di massima aveva capito la differenza: il bonus maternità era un contributo dell’Inps che andava a coprire la mancata entrata di reddito “a seguito dell’impossibilità di lavorare”. E Tiziana non lavorava più. Il secondo, l’assegno, era invece un buono che andava a coprire “l’aumento della spesa determinato dalla nascita del bambino”. E la spesa lei sapeva perfettamente che sarebbe aumentata: pannolini, bollette, medici, latte, passeggini e così via. Tiziana aveva scoperto che dal 2005 al 2007 l’assegno di maternità aveva però perso di consistenza: in soli due anni, non aveva capito bene perché, era stato letteralmente “tagliato”, passando dai 1.747 euro del 2005 ai 1.470 euro di qualche mese dopo. Qualcosa sarà rimasto, scherzava lei con la sorella. E in fondo Tiziana era nelle peggiori condizioni per fare una figlia ed era, dunque, nelle condizioni giuste per essere aiutata: aveva la sua età, aveva sempre pagato le tasse, aveva sempre versato i contributi, non aveva precedenti penali, era senza fidanzato, era da sola a casa, non aveva uno stipendio e aveva una gravidanza che lei chiamava “inaspettata” e che gli invece consideravno solo“indesiderata”.
La mattina dopo, Tiziana arriva al consultorio di zona, racconta la sua storia, racconta del catering, della partita Iva, dei barman, della gravidanza e del mutuo; e poi spiega, molto chiaramente, che lei la bambina l’avrebbe voluta, ma che senza un aiutino non sapeva proprio come andare avanti. Tiziana voleva risposte; voleva “cose chiare”, come diceva lei. Ci sono soldi? Ci sono aiuti? Ci sono sostegni? Ci sono i bonus? L’infermiera, che in consultorio si chiama semplicemente “operatrice”, l’aveva ascoltata per cinque minuti e dopo aver messo insieme quattro fogli protocollo con una spillatrice ad aria compressa l’aveva guardata e le aveva detto così: “La gravidanza è una scelta consapevole: o ti basi sulle tue forze oppure è meglio non averla”. Poi l’operatrice aveva cominciato con le domande: “Ma lei è sicura? Ma lei è sposata? Ma lei ha un mutuo? Ma lei è da sola? Ma lei è al primo? Lo vuole davvero? Ne è certa? Ha riflettuto? Lo sa che non ci sono fondi?”. Pochi minuti dopo, Tiziana esce dal consultorio con un paio di fogli protocollo e un appuntamento fissato per il giorno dopo dalla ginecologa. Tiziana aveva pensato che le domande dell’operatrice erano domande molto sensate, ma aveva sapeva perfettamente che dopo un mese di gravidanza in quelle condizioni non aveva bisogno che qualcuno le facesse molte domande; Tiziana aveva bisogno solo di qualche risposta e possibilmente di un po’ di soldi, e al momento non c’era nessuno che le aveva detto come trovarli.
Tre giorni dopo, Tiziana arriva al numero dieci di via Frova, alla sede del municipio di Cinisello Balsamo: lo stesso municipio dove, poco tempo prima, la sorella Silvana era entrata ben due volte. La prima volta con un un codice emme cinquanta e un bambino all’ottava settimana, la seconda volta con un altro codice emme cinquanta e un bambino al settimo mese di gravidanza. Codice emme cinquanta significa gravidanza a rischio. Gravidanza a rischio per lei significava “gestosi”; quindi diminuzione delle piastrine, rottura dei globuli rossi, sangue che si coagula in maniera anomala e placenta che nella seconda fase della gravidanza percepisce il bambino come se fosse un corpo estraneo, e quindi cerca di espellerlo. Il primo bambino, Silvana lo aveva abortito al terzo mese e lo aveva “espulso”, come si dice in questi casi, con un aborto spontaneo. Era il sette gennaio del 2006. Il secondo bambino, era nato non molti mesi dopo, con un taglio cesareo di dodici centimetri all’ottavo mese di gravidanza: sano fino a due giorni prima, morto soffocato dalla placenta il giorno del parto. Codice emme cinquanta e gestosi, Silvana; codice emme cinquanta e gestosi sarà anche Tiziana.
Al comune di Cinisello Balsamo, l’assistente sociale era stata chiara con lei: Signora, mi spiace, i fondi non ci sono. Tiziana aveva scoperto che i fondi dello stato “per sopperire alle carenze economiche” non esistevano più. Le regioni e le province avevano delegato la gestione del fondo ai singoli comuni, lo stato non aveva più l’obbligo di occuparsi direttamente del “sostegno” alle nascite, e i singoli comuni erano – e sono – così liberi di gestire la propria “quota natalità”. Tutto ciò che era disponibile per Tiziana era un “contributo ordinario”, un assegno da 150 euro al mese (per sei mesi), un corso gratuito per il preparto (con “lezioni in piscina”, “cuffiette gratuite” e “orari flessibili) e un pacchetto di sedute di “massaggi infantili”. Nessun fondo per la maternità, nessuno psicologo, nessun aiuto economico. Tiziana aveva scoperto che in un comune come il suo, in un comune da 99 mila abitanti, ciò che si riesce a mettere da parte per un fondo sociale, al massimo, sono 50 mila euro all’anno; e poco puoi fare se al posto del bonus natalità devi lavorare sulla ripavimentazione di una piazza o sulla definizione di una barriera anti traffico. In pochi giorni, Tiziana aveva scoperto che tutto quello che era previsto per una mamma come lei erano centocinquanta euro al mese, un massaggio infantile e un maledettissimo corso di preparto. E anche per quel piccolo contributoro la prassi era quella che era: dovevi compilare il tuo modulo Isee, verificare se il tuo reddito superasse, o no, i 18 mila euro annui, inviare la richiesta con il francobollo, aspettare che la richiesta arrivasse in giunta, che fosse votata, che il comune l’accettasse e che la “ratifica” arrivasse con una lettera a casa. Tiziana non ci stava più capendo nulla.
Dopo aver fatto due conti, e dopo aver capito che con 150 euro al mese avrebbe pagato sì e no la bolletta del telefonino, Tiziana decide di chiedere al comune qualcosina sull’Istituto nazionale di previdenza sociale: certo, era disoccupata, ma aveva sempre pagato i contribuiti; e ora voleva capire cosa c’era per una futura mamma. Con l’Inps era andata più o meno così: le avevano detto che la procedura sarebbe stata un po’ “macchinosa”, che avrebbe dovuto presentare la domanda al comune, che l’Inps avrebbe dovuto studiare la pratica e che poi le sarebbe stato inviato un assegno a casa, ma solo ad aprile. Tiziana non capiva: “Come ad aprile? Io ho bisogno dei soldi ora. Ad aprile mia figlia avrà già tre mesi e io non avrò più nulla. Ditemi: che cosa me ne faccio dei vostri soldi ad aprile? Come faccio ad arrivarci io, ad aprile?”. Ad aprile: perché prima di poter dare il via libera all’assegno di maternità, l’Inps avrebbe dovuto aspettare l’effettiva consegna delle tabelle sugli assegni familiari. E prima di aprile, l’Inps non sarebbe mai riuscito a versare sul conto di Tiziana i 292,13 euro al mese previsti per il bonus di maternità. In pochi giorni, tra stato e comune, aveva messo insieme per la sua futura bimba circa 450 euro al mese. Di questi, 292 euro sarebbero arrivati solo ad aprile.
Il giorno dopo la richiesta dell’assegno, Tiziana aveva però scoperto “un’incongruenza”. “Un’incongruenza a livello normativo”, le avevano detto in comune senza capire cosa significhi davvero dire a una donna al quarto mese, con un codice emme cinquanta, “qui c’è un problema normativo”. Ora doveva scegliere, perché – le avevano spiegato – chi ha l’assegno non può avere il buono. O l’uno o l’altro. Tiziana era disperata. Anche perché, oltre ai soldi che forse non avrebbe mai avuto, sapeva perfettamente quali spese ci sarebbero state se quella bambina, che si sarebbe chiamata Francesca, fosse nata davvero: pannolini, passeggino, seggiolino per la macchina, mutande monouso, assorbenti lunghi, trecento grammi di latte ogni nove giorni, duecento grammi di latte liquido per ogni poppata, sei euro per ogni confezione da trenta pannolini, gocce milicon per le coliche, Libenar Spray per il naso, spugnette per le braccia, salviette per il viso; e poi le bollette, l’acqua, la corrente e la luce che salivano sempre di più. Stringendo, stringendo, la spesa sarebbe stata di un euro al giorno per due mesi.
Alla fine del sesto mese, Tiziana si era ritrovata con il problema dell’asilo. Nel suo comune di residenza, a Cusano Milanino, aveva scoperto che non esisteva un nido. I pochi bambini che rientravano nelle graduatorie venivano dirottati a Sesto San Giovanni e quelli che non finivano lì potevano provare a fare domanda in quello vicino di Cinisello Balsamo (dove la retta mensile di 392 euro sarebbe stata però superiore all’assegno dell’Inps). Tiziana aveva saputo che per i bambini nati dopo il mese di settembre 2007 il primo posto libero all’asilo di Cinisello sarebbe stato nell’anno scolastico 2009/2010. Troppo tardi. Ma non solo, perché i genitori con più possibilità di iscrivere i propri figli all’asilo erano quelli “occupati”, non quelli disoccupati come lei. E per non pagare i 500 euro al mese di asilo privato, Tiziana avrebbe avuto solo una soluzione: non far riconoscere la figlia al padre; così, le avevano spiegato, tua figlia “salirà in graduatoria”. Tiziana aveva appena scoperto che per lo stato sua figlia valeva 292,13 euro al mese; la sua, effettivamente, non sarebbe mai stata una gravidanza “consapevole”. O il bonus o l’assegno. O il muto o la bimba. O la borsa o la vita. E dopo i due giorni al comune, dopo i tre giorni in consultorio, dopo la settimana all’Inps, e prima di scoprire a Milano, il Centro aiuto alla vita (quello di Paola Bonzi), per Tiziana valevano le parole di Ennio Flaiano “Ci sono molti modi di arrivare. Il migliore però è quello di non partire”. Poi Tiziana è arrivata al Cav, e ha deciso di partire. Oggi Francesca festeggia sei settimane.
Claudio Cerasa
19/02/08

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