sabato 24 febbraio 2007

Il Foglio. "La fatal Vicenza. Catalogo aggiornato dei più bei tipi da piazza"

L’ha compilato il nostro cronista osservando il popolo dei no Base, no Tav, no Vat, no Cav. Fenomenologia a colori della manifestazione che ha dato la spallata al governo Prodi

Di Claudio Cerasa

No base, no Tav, no Vat, no Cav, no
Global, no Usa, no Nato, no Onu, no
Prodi, no Rutelli, no gas, no war, not in
my name, no Bush, no Condi, no scuola,
no Bersani, no Dico, no, no, no. Il primo
sì della manifestazione di Vicenza arriva
alle 17.15, cinque chilometri dopo la
questura, la polizia, il petardo, lo striscione
del centro sociale Gramigna che
un po’ c’era e un po’ non c’era, il fiume
con i poliziotti nascosti lungo l’argine, il
primo cordone, poi il secondo, ma quando
cade Prodi?, Ferrando che fa il pugno,
avanti compagni, hasta la victoria
compañeros, la bandiera del Chiapas, la
stella a cinque punte, yankee go home,
americani vaffanculo, ma scusate dov’è
la testa del corteo?, dove sono i centri
sociali, dove sono i Cobas, dov’è la Cgil,
e no, questi sono i Verdi, no, con tutti,
ma con i Verdi no. Dopo tre ore di corteo,
dopo cinque chilometri, al lato della
strada c’è un poster con una bimba,
un uomo e una donna. Si legge: “Sì, questa
è la famiglia”. C’è il simbolo dell’Udc,
i no Base non c’entrano ma questo
è l’unico “sì” in dieci chilometri di
marcia pacifica o, come si dice, di protesta
non violenta, ma anche un po’ girotondo
(perché tutti intorno a Vicenza),
ma anche un po’ no Global e un po’ no
Tav (perché per carità l’alta velocità) e
anche un po’ no Vat perché al massimo
le moschee, ma no, niente chiesa, niente
guerra, niente Afghanistan, niente
Iraq, niente Bersani. Ah, certo, naturalmente,
anche un po’ “no Base”. Ma a
una settimana di distanza, ora, a bocce
ferme, con un Prodi che si è dimesso (e
Vicenza c’entra, ma fino a un certo punto),
con un D’Alema che è stato bocciato
(e non certo soltanto per Vicenza dato
che il ministro degli Esteri – mercoledì
al Senato – della Base ne ha pure parlato,
anche se non gli è bastato), con un
presidente della Repubblica che due
ore prima di ricevere Prodi al Quirinale
era a Bologna e aveva detto che attenzione,
“la piazza non è il sale della democrazia”,
una settimana dopo, ora, cosa
rimane della piazza? Cosa rimane
della base di Vicenza? Perché la base a
Vicenza si farà, magari non nella spianata
del Dal Molin, magari non nell’aeroporto
civile, ma si farà, punto. E non
basterà un Prodi Due, un Cav. Tre, un
D’Alema Due, un Amato Tre, un Fassino
Uno, una consultazione o una crisi di
governo per cambiare idea. E a Vicenza
gli ottantamila o centomila o duecentomila
o quanto diavolo erano i manifestanti
del corteo di sabato scorso, que sto
lo sanno e lo sapevano perfettamente.
Perché se la base, a Vicenza, si farà
davvero, la base di Vicenza, quella fatta
dai duecentomila, centomila, ottantamila
manifestanti, quella fatta dai no Global,
dai no Tav, ma anche dai poliziotti,
dai giornalisti, dai Ferrando e dai no
Vat, se quando c’era il Cav a Vicenza si
capiva cosa voleva se quando c’era Prodi
a Vicenza si capiva chi non voleva,
ora tutti quei manifestanti che (anche se
non lo volevano affatto) in fondo in fondo
hanno dato una spallata al governo
Prodi, chi erano, cosa facevano e soprattutto
volevano davvero qualcosa?

L’organizzatore e il capannone. Ha una
maglietta con la manica corta, nera,
stampa con la scritta “Carletto-Giulianipiazza,
ragazzo”, tatuaggio a ragnatela
sotto il gomito destro, un orecchino nero
incastonato nel lobo, non è mai il più alto
del gruppo, ha i capelli corti, non ha
mai l’accendino, la mattina parte dalla
base Dal Molin, sono le 10.30, sabato, 17
febbraio, la base è circondata da poliziotti,
il presidio permanente è stato
montato due martedì fa, un capannone,
trenta metri quadrati, tanti volantini, un
po’ di fango, di fronte un camion con megafono,
“compagni, prendete lo stereo”,
per terra un cestino, si montano gli striscioni,
“Fuori la Nato dalla storia”, gli
elicotteri si abbassano, si alzano molte
dita medie, due signori hanno il manifesto
sotto braccio, passa una donna, cinquant’anni,
capelli rossi, ha un cartello,
“I giornali sono la ferrovia delle bugie”,
molte magliette nere, si comincia a cantare,
si legge su uno striscione “filoamericano
uguale anti italiano”, ci sono anche
gli amici di Beppe Grillo, però non
c’è Beppe Grillo, c’è un “Galan terrorista”,
si suonano le pentole, dentro il tendone
parte la rassegna stampa “con
quello che i giornali (non) dicono”, altri
manifesti, l’organizzatore ripassa con lo
spray “politici italiani servi e schiavi del
padrone Bush”, due giornalisti di una
radio slovena gli chiedono: “Ma voi cosa
volete?”, risposta, “non vogliamo loro”,
“sì però, che volete?”, risposta, “non vogliamo
la guerra, peace e anche love”. Si
canta il mio nome è mai più (Ligabue,
Jovanotti, Piero Pelù), sulla grata di
fronte a via Ponte di Marchese, ha appena
finito di appendere alcuni striscioni,
sono ancora lì, devono ancora asciugarsi.
“No finanziaria”, “No Silvio”, “No
Ederle”, “No Cav”, “No guerra”, “Non
abbiamo governi amici”, “No basi”, e
poi anche un “Non si parcheggia”.

Il poliziotto in borghese. Il poliziotto in
borghese si riconosce dalle Nike nere
con il baffo rosso, ultimo modello, centottanta
euro, cuscinetto arancione, marsupio
Invicta verde (con molte tasche e
parecchie cerniere) pantalone molto
giovanile ma non troppo, jeans chiaro
ma non scucito, la piega non è ai lati ma
è al centro, la giacca nera very young ma
poco credibile, stile: “Mi scusi, mi dà
una giacca da giovane?”, occhiale nero a
goccia, capello a spazzola, nero, una mano
in tasca. Il poliziotto è perfettamente
integrato con il resto del corteo ma riesce
a rimanere sempre nella stessa posizione
e per tutti i dieci chilometri lui rimane
lì, si chiama palo, lo chiamano appostamento,
loro dicono che è un approccio.
Ha un telefonino Motorola, con
l’antenna, appoggiato sopra la mandibola,
si cerca un contatto, hai da accendere
uno spinello?, bella fratello, ragazzi
che si dice, accento un po’ forzato, movimento
goffo, è bravissimo, si mantiene in
una posizione un po’ defilata, sorride, a
volte balla la musica tecno, gli occhiali
sempre sul volto. Poi però arrivi al chilometro
numero otto, poco prima del rettilineo,
sei ragazzi parlano tra di loro, un
signore è appoggiato al muro sotto la
macelleria “Carne bovina”, è distratto, è
appena passato il carro con Ariel Sharon
che si mangia un paio di palestinesi,
e con un Prodi di cartapesta, piuttosto
grande, che sorride. Si avvicinano i sei
ragazzi, “Digos boia, Digos-Digos-Digos,
boia, boia, boia”. Si girano in cinque, tutti
vestiti uguali, sono tutti e cinque in
borghese, macchina fotografica in mano,
intanto la questura continua a contare i
manifestanti, sono trentamila, quarantamila,
ottantamila, dall’altra parte i partiti
dicono no, siamo centomila, duecentomila.
Quando i poliziotti stimano non
si scherza, il loro è un calcolo molto preciso,
vedono i treni, vedono i pullman, e
appuntano. Ogni pullman ottanta manifestanti,
poi sommano i pullman, i treni
e le macchine, leggono le cifre che dà
l’Ansa, tolgono un po’ da quei numeri e
dicono la loro. E loro dicevano, i poliziotti,
dicevano ottantamila, gli altri minimo
centomila, e quelli in mezzo?, i
ventimila in più?, bella ragazzi, che hai
da accendere uno spinello?

Manifestante Primo Maggio. Non è un
no global, non è un no Tav, non è uno da
“Fuori gli Usa”, “yankee please go home”,
“americani terroristi”, “servi di
Bush”, “l’Italia non si Usa”. Se va a Venezia
e si trova di fronte alla stazione di
Santa Lucia una vetrina con una scultura
di una Madonna che tiene un Cristo
che le muore in braccio (firmata Micheal
Angels) e vede che sotto la scultura
c’è una didascalia che spiega che gli
americani “riempirono già tre anni fa
sterminati campi di battaglia di cadaveri”
e se poi vede che il sangue di Cristo
è stato sostituito dal rosso e celeste della
bandiera americana, a lui non gliene
importa nulla. Lui va in piazza perché
se l’era scritto sull’agendina ed era uno
di quelli che lui chiama “appuntamenti
da non perdere”. Chissenefrega della
base, ma non scherziamo. Il profilo: non
guarda la tv, non ama quelli che dicono
che gli altri sono turisti della democrazia,
è stato il primo a dire che Fidel Castro
è un pezzo di merda, apprezza Silvio
Muccino ma non può dirlo in giro,
viene spesso a queste manifestazioni
(come Matteo, Bergamo, centro sociale,
32 anni) perché “con una giornata e un
sole come questo non potevi proprio
non venire”, legge Anthony Giddens (su
Repubblica), compra il manifesto, non
vota quasi mai, se vota vota Ds o al massimo
sulla scheda elettorale scrive Luciano
Moggi o magari Pippo Franco (fino
a quando Pippo Franco era solo un
comico, poi si è candidato davvero ed è
passato a Jerry Calà). Lui non ama Diliberto,
dice di non sentirsi rappresentato,
si è candidato due volte alle elezioni
di rappresentante di classe quando
ancora era al liceo, non ama neanche
Rizzo, sfoglia i giornali e si accorge che
a ogni manifestazione Rizzo di fronte a
una macchina fotografica mette in pratica
la geniale “operazione didascalia”.
E cioè: arriva il fotografo, lui si piazza a
sinistra di Diliberto, sorride, click e poi
tutti i giornali, ma proprio tutti (a parte
Libero di domenica) nella didascalia
prendono e scrivono in ordine di apparizione,
“A sinistra Rizzo, a destra Diliberto”
lui se ne accorge ma non gliene
importa nulla. Il manifestante Primo
Maggio va a Vicenza ma va anche a Firenze
per il social Forum, va ad Assisi
per la marcia della pace soltanto se c’è
una giornata che proprio era un peccato
non andare, ama il Primo Maggio ma
non ama più “Il Primo Maggio”, dato
che ormai il Primo Maggio a Roma piove
sempre, Claudio Bisio non fa più ridere
e quindi meglio andare in trasferta,
come per le partite. C’è chi lo chiama
“turista della manifestazione”, a Vicenza
ha fatto amicizia con i ragazzi
della Lega, non gliene importa nulla
della Base, non gliene importa nulla di
quelli che c’erano e che non c’erano,
degli “impegni inderogabili” (di Giulietto
Chiesa), “dello spettacolo di Pordenone”
(di Beppe Grillo), del “sono
troppo vecchio per sfilare” (Massimo
Cacciari), del volevo ma proprio non
potevo (Fausto Bertinotti), del potevo
ma non dovevo (Paolo Cento). Il manifestante
Primo Maggio viene da Roma, o
comunque ci ha vissuto almeno due anni,
a Vicenza non ha trovato nessun bar
con aperitivo, poi però si accorge che
negli ultimi dieci giorni tutti, davvero
tutti, hanno detto qualcosa su Vicenza,
sulla base e sull’America, tranne uno,
incredibilmente oscurato per quasi
due settimane, superato come interviste,
commenti o lettere anche dai disob-
bedienti, da Luca Casarini, dai conduttori
di Radio Sherwood, dai militari del
Dal Molin. Incredibile. Poi però lui
prende il giornale e il giorno dopo la
manifestazione accanto ai “Corteo pacifico”,
a Prodi che parla, Amato che dice
è una vittoria mia, Rizzo (e a destra
Diliberto) che dice no la vittoria è mia,
Prodi che dice la vittoria è nostra, trova
anche Galan (governatore del Veneto)
che si chiede il perché del “miserabile
silenzio” di qualcuno che “si maschera
da americano ma da dieci giorni non
parla”. Il manifestante continua a sfogliare
i giornali, finalmente capisce, arriva
a pagina trenta del Corriere di domenica
e legge “Betancourt, un oblio
scandaloso”, con richiamo in prima e
firmato – dopo due settimane di “miserabile
silenzio” – Walter Veltroni.

I due giornalisti. Esistono due tipi di
giornalisti da manifestazione. Quello in
tenuta da sommossa e quello in tenuta
da fuga. Quello in tenuta da sommossa
ha uno zaino piccolo piccolo, dentro ha
un casco, la mattina si sveglia alle 6.30,
colazione rapida solo con carboidrati, oggi
si corre, anzi, magari oggi si scappa,
pantalone chiaro, scarpa da ginnastica
con calzino ad altezza ginocchio con funzione
da parastinco, ascolta Radio Uno
convinto che Radio Uno aggiorni il giornalista
per tutta la manifestazione, la accende
alle 13 ed effettivamente c’è il notiziario,
l’accende alle 14 e c’è ancora il
notiziario, indossa una felpa sportiva blu,
parte il corteo, ha una cinta rinforzata
(hai visto mai), cammina lateralmente e
attraversa il corteo da una parte all’altra
per poter dire, sto in mezzo, sì ragazzi, ieri
stavo proprio in mezzo a quel delirio,
ha una sciarpa legata alla cinta che usa
per tener nascosta la cinta e per avere i
pantaloni più aderenti. Ma la sciarpa
può tornare molto utile in caso di fumogeni
o lacrimogeni. Dice molte volte “che
succede?”, “hai sentito che diceva quello?”,
si guarda intorno e chiede, “sei un
collega?”. Parte il corteo, alle 15 prova
ad ascoltare il notiziario, sempre su Radio
Uno, come alle 13 e alle 14, solo che
alle 15.00 – come ogni domenica e ogni
sabato quando ci sono gli anticipi – parte
“Tutto il calcio minuto per minuto” ed
entra nel panico, si spaventa e inizia a
smanettare con il telefonino abbonandosi
ad ogni tipo di servizio di aggiornamento
in tempo reale. Spende molti soldi
ma non riesce a leggere neanche una
news in diretta. Poi però si lamenta perché
è stato un pomeriggio molto noioso.
Il giornalista in tenuta da fuga, invece,
non ha tempo per la radio, è un ingombro
inutile, se poi mi incastro, se poi i fili
mi si attorcigliano sulla gamba? Il giornalista
in tenuta da fuga non riesce a
camminare da solo. E’ perfettamente mimetizzato,
non ha sciarpe, non ha felpe
con la zip. Ha quarantadue anni, lo stile
è simile a quello da agente Digos, solo
che lui riesce a sembrare in borghese
pur non avendo una sua divisa, e nessuno
capisce bene come diavolo faccia. Un
genio. La sera prima in albergo aveva
passato tutta la notte a pianificare (“sei
un collega?”) le sue strategie di fuga,
spiegando poi che Ezio quella lettera forse
avrebbe dovuto gestirla meglio, che
forse Dario a Milano chissà cosa avrebbe
potuto fare, conosce tutti gli agenti della
Digos, li saluta, gli agenti ricambiano, i
bar sono aperti, te lo fai un tiro?, Ronaldo
ha segnato il primo gol, Napolitano fa
pace con il presidente croato, passa il
cartello dei “N.a.t.o. per uccidere”, ancora
altri no, ma lui non si spaventa, è
pronto a tutto, il suo abbigliamento è studiato
in maniera scientifica, massima integrazione
con gli altri, nessun rischio,
entra al bar, due Heineken, poi però gira
tutto il corteo accanto a un no global vero,
o almeno un perfetto modello di no
global con cappellino, kefia, giacca colorata,
con i rasta, la felpa di Camden
Town, il pantalone strappato, le scarpe
con i lacci bianchissimi nuovi (ma che
sembrano vecchi) comprati due giorni
prima del corteo. Ma i no global non sono
mai stati così, a lui però non gliene
importa nulla, fa il conto di quanti no
Tav si trovano in giro e appunta, appunta
ancora, dice “grande afflusso dei no
Tav”, ma non si accorge che molti “No
Tav” sono solo dei “No Vat” letti al contrario;
il no global continua a scortarlo,
per tutto il tragitto, lui gli chiede consigli,
lavora in trasmissioni tipo Ballarò, ha
appena comprato il libro di Al Gore,
però non l’ha ancora finito.

Tipologia uomo/donna dello spettacolo.
Si chiama sindrome Nanni Moretti. Da
piazza Navona in poi, da quel febbraio
del 2002, un attore sul palco deve arrivare
all’improvviso in maniera imprevista
(anche se l’attore preferirebbe dire inaspettata)
e deve dire, scusate, non volevo
farlo ma sono stato costretto. Se è un
comico deve essere molto bravo e deve
provare a non far ridere quasi mai (e
Dario Fo è molto bravo in questo), se
non è un comico deve provare a essere
brillante ma senza sembrare neppure
eccessivamente colto per non correre il
rischio di rientrare in quota da “Intellettuale
del Partito democratico” (e Franca
Rame riesce piuttosto bene a non destare
alcun sospetto). Ma da Nanni Moretti
in poi un attore sul palco è costretto
a sforzarsi in tutti i modi per provare
a creare qualcosa, e ci si accontenta davvero
di tutto, va bene il nome di un movimento,
va bene il nome di uno slogan,
va bene una battuta contro un nemico.
Ma se non c’è un Cav. con cui prendersela,
un articolo diciotto contro cui scendere
in piazza, un girotondo, una finanziaria,
una legge truffa, un referendum, una
base ancora da approvare, qualcuno che
per favore, dica qualcosa di sinistra, come
si fa? Non è certo semplice fare nella
vita l’attore in quota antiCav e riuscire
a essere brillante anche prendendo
in giro quella che si fa chiamare la “serietà
al governo”, quella stessa serietà
che in fondo in fondo per quasi nove mesi
ha tolto a molti attori la possibilità di
far successo solo per il semplice motivo
di essere considerato antiCav, e quindi
un sacco fichissimo. E dunque, a Vicenza
c’era Sabina Guzzanti, c’era Dario Fo,
c’era Franca Rame e alla fine hanno
suonato anche i Punkreas. Salgono sul
palco, urlano un po’, “questa canzone è
per loro”, la dedichiamo ai nostri vicini,
quelli della base, su le mani” e poi partono:
“Io il vicino lo devo eliminare, il vicino
è il mio nemico”. La canzone fa proprio
così. Franca Rame, sedici giorni dopo
i suoi autorevoli otto minuti al Senato
contro l’America e le basi e i voli e le
guerre e “grazie signor presidente, ci
penserei bene prima di fare questa base,
ci sono già 850 basi nel mondo, 480 testate
nucleari e 113 strutture militari
americane”. Poi sale sul palco anche Sabina
Guzzanti, arrivata, così un po’ all’improvviso.
Lei direbbe in maniera
inaspettata. Franca Rame torna a parlare
e dice che Prodi dovrebbe chiedere
scusa a Vicenza, poi arriva anche Dario
Fo, in piazza scoppia un petardo, c’è
molto fumo, ma non dipende dal petardo,
il fumo. Si distinguono con una certa
semplicità, e vengono tutte dal palco, le
parole “faccia”, “ira”, “ipocrisia”, “petrolio”,
“soldi”, “consumi”, “guerra”,
“andate”, “via”, “ma quanti”, “siete”, poi
partono ancora i Punkreas, Dario Fo fa
il punto della situazione e spiega che
qui a Vicenza, qui in Italia, con gli Stati
Uniti, Ronald Spogli, Romano Prodi ovviamente
Silvio Berlusconi, gli aerei, le
armi, il problema vero è la chiesa locale.
Dario Fo ride molto ma la sua non voleva
essere una battuta (e infatti non lo
era), si rende conto che da sotto il palco
si cerca un leader, si cerca un nome, si
cerca la scintilla e si cerca di capire che
fine farà e semmai si incontrerà ancora
questa base. Dario Fo lo capisce ma fa
finta di nulla, si diverte e inizia a un po’
a urlare, anche lui. Solo che in piazza
non è rimasto ormai praticamente nessuno;
gli ultimi se ne erano andati poco
prima che Fo iniziasse a ridere da solo.

Tipologia più casse meno guerra. Scrive
cose così: “Interessi dei padroni”,
“profitto generato”, “massimizzare risorse
altrui”, “aggressore israeliano”,
“repressione”, “pace sì ma non con i padroni”,
“interessi realmente antagonisti”,
“autorganizzazione dal basso”,
“mobilitazione popolare”, e quindi
“contro tutte le basi militari”, “contro il
finanziamento alle missioni di guerra
Nato e Onu” (con punto esclamativo),
“contro l’imperialismo italiano e i suoi
governi”. Li distribuisce così, non è molto
convinto, scusa vuoi questo giornale?,
è un giornale di compagni, un giornale
di pensiero anticapitalistico-marxistapopolar-
trotzkista, sono tre euro, passano
due ragazzi e pisciano per strada,
dov’è la cassa?, sono le 17.45, mancano
due chilometri, musica tecno, si balla, si
cerca il centro sociale Rivolta, passa un
camioncino, attorno tre ragazze che distribuiscono
altri volantini. Il primo: “Il
nemico è in casa nostra”, il secondo: “Il
governo Prodi-D’Alema-Rutelli-Bertinotti-
Padoa Schioppa-Diliberto-Pecoraro-
Di Pietro- Mastella-Pannella si genuflette
ai padroni di Washington” (segue
accurata descrizione geopolitica del significato
capitalistico dell’impatto ambientale),
il terzo: “Feti-cismi contro le
guerre e contro una classe politica che
sta in Parlamento inginocchiata e con
l’elmetto sulla testa”, il quarto: “Via le
truppe italiane da tutte le missioni di
guerra all’estero”. Il camioncino passa
avanti, “più cassa meno guerra”, da un
furgoncino spunta un cartello, birra due
euro. Ci sono tanti bambini, sono le
17.55, arriva anche Tommaso, piedi scalzi,
viene dal presidio, ha i capelli unti,
sorride, non si lava, non si cambia i vestiti
e non parla tanto, ma (la storia è vera)
non è uno scemo, perché lui al no
base, no America, no Bush no niente, ci
crede davvero, si è fatto assumere da
una base americana in Germania, lavorava
lì proprio in una base come quella
che potrebbe diventare il “Dal Molin”,
poi si è fatto licenziare, ma prima – raccontano
– aveva spaccato l’abitacolo di
due aerei americani. Tommaso cammina
ed è davvero contento, distribuisce
qualche volantino, attacca qualche adesivo
sui cartelli “zona militare”, abbraccia
molti compagni, non guarda Porta a
Porta, legge “Lotta operaia”, ma lasciateli
stare i compagni. Il pullmino si ferma,
lo conduce Mirko, trentacinque anni,
con una mano guida, con l’altra parla
al telefono, con l’altra beve una birra,
con l’altra fuma la sigaretta e dice a Stefania
di Sky che “le armi dei compagni?
Si sapeva, ovvio, c’erano da tempo quelle,
chi non lo sapeva”, come da tempo?,
“Sì da tempo”. Trent’anni fa, un po’ prima
di quest’ora, Luciano Lama era uscito
dalla Sapienza, ci sono ancora molti
striscioni, i volantini vengono strappati,
qualcuno li conserva, dopo quattro ore
si sente anche “un mio amico che mi ha
chiesto: me la tieni! Devo andare all’aeroporto
e lei non va d’accordo tanto con
i cani”, sono gli “articolo 31”. Tutti i volantini
hanno lo stesso problema, sono
tutti contro qualcosa, no Vat, no guerra,
no Tav, non c’è un no preciso, non ce ne
è uno più importante dell’altro, non c’è
un volantino più tosto di un altro. Non
va bene Prodi, ma non c’è nessun’altro
che possa andare bene. Nessuno. E ora,
una settimana dopo, tre giorni dopo la
relazione politica di Massimo D’Alema,
dopo le consultazioni, dopo la crisi del
governo, la base di Vicenza rimarrà lì,
ma della base degli ottantamila o centomila,
non è rimasto quasi nulla, c’è chi
dice solo una bella scampagnata pacifica,
un Primo Maggio senza musica, un
social forum senza forum, una base che
si farà e un’altra che forse già non c’è
più, quella con tanti no ma nessun no
più importante degli altri, che ora avrà
l’illusione che, in fondo in fondo, se il
governo è caduto il merito è anche un
po’ nostro, anche se non volevamo, anche
se non dovevamo anche se – come
scritto da Liberazione giovedì scorso –
“Non ci piaceva ma non volevamo la crisi”.
E intanto tutti sono tornati a parlare,
di governo, di crisi, di maggioranze
ma non di basi. Sono tornati a parlare
proprio tutti e, martedì, il giorno prima
delle dimissioni di Prodi e due giorni
dopo il richiamo in prima sul Corriere,
arriva un’altra lettera di Walter Veltroni,
prima pagina della “Gazzetta dello
Sport”, “Etica e show”, si legge che
“l’All star game è ciò che potrebbe essere
per un orso l’invito a visitare una fabbrica
di miele”, parlava di basket, Walter,
la base di Vicenza, la bellissima
giornata, i manifestanti e i palloncini
colorati ormai sono stati già dimenticati.
Anche se forse, senza volerlo, una
spallata a Prodi l’hanno data davvero.
24/02/07

venerdì 23 febbraio 2007

Il Foglio. Ecco perché non ci sarebbe nulla di strano ad andare subito alle urne

Roma. Si dirà che ora, dopo le dimissioni di Prodi, non è possibile andare alle elezioni perché non sarebbe una scelta saggia, perché, già in primavera, ci sono le amministrative, perché “trascinare il paese in una campagna elettorale di uno o due anni è da irresponsabili e perché le elezioni sarebbero una passeggiata per Silvio Berlusconi” (Rotondi, Udc), perché prima di qualsiasi elezione si dovrebbe pensare “a fare il Ponte di Messina” (Lombardo, Mpa), perché le elezioni in fondo le vogliono davvero “soltanto una minoranza di partiti” (Nicolais, Ds), perché, semmai, “va allargata la maggioranza” (Ferrero, Prc), e perché, comunque, “non se ne parla nemmeno” (Tabacci, Udc), perché venerdì, poi, inizia la Quaresima, perché poi arriva pure la Pasqua, perché, in caso, prima va fatta la legge elettorale, perché “andrebbe sviluppato il programma con il quale si sono vinte le elezioni” (Mantovani, Prc), perché i sondaggi dicono che “gli italiani le elezioni non le vogliono” e perché, siamo seri, “non bisogna dilapidare la fiducia degli italiani” (Angius, Ds). Quindi niente voto, la maggioranza adesso non c’è, ma state tranquilli che si troverà. Però le urne no, ora non hanno senso, ora proprio non si possono fare perché – come ha detto ieri Rocco Buttiglione – “non sarebbe nell’interesse del paese”. Ma indire nuove elezioni subito dopo le dimissioni di un presidente del Consiglio è una prassi tutt’altro che fuori dalla logica. Così ha recentemente fatto l’ex cancelliere tedesco Schröder (due anni fa) e così ha fatto, qualche mese fa, il premier giapponese Koizumi. Convocare un’elezione subito dopo le dimissioni di un premier non è altro che una delle possibilità che ha – in Italia – il presidente della Repubblica, subito dopo aver terminato le sue consultazioni.
Andiamo con ordine. Nel momento in cui la prima carica dello stato prende atto delle dimissioni del presidente del Consiglio e si riserva di decidere, dopo le consultazioni ha di fronte sei soluzioni. Il presidente della Repubblica può rinviare alle Camere il governo, può offrire nuovamente un mandato al presidente del Consiglio per la formazione di un nuovo esecutivo o, se lo ritiene opportuno, ha anche la possibilità di incaricare un nuovo esponente della coalizione di formare un gabinetto. Ma non solo. Una volta terminate le consultazioni (e cioè stasera), Giorgio Napolitano potrebbe decidere di nominare un “presidente istituzionale”, definizione da manuale, al quale andrebbero assegnati alcuni precisi compiti da portare avanti in vista di eventuali nuove elezioni (la fiducia al nuovo premier andrebbe comunque votata entro dieci giorni dalla nomina). Uno dei possibili “compiti specifici” potrebbe essere quello di approvare una nuova legge elettorale (e questa sembra essere la linea della Lega nord e in particolare di Roberto Calderoli). L’articolo 88 della Costituzione prevede, inoltre, sia la possibilità di sciogliere entrambe le Camere sia, eventualmente, anche solo una delle due (e in questo caso toccherebbe al Senato). Ma Napolitano potrebbe decidere di sciogliere le Camere anche senza dare la possibilità a un nuovo governo di verificare la fiducia in Parlamento, convocando quindi direttamente nuove elezioni. Costituzionalmente, Napolitano, potrebbe prendere questa decisione già questa sera, chiamando gli italiani alle urne non prima di quaranta giorni. Dunque non si capisce per quale ragione le eventuali elezioni non dovrebbero essere considerate come una delle soluzioni naturali (e probabilmente in questo caso anche la migliore) al sistema di alternanza di governo. “Fino al ’94 gli scioglimenti sono stati in realtà tutti autoscioglimenti decisi dalle forze politiche. Ci fu un’eccezione nel 1987, ma i veri scioglimenti presidenziali sono quelli del 1994 e nel 1996”, dice al Foglio il professor Augusto Barbera. Ma facendo un piccolo passo indietro, si scopre che gli stessi Ds, oggi attenti a non nominare la parola “elezioni”, non molti mesi fa la pensavano in maniera diversa. In un’intervista al Corriere della Sera, Piero Fassino, diceva: “E’ inconcepibile che questa maggioranza non prenda atto della crisi drammatica in cui è e che non abbia il coraggio di andare alle elezioni subito”. Si parlava di Silvio Berlusconi, era il 23 settembre 2005.
Claudio Cerasa
24/02/07

Il Foglio. Così i taxi hanno battuto Bersani. Su e giù per Roma nella storica liberalizzazione tassinara per capire che di liberalizzato non c’è nulla

Il primo taxi nel primo giorno della liberalizzazione romana arriva contromano, dopo venti minuti, in ritardo e con le luci spente. Alle 23.06 di domenica primo ottobre Radio Taxi 3570 prega di rimanere in attesa. L’attesa, in realtà, dura già da un po’: da venti minuti. Alle 22.46 la prima telefonata: 06.4994, Radio Taxi la Capitale. Serve un taxi a Piazzale degli Eroi, a Roma. Piazzale degli Eroi si trova a pochi minuti da San Pietro, dentro le mura Aureliane. Le mura Aureliane, grosso modo, rappresentano il centro di Roma: da San Giovanni a piazzale degli Eroi. Le nuove tariffe del Comune di Roma sono attive proprio per tutte le corse che partono da dentro le mura e arrivano fino agli aeroporti. Sono quaranta euro per Fiumicino e trenta euro per Campino. E viceversa. Passano tre minuti, il taxi, precisiamo, è per Fiumicino. Radio Taxi la Capitale non ha nessun taxi, al momento. Secondo tentativo. Sono le 22.50. Proviamo con Radio Taxi Tevere. 06.4157. Anche qui, rimaniamo in attesa. Fortunatamente a Fiumicino non c’è nessuno aereo che ci aspetta, ma questo Radio Taxi Tevere e Capitale ovviamente non lo sanno. Passano cinque minuti. Radio Taxi Tevere non ha taxi, al momento. Proviamo ancora: 06.3570. Operatore 29, “Emma trenta in cinque minuti” arriva in sette minuti, contromano, con le luci spente. Dietro i due schienali dei sedili anteriori, le tariffe (che al buio non si leggono) sono quelle concordate con il Comune di Roma, ma nel 2001. Non quelle del 2006. Parte il taxi e parte anche il tassametro. Prima di arrivare oltre le mura Aureliane, cioè praticamente all’altezza del Raccordo anulare, il tassametro è già a tredici euro. In venticinque minuti siamo in aeroporto. Il tassametro segna trentasette euro. Ora, i problemi sono due. Il primo è che la tariffa fissa, di quaranta euro, non è stata applicata. Il secondo che la tariffa fissa, nel primo storico giorno di liberalizzazione romana, sarebbe stata più costosa della tariffa precedente. E viene un sospetto. Non è che il sindaco Walter Veltroni, per far passare la sua personalissima liberalizzazione, sia stato costretto ad aumentare pure le tariffe? Ma è solo un sospetto.
Mezzanotte e un minuto. E’ il due ottobre, quindi lunedì. Oltre alle tariffe fisse per gli aeroporti, da questo momento parte anche il servizio di potenziamento dei taxi romani. A Fiumicino, di notte, non esiste nessuna segnaletica che spieghi la portata del risultato storico. E se esiste è nascosta benissimo. Il primo taxi del primo giorno ufficiale di potenziamento delle corse romane lo prendiamo noi, da Fiumicino. Il taxi è fermo in testa alla corsia riservata alle auto bianche di fronte al Terminal B. E’ fermo da un po’, la Lancia Thema è vecchia. Una signora prova a caricare le sue valigie nel bagagliaio della Thema, ma il bagagliaio è troppo piccolo. Già di per sé quel taxi non è a norma. Nel dubbio, essendoci trentatré chilometri da passare da soli col tassista sul Raccordo, meglio non ricordarglielo. Parte il taxi, parte (anche questa volta) il tassametro. E parte anche la radio. Nella maggior parte dei taxi romani, prima, funzionava in questo modo. Arrivavi, salivi, partiva il tassametro e poi, dopo aver comunicato la destinazione, il tassista alzava il volume della radio e, tra le frequenze memorizzate, tu trovavi solo radio sportive. Nell’ordine: Rete Sport, Radio Radio, Radio Incontro. Al massimo, proprio al massimo, Radio Uno utilizzata quasi esclusivamente per seguire i posticipi della partite di Serie A. Sulla frequenza numero due della Pioneer installata sul taxi, Furio (il nome non è quello vero così come per gli altri tassisti) ha sintonizzato Radio Uno. Cambia canale e sul numero tre ha Radio 24. Sul numero sei Radio Radicale. Lo sport, dice Furio, ormai non ho più tempo di sentirlo. Sul sedile anteriore destro è poggiata una cartina. “Sono le mura Aureliane”, spiega il tassista. Il tassametro continua a girare. Sarà un caso, anche questo. Sono passate già ventiquattro ore dall’inizio delle tariffe fisse, se ne parla da mesi, il sindaco ha detto che tutto era pronto, quaranta euro doveva essere la tariffa fissa per gli aeroposti e quaranta euro sarà. E infatti è solo un caso. Il tassista spiega anche perché: “Devi capì che co sti tassametri non se poteva fa più de tanto. So vecchi, fijo mio. Hanno fatto un casino, però alla fine è tutto molto semplice”, dice allontanando entrambe le mani dalla guida del volante. “Fino alle mura Aureliane sono quaranta euro, fissi. Poi appena arriviamo alle mura Aureliane azzeriamo il tassametro e aggiungiamo la nuova tariffa. Sa, co sti casini hanno dovuto aumentare le tariffe”. Non è uno scherzo. Le tariffe, lo dice il tassista, sono aumentate. Non avendo la minima idea di dove comincino la mura Aureliane ci fidiamo del tassista. Superato l’ipermercato Panorama, quindi subito dopo il raccordo, il tassista dice: “Ecco le mura”. In realtà le mura, scopriamo successivamente, cominciano un paio di chilometri dopo. Sul tassametro sono segnati 35 euro. “Ecco – spiega – fin qui sono 40 euro. Ora parte il tassametro”. Il tassametro, azzerato, riparte. Ma non da zero, da cinque euro. E fino a piazzale degli Eroi sono 49 euro, nove euro in più della tariffa fissa. E questo solo perché di sera il traffico non è eccessivo. Di giorno, però, non è affatto così. Le mura Aureliane delimitano la zona che ha più traffico in città. E, non a caso, l’unica zona che è stata davvero potenziata dal Comune è stata proprio quella delle mura Aureliane. In periferia, invece, non è cambiato praticamente nulla. “E meno male. Volevano mandarci per strada?”, dice un tassista lungo il tragitto che collega piazza Gioacchino Belli a Piazzale Ungheria (13 euro, 14.30 del pomeriggio, 23 minuti) ricordando che “Io a casa ho sei fucili da caccia. So comunista con la C maiuscola, io. Ma al governo c’è chi vole fa il comunista con le spalle degli altri”.
Ma per capire in che modo è nata la presunta liberalizzazione romana occorre fare un passo indietro. E’ il 24 luglio. Veltroni ha appena finito una riunione di undici ore con i tassisti. Il sindaco di Roma esce dal Campidoglio, sorride, si asciuga il sudore, guarda l’assessore alla Mobilità Mauro Calamante e con la stessa convinzione con cui Massimo D’Alema cerca di convincere (soprattutto se stesso) che questa Finanziaria è un miracolo, si affaccia dalla sala e fa: “Questo è un risultato storico”. Senza voler essere troppo rigidi su come il sindaco di Roma proprio non riesce a non vedere storicità intorno a se stesso (In pochi mesi ha detto: “il piano regolatore è un risultato storico”, “Piazza di Spagna pedonale è un risultato storico”, “la pedonalizzazione del Tridente è un risultato storico”, “la Roma ha raggiunto un risultato storico”, “i numeri della Notte Bianca sono un risultato storico”), quello con i taxi è oggettivamente un accordo incredibile.
Pier Luigi Bersani aveva proposto il suo pacchetto per le liberalizzazioni alla fine di giugno. Liberalizzare significa produrre più concorrenza nel mercato. Nel settore taxi, in particolare, significa aumentare le licenze (permettendone quindi il cumulo), significa dare la possibilità a ogni tassista di decidere come gestire il proprio turno di servizio. A Roma, invece, non è stato liberalizzato proprio nulla. E i tassisti hanno battuto con una certa facilità Pier Luigi Bersani. Anche grazie alla mediazione di Walter Veltroni.
Subito dopo la chiusura delle trattative tra tassisti, governo e Comune di Roma, Veltroni dice precisamente così: “Attraverso la rimodulazione dei turni e il prolungamento dell’orario di servizio, grazie ai collaboratori familiari e ai dipendenti, come prevede il decreto Bersani, avremo in strada mille taxi in più la mattina; mille il pomeriggio; e cinquecento la notte”. E in più ci sono anche le tariffe fisse. Quaranta euro per Fiumicino, trenta per Campino. Un trionfo, dice Veltroni. Il suo discorso fila: più taxi, più auto, più turni, più corse, più ore di servizio, più lavoratori, più dipendenti. E poi, dice, entro dicembre ecco 450 nuove licenze in arrivo. Il Comune di Roma, è riuscito a mettere d’accordo tutti. Tassisti, governo e Comune. Una grande mediazione. E non a caso, il 18 settembre, il nome del sindaco di Roma viene suggerito (nello stesso giorno) sia per la presidenza della lega basket (sulla Gazzetta dello Sport), sia come intermediatore di pace tra tutte le religioni del mondo (con diretta su al Jazeera). Ma fino al primo ottobre a Roma, almeno con i taxi, non era ancora cambiato praticamente nulla. Già dal quindici settembre ci sarebbero dovute essere 2.500 vetture disponibili in più. Già dal quindici settembre ci sarebbero dovute essere le licenze in vendita. Già dal quindici settembre ci sarebbero dovuti essere i turni in più.
Ma dal primo ottobre, la storia arriva davvero. Domenica era, appunto, primo ottobre: il primo (storico) giorno ufficiale di sperimentazione delle nuove tariffe fisse romane. Tu dici: e i taxi non funzionano, e i tassisti rubano, e le strade sono sporche e i bar dei rumeni vanno a fuoco e le strade sono piene di venditori ambulanti e a Fiumicino ci sono gli abusivi e gli autobus non passano, e i taxi non passano. Però sulle tariffe no, pensi. E’ impossibile, come si fa a sbagliare? E invece, purtroppo, si sbaglia.
“Il problema è che i tassisti sono tuttora convinti che la domanda di taxi possa aumentare soltanto nel momento in cui cala l’offerta di vetture”, dice Gianluca Quadrana, consigliere comunale della Rosa nel Pugno a Roma. Cioè: la gente che prende il taxi non cambia, il mercato è quello e non può aumentare. Quindi: più licenze significherebbe, inevitabilmente, meno lavoro. Ma non è così. Secondo alcuni dati del rapporto Sta 2001, il trenta per cento di domanda non soddisfatta di taxi viene dalla periferia. E in periferia, invece, sui taxi non è stato fatto nessun intervento specifico. In via Flavio Stilicone, zona Cinecittà, per averne uno, ci vogliono ancora quattordici minuti. La stazione dei taxi è a 800 metri. Ma nelle stazioni dei taxi non risponde quasi mai nessuno. Su 47 stazioni taxi contattate, l’esperimento l’ha fatto Repubblica, rispondono in media soltanto due. Il risultato sono quattordici minuti di attesa, (cooperativa Samarcanda, 06.6645) e quando il taxi arriva il tassametro segna già 6 euro.
Da inizio settembre, escluse le cronache locali, i principali giornali italiani hanno però parlato del sindaco e dei suoi tassisti romani, con un certo rilievo, solo in un’occasione: è il 27 settembre, un tassista trova un collier di diamanti sulla sua macchina, lo prende, lo restituisce al Comune, e Veltroni lo premia. Dopo di che, praticamente nulla. Ma quando Pier Luigi Bersani aveva incaricato i sindaci di sviluppare il suo progetto di liberalizzazione, il ministro delle Attività produttive voleva che ci fossero alcuni punti fondamentali da rispettare: una maggiore offerta, un impulso all’occupazione, una maggiore tutela ambientale e un aumento della qualità del servizio offerto. Di questi punti non è stato concretizzato praticamente nessuno. E tutto quanto quello realizzato dal Comune di Roma Veltroni lo avrebbe potuto fare anche senza la legge Bersani.
Primo punto. I taxi in più non saranno taxi nuovi. Saranno gli stessi di prima che, a rotazione, aumenteranno i propri turni. Il provvedimento sui turni non è una liberalizzazione anche perché l’aumento dei turni viene stabilito con un’ordinanza dello stesso Comune. Non con una legge. Non solo. La legge Bersani, come confermano al Foglio anche voci interne all’ex staff del sindaco, sarebbe stata davvero messa in pratica solo se fossero stati aggiunti turni nuovi, non nel caso di piccole aggiunte ai turni già esistenti. Il Comune dice inoltre che le vetture che circoleranno in più saranno 2.500. Qualcuno parlava anche di 3.000 auto in più. In realtà, come ricorda Daniele Capezzone, “secondo gli ultimi dati sarebbero solo 1.250 perché i turni aumenteranno non del doppio, ma solo di quattro ore e non di otto”. Milleduecentocinquanta taxi non sono nulla per una città come Roma che ha una media di 2,1 taxi ogni mille abitanti (a Barcellona, per dire, ce ne sono nove, a Londra otto). E i posti di lavoro? Rimarranno sempre gli stessi perché a guidare i taxi, nel corso dei turni aggiuntivi, saranno sempre gli stessi tassisti. “Dottò, più turni di servizio vuol dire che le machine durano anche di meno. E poi, per quattro ore di lavoro in più dobbiamo pure prendere un impiegato e pagargli i contributi? Ma che c’hanno presi pe scemi?”, ci dice un tassista lungo il percorso che porta da piazza Trilussa a via della Camilluccia (13 euro, nessuna corsia preferenziale). E questo mentre gli iscritti al ruolo conducenti (quindi idonei a poter acquistare una licenza) presso la Camera di commercio provinciale, già nel 2004, erano 17.000.
Poi, ci sarebbero le licenze. Il Comune ha detto che ce ne saranno 450 nuove. Ma questa non è la liberalizzazione. Già nel 2001, e senza la legge Bersani, l’allora assessore alla Mobilità del Comune di Roma, Simone Gargano, aveva annunciato 1.500 licenze taxi in più. In cambio avrebbe però concesso un aumento del dieci per cento della tariffa per i tassisti. Solo in cambio, anche allora. E delle 1.500 licenze promesse, in cinque anni, ne sono state assegnate pochissime. E solo grazie a un accordo preciso: io metto sul banco nuove licenze, tu prendi un aumento di stipendio (che era del dieci per cento, per l’esattezza). E il rischio, che siano aumentate le tariffe c’è anche questa volta. Secondo una ricerca commissionata dal 2004, proprio dal Comune di Roma, l’alto costo del servizio taxi è una delle principali cause di mancato utilizzo del taxi. Aumentare le tariffe non è quindi il massimo per migliorare né l’offerta né la domanda.
La ricerca del 2004, che è bene ricordarlo ancora, è stata commissionata proprio dal Comune di Roma, dimostrava in che modo sarebbe stato possibile migliorare il servizio dei taxi nella Capitale. Il risultato del monitoraggio era stato questo: grazie al Titolo quinto della Costituzione il Comune avrebbe potuto avere “potestà legislativa in materia di trasporto pubblico locale” e, testuale, “senza costi amministrativi eccessivi e senza ostacoli insormontabili di carattere normativo”. Significa che il Comune avrebbe potuto fare tutto quel poco che ha fatto anche senza la legge Bersani. E anche qualcosa di più: il Comune avrebbe infatti potuto, autonomamente, abolire il divieto del cumulo delle licenze (facendo diventare proprietario della licenza una persona giuridica non una persona fisica) e avrebbe potuto permettere ai proprietari dei taxi di circolare non solo per dodici, ma per ventiquattro ore. E, in quel caso, i 17.000 iscritti alla Camera di Commercio avrebbero avuto davvero possibilità di avere un posto di lavoro.
Ma nelle ultime settimane a Roma (oltre ai collier di diamanti) il principale problema di cui si è parlato è stato un altro: il sistema di controllo satellitare. Per poter rispettare i turni e per poter aver garantita la presenza su strada di 1.250 auto in più (non 2.500), serve qualcuno che controlli che quelle auto ci siano davvero. “E i vigili? I vigili che ce stanno a fa?”, chiede un tassista sul percorso da viale Parioli a Cinecittà (15 euro, una corsia preferenziale, strade bloccate, 40 minuti, due tentativi di percorre tragitti più lunghi del dovuto). Il Comune ha pensato che il modo migliore per vigilare i tassisti sia il Gps (Global positioning system, un sistema satellitare che permette di localizzare le macchine). I tassisti non vogliono. Il Comune sì. Il 27 settembre in consiglio comunale si discute del progetto. Nella delibera la parola controllo satellitare, a quanto risulta, non viene però mai menzionata. Si dice: “Sistema di monitoraggio”, la stessa parola già utilizzata a fine agosto, la stessa parola utilizzata, ma mai attuata, già nel 2001. Ma anche se il sistema di monitoraggio, il Gps, venisse davvero utilizzato, in realtà non cambierebbe nulla. Dalla sede romana dell’Atac (l’Agenzia del trasporto pubblico romano che dovrebbe occuparsi direttamente del monitoraggio Gps) ci dicono che “l’unico vantaggio che si potrebbe avere dal controllo satellitare non sarebbe quello di conoscere quante macchine lavorano, ma solo quante macchine di turno sono effettivamente in movimento. Sarebbe quindi impossibile sapere se le macchine in giro sono ferme nei parcheggi taxi o se sono effettivamente al lavoro”. Su questo giornale l’economista Michele Salvati (grande promotore del Partito democratico) sulle liberalizzazioni ha detto: “La cosa che aveva aperto il cuore a noi tutti era il pacchetto di riforme firmate da Pierluigi Bersani, ma poi se le sono rimangiate dandole in pasto agli enti locali”. Subito dopo la fine delle mediazioni estive, il Comune di Roma si era affrettato a classificare la Capitale “come prima città d’Italia ad aver concretizzato la legge Bersani”. A Roma le liberalizzazioni nel settore taxi semplicemente non esistono. Non esiste nessuno storico risultato e sui taxi, ora, non si possono più ascoltare neppure i posticipi di serie A. Walter Veltroni ha comunque scritto un bellissimo romanzo.
Claudio Cerasa
7/10/06

giovedì 22 febbraio 2007

Il Foglio. "Dove vanno a parare tutti questi matti"

Puoi essere Zoff, puoi essere Buffon, puoi essere Yashin ma se pensi a un portiere non pensi a una parata, pensi al portiere, pensi all’esultanza, al massimo la papera, al massimo il colpo di testa di Rampulla, il gol di Taibi o quello di Amelia. Le tue parate restano lì, complimenti, che volo, che classe. Poi basta. “Cazzo, è morto, è morto”. Il francese Janvion aveva cominciato a urlare, Battiston era ancora a terra, Schumacher lo aveva colpito con un calcio in mezzo allo stomaco, Battiston non si alzava, non era morto ma aveva gli spasmi. Schumacher era pronto al rinvio, Battiston poteva pure morire, lui doveva rinviare, ma Battiston non era morto, la partita riprende è il 6 luglio 1982, Schumacher era considerato più crudele di Hitler, da quel giorno fu per tutti “il barbiere”. Ma lui, diceva così, era solo un portiere. Dicono tutti così. Lo diceva anche Raad Hammoudi Salman, uno degli ultimi eroi sportivi dell’Iraq anti Saddam ma nel libro “Un manicomio tra i pali” (edizione Limina, 14 euro) di Luigi Guelpa, ci sono Rojas, Campos, Barthez, Lettieri e Jongbloed. O come Burgos, cioè El Mono, cioé la scimmietta, lo stesso portiere che chiacchiera coi pali della porta, lo stesso che, almeno così dice lui, parla col Papa, lo stesso che si fece infilare da 65 metri dall’altro portiere Chilavert. Burgos in porta c’è finito perché è andata così, Chilavart perché invece doveva essere proprio così. Lo aveva deciso lui quando a piedi scalzi portava a pascole le mucche di papà Catalino, ma di Chivalert ci si ricordano le parate o i gol?
Claudio Cerasa
22/02/07

Il Foglio. "Senato amaro. Cronaca di una giornata iniziata con la baldanza di D’Alema e finita con le dimissioni di Prodi"

Roma. Sono le quattordici e quarantasette quando a Palazzo Madama, ascoltate le comunicazioni del ministro Massimo D’Alema sulla politica estera, il Senato non approva, respinge la mozione presentata dall’Unione, batte la maggioranza per la seconda volta in venti giorni e costringe il presidente del Consiglio Romano Prodi a salire al Quirinale per rimettere il suo mandato nelle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che dopo venticinque minuti di colloquio “si riserva di decidere sulle dimissioni”, invita il governo a rimanere in carica “per il disbrigo degli affari correnti” e apre le consultazioni. Nove mesi dopo le elezioni di aprile. Sono le venti e diciassette minuti.
La cronaca. Ieri il ministro degli Esteri ha spiegato al Senato la strategia internazionale dell’esecutivo di Romano Prodi. Il giorno prima, in Spagna, lo stesso D’Alema era stato piuttosto chiaro e aveva detto che “senza maggioranza sulla politica estera andiamo tutti a casa” perché “questo è un principio costituzionale”. E cioè la stessa cosa richiesta, ieri, per tutto il pomeriggio dall’opposizione. D’Alema ha diviso il suo intervento in due parti: alle nove la relazione, poi alle dodici e venticinque la replica agli interventi dei gruppi parlamentari. In quasi due ore totali di monologo, D’Alema ha concentrato il suo discorso intorno a tre concetti chiave: “Il rilancio dell’unità dell’Unione europea”, “la svolta nella crisi mediorientale e nella lotta al terrorismo” e “l’allargamento degli orizzonti internazionali”. Incalzato dall’opposizione D’Alema ha però parlato anche di Vicenza (“non rimettiamo in discussione l’orientamento preso e apriremo un dialogo con i cittadini di Vicenza”), di Afghanistan (“restando possiamo batterci per una conferenza internazionale”) e di Iraq (“è legittimo sull’Iraq avere un’opinione diversa, gli Usa sono divisi da questo dibattito ma non è giusto presentare il nostro punto di vista come in continuità con il governo precedente).

Pieno appoggio o tutti a casa
Per approvare la mozione (a voto palese) presentata dalla capogruppo al Senato Anna Finocchiaro, servivano centosessanta voti favorevoli. Ne sono arrivati centocinquantotto, con centotrentasei senatori contrari e ventiquattro astenuti. Due voti in più e il centrosinistra avrebbe approvato l’unica mozione rimasta al Senato nel corso della giornata (la Cdl aveva ritirato la propria tre minuti prima che l’Unione presentasse la sua). A far cadere la maggioranza sono stati i voti dei ventiquattro senatori astenuti. Perché dopo il no di Sergio De Gregorio, dopo il no di Francesco Cossiga (arrivato a Palazzo Madama con una spilletta della centosettantatreesima brigata aviotrasportata di Vicenza) e dopo che Fernando Rossi (Pdci) e Franco Turigliatto (Prc) avevano scelto di non partecipare al voto (Turigliatto poi ha anche rassegnato le sue dimissioni da senatore), tra gli astenuti ci sono stati alla fine anche due senatori a vita: Giulio Andreotti e Sergio Pininfarina (assente a Palazzo Madama dal giorno della fiducia al governo Prodi). Ed è per questo che Anna Finocchiaro (Ds) ieri sera ha fatto capire che tutto l’ottimismo con cui D’Alema aveva preparato la sua relazione al Senato forse non era giustificato: “Io lo ripeto da tempo che non abbiamo più la maggioranza. Era ovvio che prima o poi sarebbe accaduto. Questa volta è accaduto davvero anche se nel voto avevamo tenuto conto dei dissenzienti residui. Noi contavamo sul voto del presidente Andreotti e del senatore Pininfarina, ma non è andata così”. Sei minuti dopo il collasso al Senato, Roberto Calderoli, vicepresidente a Palazzo Madama e autore della mozione con cui la Cdl aveva messo in minoranza l’Unione lo scorso primo febbraio sulla base di Vicenza, è stato il primo a chiedere le dimissioni del governo “per coerenza”. Nel pomeriggio arrivava la dichiarazione del leader della Cdl Silvio Berlusconi, per il quale “il paese è stato esposto da una maggioranza che non c’è e da un governo incapace, che ha rifiutato perfino il dialogo parlamentare, a una grave umiliazione internazionale”.
Alle venti, rientrato di corsa a Roma, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – dopo aver lasciato Bologna, dove aveva detto che “la piazza non è il sale della democrazia” – riceve un Prodi dimissionario. Napolitano si è riservato di accettare le dimissioni del presidente del Consiglio, ma intanto ha indetto le consultazioni che inizieranno questa mattina alle dieci e trenta. In serata il portavoce di Prodi, Silvio Sircana, ha detto che il premier “ha preso atto che questa è una crisi grave e che egli non dispone di una maggioranza al Senato. E’ pronto a restare se, e solo se, d’ora in avanti gli sarà garantito il pieno appoggio di tutta la maggioranza”.
Claudio Cerasa
22/02/07

giovedì 15 febbraio 2007

Il Foglio. "Puskas, l’Ungheria, i carriarmati e la rivoluzione della squadra che perdeva solo se lo chiedeva Stalin"

Millenovecentocinquantasei, l’Ungheria, Budapest, la Honvéd, l’Aranycsapat e Puskas. Il capo del governo, Rákosi, aveva promesso duemila fiorini a testa, il partito aveva appena varato il suo piano quinquennale, con lo statalismo, il collettivismo, la Russia, la squadra, la patria. La Honvéd, era la squadra dell’esercito, e i giocatori – così li chiamavano – erano i difensori della patria. Questo voleva dire, Honvéd. A Budapest di squadre vere ne erano rimaste solo tre, fino al 1956. C’era l’Honvéd (con Puskas), c’era il Vörös Lobogó e la M.T.K. 1952, 1953, 1954 e poi ancora 1955 e 1956, primo campionato, secondo, terzo e poi quinto. Dal 5-3 contro l’Austria fino alle Olimpiadi del 1952 la Nazionale e la Honvéd, che praticamente erano la stessa cosa, non avevano perso neanche una partita, qualche pareggio poi solo vittorie e una sconfitta a Mosca ma con un arbitro russo e con Stalin, dicevano così, che non ci teneva particolarmente a perdere. E infattì non perse. Ma dal 1950 al 1956 la Nazionale ungherese non ne aveva perso neppure una di partita. Honvéd voleva dire soldato, Puskas voleva dire cecchino. Anche quella fu una rivoluzione, anche quella fu una delle squadre più forti di sempre. La Honvéd vinceva ovunque, e Rákosi sapeva che quella era davvero una rivoluzione, e sapeva che la squadra era il partito che il partito era lo stato e che a Helsinki, alle Olimpiadi, contro la Jugoslavia di Tito una sconfitta non sarebbe stata tollerata, soprattutto perché quella era la Jugoslavia e perché quella era la finale del 1952. Puskas e i suoi compagni erano, tecnicamente, dilettanti perché, ufficialmente, facevano parte dell’esercito e dipendevano tutti dal ministero (anche se quando andavano al poligono per sparare le armi tendevano a nasconderle) mentre Gusztav Sebes, l’allenatore della Nazionale, oltre che essere coach lavorava anche al ministero dei Beni culturali, come racconta Luigi Bolognini in “La squadra spezzata” (edizioni Limina, 14 euro). Come se Rutelli allenasse Totti. L’Ungheria vinse anche quella gara, continuava a segnare, a non perdere, a essere – come dicevano nel partito – “la perfetta applicazione del socialsimo”. Se vinceva la Honvéd vinceva anche tutto il partito e tutto funzionava e tutto era perfetto. Solo che poi iniziarono a perdere, due anni prima che i carriarmati russi arrivassero a Budapest, pochissimi anni dopo che Puskas diventò il primo uomo nella storia ad attraversare il ponte delle Catene che collegava la città vecchia, Pest, con quella nuova Buda. Era il 1954, l’Ungheria era in Svizzera, coppa del Mondo, di là la Germania Ovest, di quà la grande Aranycsapat di Puskas e Bozsik. Alle 17.15 Radio Budapest aveva già trasmesso prima l’Himnusz, poi l’Internazionale e quindi tutta la formazione ungherese. Si comincia, due a zero, poi due a uno e ancora due a due. Era l’ottantaquattresimo, quel fottutissimo arbitro non fischiò, Bozsik perse la palla, si fermò lì al centro del campo, arrivò Schafer, Bozsik rimase a terra, palla a Rahn, passa un secondo, cross, poi il sinistro e palla in rete. Dopo due minuti l’Ungheria pareggia. Sarebbe tre a tre, ma il gol era in fuorigioco e l’Ungheria perse dopo sei anni di vittorie, due anni prima che i carriarmati arrivassero a Budapest e due anni dopo uno dei più grandi successi, quello di Wembley, quando l’Aranycsapat aveva giocato con l’Inghilterra, aveva vinto per sei a tre, Puskas aveva già iniziato a contrabbandare rasoi per arrotondare lo stipendio da operaio e Sebes continuava a dire che una squadra così non poteva perdere. Non poteva perdere mai. Come l’armata rossa. Poi arrivò la Germania e arrivarono i carriarmati, perse anche la Honvéd e Puskas andò in esilio, tornò a Budapest e poi a Madrid, prima di morire, lo scorso novembre. Il 2 aprile avrebbe compiuto 80 anni.

16/02/07
Claudio Cerasa

sabato 10 febbraio 2007

Il Foglio. "Il genio che ha messo il nuovo mondo in una scarpetta da ginnastica"

L’insopportabile grandezza di Steve Jobs, il mago di Apple. Lì dove c’era il computer, lui ci ha aggiunto il colore, la voce, la musica, le immagini. Poi ha inserito l’iPod nelle Nike




Steve Jobs arrivò di fronte alla sede di Microsoft il 4 gennaio 1997, ventuno anni dopo aver rivoluzionato la new economy, tredici anni dopo il primo personal computer, quindici anni dopo la prima copertina su Time, due anni prima di diventare la rock star della Silicon Valley e tre anni dopo aver trasformato una mela un po’ morsicchiata in un impero a colori. La sede di Microsoft di Palo Alto Steve Jobs l’aveva già vista, almeno un paio di volte. Steve non amava Microsoft (cioè la più importante azienda al mondo produttrice di software), ma Steve non amava neanche l’Ibm (cioé la casa produttrice di computer più importante del mondo). L’ultima volta che gli era capitato di passare sotto la sede dell’Ibm di New Orchard Road a New York, Steve aveva i capelli lunghi, un po’ a caschetto, la giacca di pelle nera, i jeans scoloriti, la mano destra in tasca, la sinistra sopra la testa un po’ spostata in alto rispetto al caschetto, qualche centimetro sotto le lettere di colore grigio su sfondo nero che componevano la parola “Ibm”. Era il 1985. Steve sorrideva, raccontano che poco prima di scattare una foto stesse dicendo queste parole: “Fuck the Ibm”. Steve alza ancora la mano sinistra, pugno chiuso, alza il dito medio, sorride, vaffanculo Ibm e click. Steve però era cambiato; dopo il licenziamento, l’esperienza alla Next, il fallimento di Next, le donne, gli acidi, l’India (dove Steve fece un lungo viaggio da lui stesso definiti come “contemplativo”), l’Lsd, il garage di San Francisco, la figlia che prima aveva riconosciuto, poi non aveva più riconosciuto e per la quale comunque pagava ogni mese un assegno da 385 dollari. Steve era cambiato, non era più quel manager duro, quello che non aveva finito l’università del Reed College, che si faceva di acidi, che aveva inventato la new economy a colori, che andava a letto con la prima che capitava, che aveva inventato il personal computer e che aveva inventato l’informatica creativa, non quella pallosa e grigia, come quella di Microsoft o come quella dell’Ibm. Steve era cambiato, era cambiato davvero. Era diventato un vero “stronzo”, come ricordano con affetto i suoi migliori amici. Quella sera, il 4 gennaio 1997, Steve era tornato alla sede di Microsoft. Con lui c’erano due persone. La prima si chiamava Gil Amelio ed era il numero uno di Apple. Steve la gente come Gil la definiva così: “Tutti arrampicatori sociali”. Gil non dava problemi. Steve parlava, lui eseguiva. Pochi mesi dopo Gil sarebbe andato via. Dall’altra parte Steve aveva Heidi Roizen. Gil l’aveva ingaggiata per fare da tramite tra la Apple e la Microsoft, tra Steve Jobs e Bill Gates. Steve conosceva già da tempo Heidi. La conosceva da dieci anni, quando Heidi era ancora single ed era pazza di Steve. Steve aveva ancora i capelli lunghi, Heidi voleva uscire con Steve, Steve voleva conoscere Bill ed Heidi conosceva la ragazza con cui usciva Bill Gates (si chiamava Ann Winblad, era una delle amiche più care di Heidi). Steve, Heidi, Bill e Ann si incontrarono per la prima volta al Four Season Clift Hotel, a due passi da Union Square a San Francisco. La serata finì molto male, Steve litigò con tutti, Bill non capiva chi era Steve e tutti e due lasciarono le ragazze da sole.
Steve Jobs non è un tecnico, non è un ingegnere, non è laureato, non è un programmatore, non è uno scienziato, non è un imprenditore e non è uno smanettatore come lo era Bill Gates. Steve Jobs è semplicemente un genio. Jobs ha cambiato il mondo della tecnologia con una rottura, con il marketing, con il design, con un’idea e riuscendo a creare attorno a un singolo prodotto una vera e propria identificazione sociale. Steve Jobs ha fondato Apple, ha creato l’iPod, ha creato l’iPhone e ha creato l’iTv. Ha creato un mito, non ha creato un prodotto. Aveva i soldi per diventare un genio di massa, un fenomeno pop, un mago del consumo. Ma Jobs non voleva questo, non voleva diventare il più ricco o il più famoso. Voleva essere solo il più bravo, il migliore di tutti.
Succede che pensi alla tecnologia, pensi al progresso, al computer, alla routine, al lavoro, alla posta, a Internet, alla scrivania, le cartelline, il desktop, la stampante, la tastiera e pensi a Gates, pensi a Microsoft, pensi alla routine, ai chip, ai computer, ti colleghi, apri il file, cambi il desktop, un giorno, un intero giorno sul computer, ascolti musica, vedi un film, scarichi la posta, on oppure off, acceso oppure no, ora basta con questo computer, e poi lo spegni. Pensi a Microsoft e non ti ricordi se il computer è bianco o giallo, se il desktop ha le nuvole oppure no, se le icone sono grandi o piccole, se la tastiera è ovale o rettangolare. Pensi a Microsoft e pensi a Bill Gates, ai soldi, alla beneficenza, al colosso, all’uomo più ricco del mondo, a quello più generoso, più rassicurante, i capelli ordinati. Pensi alle foto di Gates da giovane, gli occhiali enormi, il sorriso da studente secchione, i dentoni di fuori. Pensi a Microsoft e pensi alla routine, on oppure off? Pensi a Apple e, invece, pensi al colore. Pensi al fuoriclasse, non pensi al mediano (fortissimo) che non salta mai una partita. Pensi ad Apple e pensi subito a Steve Jobs, alla maglietta nera a collo alto, all’iPod infilato nelle orecchie, lo schermo enorme dietro alle sue spalle, il grande evento, la grande presentazione. Microsoft si compra perché si deve comprare, Apple si compra perché non si può far a meno di comprarla, di provare il nuovo computer, quelle cuffiette, quell’iPod, quel costumino in pelle con il lettore in mezzo alle mutande, quel portafoglio con l’iPod nano, quel lettore incastrato in mezzo al porta documenti, quell’iPod sulle scarpe o sulla lampada o sulla cravatta. Con Gates e con Microsoft non è così. Apple significa Jobs, Microsoft invece non è solo Gates. E’ per questo che Gates (che fino al 1987, come riportato dal New York Times, utilizzava nel suo ufficio un Macintosh) può dire senza troppi problemi che dal prossimo anno si occuperà di altro, che dal luglio 2008 si occuperà di beneficenza e un po’ meno di Microsoft senza creare troppi problemi a Microsoft. Ed è per questo che, come stimato dall’analista di Piper Jaffray Gene Munster, senza Jobs, Apple cadrebbe in borsa del 25 per cento. Cioè, senza Jobs Apple non sarebbe più Apple. Senza Gates Microsoft sarà ancora Microsoft.
Dieci anni dopo quel 4 gennaio di vent’anni fa, Microsoft stava per investire 150 milioni di dollari nella Apple. Gates avrebbe prodotto software per il Macintosh per i successivi cinque anni. Steve entrò nella stanza dove era seduto Bill. Iniziò a parlare, si alzò in piedi, spiego a Bill perché il mercato era tutto loro, perché avrebbero potuto conquistare il mondo, perché avrebbero potuto prendere tutto quello che volevano, loro due, cinquanta uno, cinquanta l’altro. Bill rimase affascinato, disse che quell’uomo era incredibile, davvero incredibile. Disse che come venditore era un vero maestro, che c’era molto da imparare da Steve, se non fosse che Microsoft aveva il 97 per cento del mercato mentre Apple aveva il tre per cento. Ma era un dettaglio, niente di più. Otto mesi dopo Steve diventò direttore generale ad interim della Apple e si trasferì nel piccolo ufficio accanto alla sala riunioni del consiglio di amministrazione. Le azioni intanto erano salite a trentadue dollari, aumentando del ventitré per cento in un solo giorno. Bill era già diventato l’uomo più ricco del mondo, Steve no (anche se ora, secondo la rivista Forbes, Jobs è il quarantanovesimo più ricco del mondo). Steve voleva semplicemente provare a cambiarlo il mondo e continuava a ripetere: “Datemi una tastiera, una tastiera alla volta e ve lo cambierò davvero il mondo”. Steve, non appena fu nominato direttore generale, iniziò a girare senza scarpe e senza calzini nella sede di Apple, fece cambiare tutte le penne della cancelleria, ed era serio, estremamente serio. “Che ci fai tu qui?”, chiese al suo vecchio amico Wharton, che era stato assistente di Gil. Steve lo conosceva bene Wharton, sapeva bene quante lauree aveva e Wharton di lauree ne aveva tre. “Sto imballando le mie cose, me ne vado”, disse Wharton. E Steve. “Vuoi dire che non avrai un lavoro? Molto bene, ho proprio bisogno di qualcuno che mi faccia del lavoro di merda” e Wharton rimase lì in ufficio. Quella fu la prima assunzione di Steve, prima che Steve decidesse di cambiare la Silicon Valley e riuscendo in solo tre anni (nell’ottobre del 1998) a rivoluzionare la già rivoluzionaria Apple, portandola per la prima volta a tre trimestri consecutivi di utili (si parlava, allora, di cifre vicine ai 105 milioni di dollari). Jobs aveva un’idea più che un gran computer. Ed è proprio con un’idea che Jobs ha creato l’iTunes, l’iPod, l’iTv e l’iPhone. Con un piano geniale, più che costoso, grazie al quale, ad esempio, in novanta giorni è riuscito a vendere 450 mila scarpe Nike con iPod incorporato e grazie al quale è riuscito ad assicurarsi il settanta per cento del mercato degli mp3 nelle macchine americane quando il mercato degli mp3 nelle auto americane non era ancora neanche partito. Così, solo con un progetto, nato a Cupertino ma che poteva nascere, per dire, anche a uno Steve Jobs di Frosinone. Perché Jobs ha fatto molti errori, ha pagato, ha presentato un progetto che si chiamava Lisa e che aveva lo stesso nome della prima figlia che non voleva riconoscere perché sua solo “al 94 per cento”. Jobs ha anche sbagliato, ma non si è mai fermato. Dopo il progetto Lisa (che è stato un fallimento), Jobs non ha più smesso di essere la rock star della Silicon Valley, non ha più smesso di creare un impero che comincia con la Mela, comincia con Apple ma non si ferma a Cupertino. Steve ha fondato Apple ma ha praticamente fondato anche la Pixar (è entrato pochi mesi dopo che Lucas aprisse l’ufficio a Emeryville in California), che ha avuto il suo momento di maggior successo proprio quando ha messo in pratica tre intuizioni di Steve, tre cartoni animati come “Nemo”, “Toy Story” e “Gli Incredibili”. Poi, il 24 gennaio dello scorso anno, la Disney ha comprato per 7,6 miliardi di dollari la Pixar di cui Jobs era azionista di maggioranza con il 50,6 per cento. Dopo la fusione Jobs è diventato azionista numero uno di Walt Disney, società di cui ora è consigliere direttivo (il Ceo di Disney si chiama Robert A. Iger). Ma dire Disney più Jobs significa ovviamente dire Disney più Apple. E questo cosa significa? Significa che Jobs ha creato un mercato di convergenze piuttosto importante, e dato che Apple ora è anche un po’ televisione (grazie all’iPhone e grazie all’iTv) non è certo difficile immaginare uno scenario futuro in cui Apple potrebbe trasmettere sugli schermi del suo iPhone i film e lo sport prodotti dalla Disney (Disney è proprietaria anche del canale sportivo Espn sport).
Jobs è partito da un sogno, dal suo famosissimo garage di San Francisco dove, assieme all’amico Stephen Wozniak, utilizzò i primi programmi, progettò i primi computer, fumava moltissimo, provava anche gli acidi (in un’intervita rilasciata nel libro “What the Dormouse Said”, Jobs racconta che l’Lsd è stata una delle due o tre cose più importanti fatte nel corso della sua vita), ascoltava Bob Dylan (Steve va pazzo per Bob Dylan e pare che, durante i primi sei mesi passati al Reed College, ebbe anche una relazione con l’allora compagna di Dylan, Joan Baez) e dove per la prima volta, leggendo il nome della casa di produzione dei Beatles (l’Apple Corps Project, di cui forse già la prossima settimana per la prima volta nella storia potrebbe iniziare a distribuirne le canzoni), pensò a come chiamare il suo piccolo gioiellino: come una apple, come una mela.
Scrivono Roger McNamee, finanziere, opinionista e ora consulente di Bono degli U2, e il giornalista Alan Deutschman: “Steve Jobs è la personalità che meglio rispecchia la Silicon Valley. L’evoluzione di Steve Jobs è andata di pari passo con quella della Silicon Valley. Negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta Steve e la valle erano dei ragazzi terribili che facevano le pernacchie ai giganti. Ma entrambi persero slancio sul finire degli anni Ottanta, quando nuove potenze emersero altrove: la Microsoft a Seattle, la Dell e la Compaq in Texas, poi verso la fine degli anni Novanta tornò Steve e il nord della California divenne il centro nevralgico della riserva tecnologica”.
L’iPod è stato il colpo più importante messo a segno negli ultimi anni da Jobs. Jobs, al contrario di quel che si può pensare, non ha mai fatto una corsa per inseguire Microsoft. Apple inseguiva solo Apple. Ma con l’iPod poi è cambiato tutto. Con il lettore di musica digitale, Jobs ha attualmente l’80 per cento della quota di mercato degli mp3 (ma nel solo periodo che va dal 19 novembre al 23 dicembre Apple avrebbe conquistato il 57,3 per cento del mercato e oltre il 15 per cento in più rispetto allo scorso anno, anno in cui era già arrivata al 42 per cento). Ora sono gli altri che inseguono Apple, sono gli altri che provano a togliere utenti all’iTunes e possibilmente anche all’iPod. Inseguono tutti perché tutti vogliono controllare il mercato della musica digitale. Insegue Bill Gates con il suo Zune, insegue Google grazie a You Tube, insegue Murdoch con MySpace.
Per comprendere per quale motivo sia così importante il mercato della musica digitale basta capire che cosa si può fare oggi con l’iPhone, il gioiello lanciato da Jobs all’inizio dell’anno. Con l’iPhone si può ascoltare la musica, si possono scrivere e-mail, si possono inviare messaggi, si possono vedere video e magari anche film. Con l’iPhone si può anche telefonare. Questa si chiama convergenza e la convergenza è al centro dei nodi che girano attorno al mondo delle nuove tecnologie. “Ma la musica è solo un pretesto, come il calcio con il digitale terrestre. Per poter fidelizzare un cliente su un prodotto occorre prima trovare un oggetto di consumo particolarmente accattivante e particolarmente conveniente. E, in questo momento, chi controlla la musica controlla anche i dispositivi con cui attualmente si ascolta per lo più musica ma con cui in futuro si potrà fare davvero di tutto”, dice al Foglio il professor Alberto Marinelli, docente di nuove tecnologie all’Università la Sapienza di Roma. Steve ora è tornato a essere quello che era quando aveva cominciato, quando a vent’anni voleva cambiare il mondo e quando a ventuno il mondo lo cambiò davvero.
Steve non ha mai avuto un buon rapporto con chi prova a parlare di lui o con chi prova a raccontare la sua vita. Non è come Bill, sempre friendly, o come i due sorridenti fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin. Quando Steve incontra un giornalista lo chiama e prende un appuntamento, Steve lo fa aspettare venti minuti, mezz’ora, anche un’ora. Poi dà il permesso, lo fa entrare in sala, non alza neppure lo sguardo, continua a leggere i giornali, hello, please tell me, comincia l’intervista, ma Steve le pagine continua a sfogliarle comunque. E’ sempre stato così, Steve. Quando fondò Apple e quando uscì da Apple. Quando fondò Next e quando uscì da Next, quando tornò in Apple, quando era in crisi e quando non lo era più. Nel 1995 la redazione di Newsweek stava preparando una lunga inchiesta sui cinquanta uomini più importanti del mondo in campo tecnologico. Di fronte al tavolo ovale della sede newyorchese, si alza la giornalista Katie Hafner, che dieci anni dopo avrebbe scritto una delle tantissime biografie su Steve. Katie chiede di poter parlare e dice: “E Jobs, dove lo mettiamo Jobs?”. I suoi colleghi, tutti insieme, rispondono: “Sorry, who is Jobs?”, “Chi è Jobs?”, chiesero. Quattro anni dopo Vanity Fair aveva però già promosso Steve dal numero quattordici al numero sette della classifica degli uomini più potenti degli Stati Uniti. Steve era rinato, era tornato a Cupertino. Il direttore di Vanity Fair già allora si chiamava Graydon Carter e diceva che Steve era il manager “X”, aveva il carisma, il fascino, aveva tutto quello che serviva. Ma Steve (come ricorda Alan Deutschman nel libro “I su e giù di Steve Jobs”) in quel numero di Vanity era descritto prima così: “Il quarantaquattrenne Jobs, noto per la sua intolleranza verso i buzzurri, cioè tutta la gente meno intelligente e meno sveglia di lui, durante una riunione espresse il suo sconforto versando un bicchiere d’acqua sulla testa di uno dei dipendenti”. E, sempre Vanity Fair, raccontava che “durante un colloquio di assunzione con una giovane, a cui si presentò indossando calzoncini corti senza aver nulla sotto, allargò distrattamente le gambe mettendo in mostra la sua merce davanti all’ingenua postulante”. Steve non gradì, non gradì affatto e nella successiva intervista che rilasciò pochi giorni dopo il suo quarantaquattresimo compleanno, alla prima occasione si rifece così: “Allora Jobs, cosa farebbe se potesse tornare indietro e dare un consiglio alla persona che lei era vent’anni fa?”, gli chiese un giornalista di Wired. E lui. “Cosa non rifarei? Niente interviste cretine, non ho tempo per queste stronzate filosofiche. Sono una persona molto occupata, io”.
Steve non ama ricordare il suo passato e non ama particolarmente ricordare che quando aveva vent’anni aveva fondato Apple, che in dieci anni Apple era diventata un’azienda da 2 miliardi con oltre duemila dipendenti, ma non gradisce raccontare che a un certo punto voleva abbandonare tutto, voleva andare via e aveva iniziato a odiare anche la Silicon Valley. Ed è per questo che Jobs tiene sotto controllo tutto ciò che in America parla di lui. Ed è anche per questo che Steve ha censurato diverse biografie (l’ultima è stata quella che si intitola “Steve Jobs, Icon or I con?”, che tradotto significa: “Steve Jobs, è un’icona oppure è una truffa?”, subito ritirata da tutti gli Apple store del mondo). Ma ci sono anche altri momenti della sua vita che Steve non ricorda volentieri. Uno di questi è il giorno in cui Steve nacque. Era il 24 febbraio 1955 e la madre aveva già organizzato tutta la vita del figlio. Steve doveva studiare, doveva andare al college, doveva lavorare bene, doveva avere i soldi e per questo non poteva rimanere con lei, dato che era ancora una studentessa. Aveva organizzato tutto, la mamma aveva preso accordi con una coppia ricca e piuttosto colta. Erano d’accordo su qualsiasi cosa, sui soldi, sull’università, sugli studi, tranne che su una cosa. I due volevano una bambina, Steve invece era un maschietto. Fu per questo che i due genitori adottivi non presero Steve e Steve finì con i secondi di quella lista di genitori adottivi. Erano due genitori poveri e neanche laureati.
Steve non ama parlare del suo passato, non ama parlare del tumore che nel 2004 lo colpì al pancreas ma non ama nemmeno parlare di tutto ciò che non riguardi le idee, i progetti, i suoi piani. Poche settimane fa però, dopo un’indagine sulle stock options della Apple, Steve Jobs si è cacciato nei guai e a molti giornali non è parso vero poter spettegolare su Steve. Cosa è successo. Apple ha scoperto che circa 6.500 stock options erano state retrodatate. Il periodo è quello che va tra il 1997 e il 2002. Quei soldi che erano usciti fuori dalle casse Apple avevano creato un buco da 84 milioni di euro. Lo scandalo si è fatto poi più pesante perché non soltanto Jobs nel 2001 aveva convertito cinque milioni di azioni, ma anche la sua vecchia Pixar era stata travolta da un problema praticamente identico. Jobs poi è stato assolto, anche se non con formula piena. Ma in quei giorni uno dei primi a difendere Jobs è stato Al Gore, ex vice presidente degli Stati Uniti, ex candidato democratico alla Casa Bianca nel 2000. Al Gore è una pedina molto importante nel panorama dei nuovi media statunitensi. Gore fa parte del board of directors di Apple ed è senior advisor di Google. Gore è molto legato a Eric Schmidt, numero uno di Google, nonché uno dei massimi finanziatori dei democratici. Anche Schmidt, da qualche mese, è entrato a far parte della squadra di Apple e la sua presenza condiziona non poco l’orientamento politico sia di Jobs sia della sua società.
Ma il rapporto tra i liberal americani e uno dei principali volti della new economy (e non solo di quella, perché Apple è ovviamente anche altro) va al di là del singolo triangolo Schmidt-Gore-Jobs. Steve Jobs, continuamente corteggiato dagli stessi democratici, si è avvicinato al mondo della politica più volte. Dal 1996 Jobs assieme alla moglie Laurene, ha versato 250 mila dollari nelle casse dei democratici. Nel 2004 è stato consigliere economico nel corso della campagna elettorale di John Kerry e otto anni prima, nel 1996, aveva conosciuto Bill Clinton proprio alla fine del suo primo mandato. Clinton, insieme con Hillary, andò in California a cena da Jobs, nella sua casa di Palo Alto e – raccontano – lì non si parlò solo di computer. Pochi mesi dopo Steve fu invitato dai Clinton alla Casa Bianca e, dopo aver cenato, fu ospitato nella famosissima Lincoln’s bedroom. Steve alla Casa Bianca c’era già stato una volta, quando Ronald Reagan nel febbraio del 1985 gli consegnò la National Technology Medal. Steve, tra l’altro, aveva già conosciuto anche François Mitterrand durante un pranzo di gala in California. Fu proprio l’ex presidente francese a invitare Jobs a pranzo e tanto per ricambiare la cortesia, una volta arrivato al pranzo, Steve disse a Mitterrand: “Potreste cucinarmi un po’ di pasta per favore?”.
Oltre a Kerry, Al Gore e Clinton, nel 2006, il San Francisco Chronicle (prendendo spunto anche dalla grande amicizia tra Jobs e Jerry Brown, ex governatore della California) dedicò un lungo articolo per spiegare quali erano gli intrecci che avrebbero portato Jobs a candidarsi come governatore proprio della California. Era un’idea poi non se ne fece più niente. Jobs però non ha fretta. Ma anche se chi lo conosce bene dice che in testa ha ben altre intenzioni, Steve i suoi rapporti politici continua a coltivarseli con una certa attenzione. Pochi giorni dopo le elezioni di mid-term, sembra che Steve sia stato adocchiato in una stanza riservata nel ristorante thailandese di Los Gotos, a Washington. Attorno al tavolo erano in tre. Lui, Al Gore e Nancy Pelosi, futura speaker democratica alla Camera e dal 1987 rappresentante dell’ottavo distretto della California in Canaa. Con Nancy, Steve – tra l’altro – condivide la passione per il gruppo musicale dei Greatful Dead. Steve, dice chi lo conosce bene, se proprio deve farlo, se proprio deve entrare in politica, non si accontenterebbe di essere un governatore qualsiasi o un senatore qualsiasi. Steve vorrebbe, e non è uno scherzo, proprio la Casa Bianca. Qualche anno fa il suo amico William Foster, così un po’ per gioco, ha fatto un tentativo, ha provato a vedere cosa poteva succedere e ha lanciato per pochissimi giorni il sito “Steve Jobs for President”. La notizia è stata subito ripresa da Wired che dopo dieci minuti aveva ricevuto diecimila click, centinaia di e-mail e tantissime proposte di donazioni a supporto della presunta campagna per Jobs. Fu una provocazione, come fu una provocazione quella del giornale tedesco Die Welt che nel 2005 dedicò un lunghissimo articolo per spiegare per quale motivo Bush fosse diventato lo Steve Jobs della politica. E’ possibile, è davvero possibile che siano tutte provocazioni; ma intanto, caso strano, su Internet è stato registrato un sito piuttosto curioso: si chiama “jobsforpresident.org”, esiste da quattro anni, scadeva nove mesi fa e, chissà se è solo un caso, Jobs, quel sito, lo ha rinnovato anche quest’anno, proprio qualche settimana fa.
Claudio Cerasa
10/2/07

mercoledì 7 febbraio 2007

Il Foglio. Le orecchie ricucite del Barone di Catania e le mischie che non non sono risse

Lo zio aveva una gamba spezzata. Ginocchio e menisco e rugby mai più, dicevano gli altri. Andrea era lì e lo guardava. Sei un pilone, tu sei un pilone, gli diceva lo zio. Andrea aveva appena iniziato a giocare a Catania. A diciassette anni la Nazionale minore, ora quella maggiore, sabato scorso ancora il Sei Nazioni. Lo zio aveva ricominciato subito con il rugby perché il rugby, ripeteva lo zio, non ha tempo da perdere con i menischi e con le gambe spezzate. Passano pochi anni, lo zio smette, dei due Lo Cicero resta soltanto il nipote. Resta Andrea, e non è poco.
Andrea Lo Cicero, ora, ha trent’anni, è uno dei rugbisti più famosi d’Italia, non ama il Super Bowl e sabato scorso ha perso con la Nazionale la prima gara dell’anno. Ma capita, nel rugby capita spesso, all’Italia capita un po’ troppo spesso, però mai un fischio, mai una contestazione. Si gioca, poi si perde, ma non si protesta. A fine gara, nel rugby, si applaude, si esulta, si piange, poi i tifosi bevono insieme con i poliziotti, gli italiani con i francesi, i francesi con gli scozzesi, i catanesi con i palermitani. Niente risse in campo e niente risse fuori. La rissa, se proprio arriva, sul prato si chiama mischia. Il rugby è così, non è come il calcio. Se giochi a rugby non cambi squadra perché tua moglie ti dice tesoro andiamo a Londra i nostri figli devono imparare l’inglese, oppure tesoro andiamo a Milano, con tutte quelle sfilate, oppure, amore mio andiamo a Madrid, sai che shopping che si fa laggiù. Nel rugby è un po’ diverso. Chi gioca a rugby pensa a qual è il posto migliore dove prenderne di più, pensa a qual è il posto migliore dove trovare una mischia, dove correre in meta, dove potersi fasciare un orecchio, stringere i denti, testa bassa, palla laterale, passaggio, scatto, meta, altro che shopping.
La differenza con il calcio è tutta qui. Pensi al gol più bello, al più grande di tutti, a quello che ha fatto la storia e pensi a Maradona contro l’Inghilterra, pensi a George Weah contro il Verona, pensi a Ronaldo con il Barcellona, al colpo di testa di Pelé, a Zidane nella finale di Champions; pensi a un gol e pensi a un giocatore, ma soltanto a uno, soltanto a lui. Si dice: ricordi quel gol di Maradona? Non si dice: ricordi quel gol dell’Argentina. Pensi al gol e pensi al goleador. Pensi alla meta e pensi alla squadra, al passaggio, al placcaggio, palla a destra, poi a sinistra, uno, due, tre, ancora placcaggio, mischia, scatto laterale, pochi secondi e palla in meta, altro che touchdown. Pensi alla squadra non al giocatore, pensi agli scatti non allo scatto, alle azioni, non all’azione. Pensi a Gareth Edwards, ai Barbarians e pensi agli All Blacks, non a un solo All Blacks. Pensi ad Andrea Lo Cicero, il Barone come lo chiama Paolo Cecinelli nel libro dedicato proprio al pilone catanese (Baldini Castoldi Dalai, 17.50 euro), pensi a lui ma non puoi non pensare anche all’Italia, allo Stadio Flaminio, alla squadra, allo spogliatoio, ai denti spezzati, le orecchie maciullate, la mischia, i caschetti, le orecchie ricucite dal chirurgo. Come quelle di Andrea.
Andrea Lo Cicero non ha una faccia da attore e non ha un fisico per posare su cavalli bianchi della Disney, come ha fatto David Beckham non appena arrivato negli Stati Uniti. Andrea Lo Cicero è un rugbista e basta. Usa la dentiera, usa il caschetto ma non usa le protezioni. Perché, dice lui, gli uomini fanno così. Il rugby, dice, non è football americano, non è calcio. Quando fai una mischia devi sentirlo l’avversario. Ci devi essere tu, il tuo petto, la maglietta e i muscoli di chi ti sta davanti. Le imbottiture non servono, il materasso non serve. Se prendi un calcio quel calcio devi sentirlo bene, devi sentirlo dentro lo stomaco. Dice Lo Cicero: “In una rissa si entra con la testa, il tuo avversario deve capire che il suo pomeriggio brutto è appena cominciato”. Le imbottiture a cosa servono? Servono a far finta di non aver paura. I pugni arrivano sempre e tu non sai mai dove arrivano prima. Devi accettarli perché poi finisce lì. Poi si discute, ma senza risse. Palla o avversario, mischia o meta, poi una chiara piccola per tutti, grazie.
Il rugby non è Super Bowl, non è calcio; non ci sono tanti soldi e fino al 1996 i soldi non c’erano proprio. Ora i soldi ci sono, Andrea Lo Cicero non ne guadagna pochi, ha girato l’Europa, gioca da dieci anni in Nazionale, ha giocato sette volte il “Sei Nazioni” e due volte la Coppa del mondo. Nel 1999 la sua prima volta contro gli All Blacks, che guai a dire che sono come il Brasile per il calcio, gli All Blacks sono gli All Blacks perché il Brasile ha la samba e gli All Blacks hanno l’“Haka” e l’“Haka” gli All Blacks non la ballano per divertirsi, l’“Haka” è il ballo della distruzione, della morte dell’avversario. Andrea ci gioca con gli All Blacks, prima partita 101 a 3, seconda 53 a 23. Va in meta anche Lo Cicero, Lo Cicero va in meta quasi sempre, è andato in meta anche sabato scorso con la Francia, magari andrà in meta anche sabato contro l’Inghilterra. Va in meta lui, ma la meta che si ricorda è quella dell’Italia, non di Lo Cicero.
Nel rugby capita che si giochi anche una, due volte alla settimana. Si gioca tanto ma non c’è nessuno che si lamenta, nessuno che dice non ho tempo di allenarmi, non ho tempo per preparare la partita. Nel rugby giochi e non hai paura di essere squalificato, non esci prima dalla partita perché mister, ho una fitta alla coscia.
I quindici anni di Andrea Lo Cicero eccoli qui: cinquantacinque punti in testa, ventuno solo a un orecchio, sei dita spezzate, quattro costole rotte, un gomito uscito fuori, spalle lussate, una clavicola rotta, distorsioni, collaterale, sublussazione al ginocchio, ma Lo Cicero non ha mai chiesto un cambio. Una volta sola ha chiesto di non giocare, ma non era un cambio. E’ successo tre anni fa. Andrea era depresso. Giocava al Tolosa, si rompe un ginocchio come lo zio, come lo zio torna a giocare, arriva fino alla fine della stagione, nuovo contratto, poi la depressione. Per un po’, dice, basta rugby. Poi arriva la chiamata in Nazionale, lui va, il Tolosa non vuole, la Nazionale dice non ti preoccupare, Lo Cicero non si preoccupa, la Nazionale non risolve il problema, il Tolosa lo caccia, Lo Cicero gioca, entra in depressione. Poi ritorna. Ritorna e gioca proprio lì, la sua prima gara la rigioca in Francia. Il pubblico lo applaude, nessun fischio. Ora Andrea è guarito. Gioca all’Aquila dopo essere stato a Catania, in Francia, a Roma. E’ un pilone, un uomo di mischia, lancia i compagni, ma va anche in meta. Come Gareth Edwards, che giocava nei Barbarians, una squadra non come le altre. Nei Barbarians non si può chiedere di entrare, non ci sono contratti e neanche ingaggi; l’invito arriva per posta e non ricevi un euro. E’ solo un onore, devi essere bravo, potente ma non diventi ricco. Devi essere solo bravo, non c’è bisogno che tu vada sui cavalli bianchi. I Barbarians sono stati fondati nel 1890, da allora sono arrivati più o meno duemila giocatori, da 25 paesi. Li chiamano i baa-baas. Lo Cicero ci gioca da tre mesi.
Claudio Cerasa

7/2/07

giovedì 1 febbraio 2007

Il Foglio. “Dieci anni di Pignolerie” che (tra gli altri) non faranno felice il kennediano Veltroni

Prima ancora che scoprisse l’Alba, prima ancora che scoprisse (anche se per poco) l’Africa e prima ancora che Walter Veltroni iniziasse a spiegare che cosa in realtà voleva dire Kennedy e che cosa in realtà voleva dire Charlie Chaplin e che cosa in realtà voleva dire Martin Luther King, c’è qualcuno che ha scoperto come – e per di più soltanto dieci anni fa – il futuro sindaco di Roma, parlando già con una certa abilità di Kennedy, Chaplin e Luther King, a voler essere molto pignoli qualche erroruccio forse potrebbe pure averlo commesso. Nel suo libro “Dieci anni di Pignolerie” (Edizioni Ares, 14 euro), tra un Vittorio Zucconi che parla delle “campagne elettorali di Ford” (peccato che Ford non abbia mai fatto campagne elettorali), tra un Enrico Mentana che celebra “Il ritratto di Dorian Gray” come il romanzo più famoso di Oscar Wilde (probabilmente anche perché è l’unico che Wilde scrisse), Mauro della Porta Raffo ricorda un paio di cosucce che – giusto dieci anni fa – sfuggirono a Walter. Ricorda come, ad esempio, commentando lo stesso “Grande dittatore” con il quale Walter è solito cominciare i monologhi della sua tourné in giro per i teatri italiani, Veltroni spiegava: “Vinta la guerra, Chaplin dovette fare i conti con i suoi amici in casa. Quelli che lo sospettarono di attività antiamericane”. Errore, errore, errore. “Chaplin – ricorda il Pignolo – era inglese e non americano e quindi quel ‘in casa sua’ riferito agli Stati Uniti fa pensare che il noto critico (Walter, ndr) non conosca la reale nazionalità del grandissimo Charlot”. Sarà un caso. O forse no, dato che prima di questa seppur trascurabile svista, il 29 luglio 1999 Veltroni nel corso di un’intervista rilasciata alla Stampa, spiega perché John Kennedy “risolse i problemi collegati all’integrazione razziale ‘con le leggi relative’”. Ovvero, il Civil Right Act. Ahi, ahi. Errore. Il Civil Right Act, come Veltroni ora saprà perfettamente, fu firmato nel 1964 da Lyndon Johnson. E, purtroppo per Walter, Kennedy era morto ormai quasi da un anno. Pur non volendo certo polemizzare con il “grande critico cinematografico”, il Gran Pignolo, con eleganza, si riserva di ricordare all’ex ministro dei Beni culturali che attribuire il Civil Right Act a John Kennedy vuol dire anche dimenticare che proprio l’amministrazione Kennedy fu accusata da Martin Luther King “di essersi accontentata di un progresso fittizio nelle questioni razziali”. Ma tra gli appunti che da dieci anni segnalano su questo giornale gli scivoloni di firme come Biagi, Scalfari, Franchi o Carretto, si trovano anche molte sviste di politica estera. Sviste che diventano clamorose se a farle, poi, è un futuro ministro degli Esteri come Massimo D’Alema, il quale soltanto quattro anni fa sosteneva che “Bush è riuscito a strappar la vittoria ad Al Gore con un blitz della Corte suprema”. Forse però un ex premier dovrebbe sapere che “il voto popolare negli Stati Uniti – scrive sdegnato il Pignolo – vale stato per stato e quindi fare riferimento al maggior numero di voti ricevuti da Al Gore è un affermazione completamente priva di senso”. Ma senza voler nulla togliere ai pur rilevanti errori di firme come Mereghetti, Mieli, Ottone e Riotta, c’è una svista – o forse un lapsus – molto utile per capire perché quando politici come Goffredo Bettini parlano di “facce nuove” o di figure giovanili per il futuro della politica italiana, non possono proprio non pensare a un giovanotto come Walter. Siamo nel 1998 e in un libro pubblicato per Sperling & Kupfer, Veltroni, dopo aver raccontato la sua passione per “Il ragazzo Elwood” del film “Harvey” (peccato che il “ragazzo” abbia già quarantadue anni), confessa che una delle pellicole più importanti della sua adolescenza sia stata “L’uomo dei sogni”, film girato nel 1989, anno in cui l’adolescente Walter di anni però ne aveva già trentaquattro.
Claudio Cerasa
1 Febbraio 2007