venerdì 29 dicembre 2006

Il Foglio, Politica e Sapientino. Yahoo (pro Bush) cerca la rivincita

Roma. Susan Decker ha 44 anni, abita in California, lavora per Yahoo vota per i repubblicani ed è considerata l’astro nascente del secondo motore di ricerca più importante del mondo. Nell’ultima grande occasione che ha Yahoo per non veder definitivamente scappar via l’altro motore di ricerca, il primo al mondo, cioè Google, l’azienda californiana ha affidato a Susan Decker e a Terry Semel (attuale amministratore delegato di Yahoo) la gestione delle strategie future per recuperare terreno rispetto alla corazzata guidata da Sergei Brin, Larry Page e Eric Schmidt.
La sfida tra Google e Yahoo, oltre che essere una sfida tecnologica, è soprattutto una sfida politica. Decker e Semel sono due rilevanti finanziatori del partito guidato dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush, così come Eric Schmidt (numero uno di Google) è assai vicino agli ambienti democratici legati a Bill e Hillary Clinton, e Al Gore (quest’ultimo, tra l’altro, è così vicino a Google da essere diventato membro della stessa dirigenza della società informatica dopo aver organizzato la più importante serata di raccolta fondi per sua campagna elettorale proprio nella casa del numero uno di Google).
Per questo motivo non sorprende che dal 2002 a oggi Terry Semel abbia versato nelle casse di Bush una somma praticamente identica a quella versata da Schmidt nelle casse dei democratici, circa 220.000 dollari (1.000 dollari in più dello stesso Schmidt, che però ha convinto quasi tutti i manager di prima linea della sua azienda a versare contributi al Partito democratico). George W. Bush sembra che abbia una viva considerazione di Terry Semel e ha apprezzato così tanto la sua campagna di mobilitazione pro repubblicana da aver valutato – all’inizio del secondo mandato – la possibilità di nominare lo stesso Semel a capo di una sede diplomatica.

Un anno di fallimenti
La sfida di Yahoo non è affatto una sfida impossibile. Perché è vero che negli ultimi mesi Google ha raggiunto risultati eccellenti che hanno portato l’azienda di Mountain View a incrementare il valore delle sue azioni del 600 per cento in poco meno di cinque anni, è vero che Google – per la prima volta nella sua storia – lo scorso 21 novembre è arrivata a segnare quota 500 dollari a Wall Street, è vero che Google ha fatto registrare – all’interno delle sue pagine – più del doppio delle ricerche totali degli Stati Uniti (50 per cento, Yahoo è al 24 per cento) ed è altrettanto vero che il valore di mercato di Google è tre volte superiore a quello di Yahoo (120 miliardi contro i 35 di Yahoo), ma per la prima volta dopo molti anni le carte messe in tavola da Yahoo potrebbero davvero portare a rosicchiare un po’ di terreno attorno a Google.
Yahoo – esattamente come tutti gli altri giocatori in campo – ha capito che per non disperdere troppe energie deve concentrarsi su pochi ma precisi punti, dato che l’unica debolezza che può avere Google è quella di non riuscire a tenere sotto controllo tutti i fronti dove si trova impegnata attualmente, e sui quali è quotidianamente attaccata (video, musica, ricerca, news). Yahoo ha deciso di concentrarsi sui tre punti contenuti in un report scritto dal vicepresidente vicario, Brad Garlinghouse; e cioè, le news, la pubblicità e un progetto che si chiama “Yahoo! Answers”, una specie di Sapientino telematico globalizzato in cui gli utenti in forum rispondono a qualunque tipo di domanda, dall’economia ai viaggi. “Yahoo! Answers” ha già battuto il concorrente “Google Answers”. Ma ciò su cui punta davvero Yahoo sono le notizie. Per quanto riguarda le news, Yahoo ha già superato il servizio di Google; se non altro perché mentre Google aggrega le notizie provenienti dalla rete con un programma meccanico, Yahoo lo fa classificandole manualmente con i propri giornalisti (è per questo che poco tempo fa è stato acquistato dal Guardian il giornalista Lloyd Shepherd, ora a capo dello sviluppo dei contenuti Yahoo). A differenza di Google, Yahoo può ripartire su un dato che va tutto a suo vantaggio: Yahoo è infatti il sito Internet più visitato al mondo con circa 41,6 milioni di utenti mensili, superato a ottobre solo dall’azienda di Rupert Murdoch (Murdoch, tra l’altro, la scorsa settimana ha rinforzato la sua presenza sulla rete cedendo tre reti televisive alla Direct Tv di John Malone e aumentando la sua partecipazione nella News Corporation). Ma il problema del motore di ricerca più vicino agli ambienti repubblicani è che quando Yahoo raggiunge un buon risultato viene subito oscurata dai dati ben più rilevanti di Google. Ma questo non vuol dire che i risultati non arrivino.
All’inizio di novembre, Yahoo ha totalizzato circa 2,9 miliardi di dollari di fatturato, cioè circa il 17 per cento in più rispetto all’anno precedente. E questo dopo che la società californiana aveva visto scendere del 32 per cento il valore delle sue azioni nel 2005. La colpa della performance finanziaria negativa e degli investimenti sbagliati nel corso dell’anno passato è stata scaricata completamente sull’ex direttore Dan Rosensweig (mandato via il 14 dicembre con una buon’uscita di quattro milioni di dollari) e sull’ex dirigente dell’Abc Lloyd Braun, uscito anche lui dall’azienda ma senza essere licenziato. Terry Semel crede molto nel progetto di rilancio di Yahoo, per questo ha scelto di affidare il suo stipendio soltanto alle stock option tagliando il suo salario ufficiale a un solo dollaro al mese.
Claudio Cerasa

mercoledì 27 dicembre 2006

Il Foglio, 27/12/06. Da Londra a Regina Coeli. La strana storia di Mario

Roma. L’ex consulente della commissione Mitrokhin Mario Scaramella sarà interrogato oggi pomeriggio dal gip del Tribunale di Roma Guglielmo Muntoni nel carcere di Regina Coeli. Scaramella è stato arrestato dagli agenti romani della Digos domenica 24 dicembre all’aeroporto napoletano di Capodichino, dove era appena arrivato con un volo British Airways proveniente da Londra. Il trentaseienne napoletano è attualmente indagato dal pubblico ministero romano Pietro Saviotti per il reato di traffico d’armi e violazione del segreto d’ufficio. Ma il reato che ha portato all’ordinanza di custodia cautelare – per Scaramella – è stato quello di “calunnia aggravata e continuata”. A Scaramella è contestato il reato di aver attribuito a un cittadino ucraino “la realizzazione di attentati in Italia” organizzati ai danni dello stesso Scaramella e del senatore Paolo Guzzanti. Ma Scaramella è anche accusato di aver fornito alla commissione parlamentare Mitrokhin (commissione presieduta nel 2002 dal senatore di Forza Italia Paolo Guzzanti) notizie infondate per accreditarsi “nel suo ruolo di consulente della commissione”. In pratica, Scaramella avrebbe falsificato il suo curriculum. In un primo momento, il reato di traffico d’armi era però stato contestato anche dalla procura di Napoli, ma la stessa procura ha poi trasferito per competenza il fascicolo alla procura romana, dato che Scaramella ha operato come giudice onorario nella sezione distaccata del tribunale di Napoli a Ischia.
L’arresto di Scaramella è stato ripreso con una certa enfasi anche dalla Bbc, dal New York Times e dalla Cnn (che ha segnalato la notizia con una breaking news). Ma più che per i suoi risvolti italiani, la stampa internazionale è rimasta affascinata dagli intrecci che legano Scaramella e l’ex agente segreto russo Aleksandr Litvinenko, ucciso da una dose letale di polonio 210 lo scorso 23 novembre. Litvinenko è stato avvelenato a Londra il primo novembre. Proprio in quel giorno, Litvinenko ha incontrato Scaramella – suo contatto italiano – al Itsu Sushi bar di Piccadilly. Ventidue giorni dopo il russo è morto all’University College Hospital, cioè lo stesso ospedale dove Scaramella è stato ricoverato durante i primi giorni di dicembre quando aveva in corpo “cinque volte la dose mortale di Polonio 210”, come raccontato al Tg2 dallo stesso Scaramella. Scaramella diceva di sentirsi molto male, i giornali inglesi sostenevano che stesse bene, Guzzanti rispondeva di smetterla con questa logica della rassicurazione perché “Scaramella morirà”, i giornali inglesi un po’ maliziosamente facevano notare – ancora – che Scaramella non aveva alcun sintomo da polonio e c’era anche chi ipotizzava che lo stesso Scaramella sarebbe stato coinvolto nell’avvelenamento di Litvinenko.

“Non rientra nelle indagini su Litvinenko”
Ma per quale motivo non è stata direttamente la polizia britannica ad arrestare Scaramella? Da Scotland Yard fanno sapere che la questione relativa all’ex consulente Mitrokhin è “solo ed esclusivamene delle autorità italiane” e che l’arresto “non rientra nelle indagini sulla morte di Litvinenko”. Scaramella è uscito dall’ospedale londinese il 6 dicembre, ma dopo questa data ha continuato a far parlare di sé. Per due motivi in particolare. Ha fatto parlare di sé quando il senatore Guzzanti ha rivelato che Scaramella avrebbe richiesto a lui direttamente un importante incarico internazionale (un posto all’Onu o a Vienna) e ha fatto ancor più parlare di sé quando alcuni quotidiani hanno pubblicato intercettazioni telefoniche all’interno delle quali Scaramella spiegava la possibile vicinanza al Kgb di Romano Prodi, Oliviero Diliberto e Pecoraro Scanio (che nei brogliacci figurava sia con il nome di “Pecorasky” che con quello di “Culattosky”). Lo stesso Paolo Guzzanti, molto attivo in questi giorni sul suo blog, racconta che Scaramella (da Londra) gli avrebbe confidato di aspettarsi un arresto. Il legale di Scaramella, Sergio Rastrelli (che ieri pomeriggio ha trascorso quattro ore con il suo assistito, detenuto in isolamento nel carcere di Regina Coeli), ha però smentito tutto.
La notizia dell’arresto ha infine suscitato interesse nella maggioranza di governo. Il 24 dicembre il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, ha spiegato che sarebbe importante chiarire tutto il prima possibile perché – ha detto Mastella – “mi pare che la trama fosse una trama volta a creare problemi in larga misura al centrosinistra e al presidente Prodi”.
Claudio Cerasa

sabato 23 dicembre 2006

L'antisegolene è Paris. Così l’ereditiera più famosa del mondo ha creato un impero (assieme al chihuahua) per dare una lezione alla Royal (Il Foglio)

“Nessuna donna si sposa per denaro;
sono tutte tanto astute, prima di
sposare un miliardario, da innamorarsene”.
Cesare Pavese


Paris Hilton è la settima persona più
conosciuta (su Internet) in Australia,
la sesta in Canada, la decima in Danimarca,
la terza in Finlandia, la terza in
Germania, la dodicesima in Irlanda, l’ottava
in Nuova Zelanda, la sesta nelle Filippine,
la terza in Polonia, la quinta in
Sud Africa, l’ottava in Svezia ed è la prima
del mondo, secondo Google. Paris
Hilton ha venticinque anni, è un’attrice,
una cantante, un’ereditiera e una modella.
Guadagna mezzo milione di dollari
per ogni spot pubblicitario, ha ereditato
300 milioni di dollari da nonno Hilton,
ha scritto un libro, è nata lo stesso
giorno dell’Adriano dell’Inter, è nata lo
stesso giorno di Leonardo Pieraccioni, è
una grande amica di Britney Spears, ha
lo stesso agente di Bob Dylan, ha creato
un profumo, ha creato un club, è diventata
un videogioco, ha inciso un disco
(con cui ha venduto due milioni di copie),
ha inciso un singolo (con il quale
in cinque giorni è entrata in classifica
in Australia, in Germania e in Brasile).
Paris Hilton è bionda (ma si tinge), ha
gli occhi azzurri (ma porta le lentine colorate),
recita al cinema, ma recita anche
a teatro, recita in televisione, recita
anche nelle fiction, recita nei talk show
e recita nelle pubblicità; Paris Hilton ha
recentemente perso una Bentley Continental
GT da 150 mila euro giocando al
casinò di famiglia a Las Vegas. Paris
Hilton prima che cominciasse a viaggiare
in Europa credeva che in Europa tutti
parlassero francese e prima di arrivare
in Inghilterra non sapeva che Londra
si trovasse effettivamente proprio in Inghilterra.
Paris Hilton è recentemente
diventata anche un virus informatico e
pochi giorni fa il celebre regista indiano
Rajeevnath ha chiesto a Paris Hilton
di diventare la protagonista del suo
prossimo film. Rajeevnath ha detto di
aver apprezzato la scelta di Paris di non
posare nuda per Playboy. Nel film, Paris
Hilton interpreterà la parte di Madre
Teresa di Calcutta.
Prima che venisse fotografata completamente
ubriaca dentro una limousine
assieme a Britney Spears (anche lei
ubriaca e a quanto pare senza mutandine),
l’immagine più recente di Paris Hilton
è quella in cui la ricca ereditiera
viene ripresa in uno spot pubblicitario
di una marca di telefonini il cui nome si
trova giusto in mezzo al numero “due” e
al numero “quattro”. Nello spot in questione,
Paris Hilton, particolarmente annoiata,
scende da una limousine nera,
incontra Claudio Amendola, lo guarda,
si avvicina e inizia un dialogo che si concluderà
con un’immagine un po’ sfocata
della ricca ereditiera. Nella pubblicità,
la ricca ereditiera giocando sulla notorietà
della scarsa stabilità dei suoi rapporti
di coppia, apre la bocca e fa: “Meglio
cambiare, no?”. Nei circa 39 secondi
di pubblicità, pur mostrando un italiano
ben più convincente del conturbante
Claudio Amendola, Paris Hilton
(le abbiamo contate) utilizza ventidue
parole. Undici di queste sono in lingua
madre, cioè l’inglese. Le altre undici sono
in italiano e sono sempre le stesse
(“Meglio cambiare, no?”) con una decisiva
aggiunta nel secondo periodo: “Qualche
volta bisogna cambiare, no?”. Nella
prima versione mandata in onda dal gestore
di telefonia mobile, Paris Hilton
parla, ed è proprio lei che parla, si sente,
si capisce che è la sua voce. Ma pur
pronunciando soltanto undici parole in
italiano di cui molte uguali, Paris Hilton
è stata incredibilmente doppiata. E, osservando
con attenzione la pubblicità, si
nota distintamente che la voce di Paris
Hilton, pur essendo una cantante, pur
essendo un’attrice, pur essendo un’imprenditrice
e pur essendo una donna
dello spettacolo, non è più la voce di
quel genio di Paris Hilton. E questo è
molto da Paris Hilton.
Negli ultimi mesi, Paris Hilton è finita
sui giornali grazie a una serie di considerevoli
occasioni. E’ finita sui giornali
quando ha perso la sua cagnetta,
quando ha spiegato che la sua cagnetta
si chiama Tinkerbell, quando ha spiegato
che la sua cagnetta si chiama proprio
Tinkerbell come la Tinkerbell (che in
inglese significa Campanellino) di Peter
Pan. Paris è finita sui giornali quando
ha spiegato che in realtà la sua cagnetta
non era stata persa ma era stata rapita,
quando era stato ipotizzato che la
sua cagnetta fosse stata rapita perché in
quel momento indossava un vestito
Dior, quando poi si è scoperto che la sua
cagnetta forse non vestiva Dior ma vestiva
Armani, quando poi ha nuovamente
dato conferma del rapimento della sua
cagnetta, quando poi ha spiegato che
per colpa dell’assenza della sua cagnetta
non sarebbe stata in grado di incidere
un disco, quando poi ha rassicurato i
suoi fan di essere comunque pronta a
presentare il suo futuro disco (poi si
scoprì che il suo disco Paris lo aveva inciso
da diversi mesi) ed è inoltre finita
sui giornali quando ha ufficializzato che
effettivamente la sua cagnetta non era
mai stata rapita. Ancor più recentemente,
Paris Hilton è finita sui giornali
quando è stata arrestata, quando è stata
fotografata visibilmente ubriaca,
quando è stata vista a spasso con Britney
Spears e quando ha ritenuto opportuno
spiegare perché si sentisse un po’
Madonna e un po’ Marilyn Monroe. Anzi,
Paris è stata molto più precisa e ha
detto esattamente così: “Non c’è nessun
altro al mondo come me. Penso che ogni
decade abbia la sua icona bionda, come
Marilyn Monroe o la principessa Diana.
E, ora, sono io quell’icona”.
Paris Hilton è un genio. E’ un genio
perché riesce a essere esattamente
quello che gli altri credono che lei sia,
semplicemente senza dire nulla, senza
saper recitare, senza saper parlare, senza
saper cantare, senza sapere investire
un dollaro, senza saper fare neanche
una pubblicità. E, nonostante questo,
Paris Hilton riesce a fare tutto. Perché
sa quando fare la battuta e sa quando
non deve farla. Sa quando mostrare la
coscia e quando portare a spasso la cagnetta
con il vestito giusto al momento
giusto con il miliardario giusto di fronte
all’hotel giusto con la telecamera giusta
e il reggiseno giusto.
Capisci davvero che cosa significa essere
Paris Hilton quando vai in libreria
e dopo esserti messo in fila, aspettato il
turno, fatto aumentare la fila, aspettato
la commessa, aver fatto aumentare ancora
la fila, aver visto la commessa, aver
raggiunto la commessa e dopo aver nominato
la parola “Paris” e poi la parola
“Hilton” assicurandoti di aver separato
il più possibile il nome “Paris” da quello
“Hilton” (per non far capire che il libro
che stai comprando è effettivamente
un libro di Paris Hilton), dopo aver messo
sotto braccio un volume che si chiama
“Confessioni di un’ereditiera” (scritto da
lei, 12 euro), scopri che non c’è nessuno
che non sappia chi è quella ragazza che
sulla copertina del libro è sdraiata su
uno sfondo rosa, con le guance gonfie,
truccata malissimo, con un bracciale orribile,
i capelli tinti, le gambe storte, un
vestito rosa, una canottiera rosa e una
pelle più rosa della canottiera già particolarmente
rosa. Scopri che chiunque
senta parlare di Paris Hilton vuole sapere
per quale razza di motivo si debba
parlare di Paris Hilton. Capisci che Paris
Hilton riesce a incuriosire pur essendo
continuamente sovraesposta (solo Barack
Obama ha detto di “essere così sovraesposto
da essere riuscito a far passare
Paris Hilton per una reclusa”). Riesci
a capire perché Paris Hilton – pur essendo
molto meno bella di Ségolène Royal –,
riesca essere più bella di Ségolène Royal
e per certi versi anche più astuta.
Paris Hilton è l’anti Ségolène perché
Paris, a differenza di Ségolène, riesce a
farsi perdonare per essere una donna
famosa che porta la gonna. Perché Paris
riuscirebbe perfettamente a farsi perdonare
anche senza portarla affatto, la
gonna. Perché Paris Hilton riesce a far
parlare di sé senza dir nulla, riesce ad
essere continuamente sovraesposta pur
non esponendo nulla, riesce a essere
una bomba erotica riuscendo a essere
nello stesso tempo né erotica né tanto
meno una bomba. Perché l’impressione
che si ha è che, quando si parla di Ségolène,
si debba dire brava, ancora brava,
davvero brava e solo dopo – per non
offendere nessuno – si possa dire anche
“bella”. L’impressione che si ha è che
Ségolène – in alcuni momenti – è come
se cercasse di far dimenticare agli altri
che lei è effettivamente una donna. E’
come se – a volte – volesse negare che è
anche grazie a “quella sua seduzione di
genere che incarna”, che lei è arrivata
dove arrivata, come scritto su questo
giornale due settimane fa. Perché la
femminilità che incarna Ségolène è una
forza fino a quando qualcuno non nota
che effettivamente la sua femminilità, a
volte prevale sul resto. Perché Ségolène
Royal difficilmente ammetterà di essere
brava anche perché è una bella donna.
Perché – si dice – non è carino dire
che la sua seduzione personale, a volte,
arriva ben prima della seduzione politica.
Perché – si pensa – non è elegante ricordare
che Ségolène è arrivata dove
arrivata forse perché è anche la compagna
di François Hollande, numero uno
del partito socialista francese.
Paris Hilton, invece, non ha nessun
problema ad ammettere che lei ha sedotto
tutti semplicemente perché è una
donna, semplicemente perché fa finta di
essere bella e semplicemente perché
riesce benissimo a far finta di essere
bella. Non ha nessun problema ad ammettere
che lei ha sedotto tutti semplicemente
perché lei è figlia di Rick e
Kathy Hilton, e cioè i figli dell’inventore
dell’Hotel Hilton. E non ha nessun problema,
Paris, a ricordare che nonno Hilton
le ha lasciato qualcosa come 300 milioni
di dollari. Paris Hilton, invece, non
ha nessun problema ad ammettere che
lei è diventata famosa con un video amatoriale
finito incidentalmente su Internet
(la parola, incidentalmente però, la
usa soltanto Paris Hilton). Di quel video
che Paris Hilton ha girato a Las Vegas
nel 2003, nel giorno del suo compleanno
in compagnia del fidanzato, viene ricordato
soprattutto il suo interessante movimento
di bacino qualche centimetro
sotto l’addome del fidanzato, in quel momento
accidentalmente completamente
nudo e piuttosto eccitato. Anche Paris
era nuda e il complimento meno volgare
arrivato a Paris Hilton dopo questo
video finito casualmente su Internet, finito
casualmente sulla prima pagina
del New York Post di proprietà di Murdoch
proprio qualche settimana prima
che – incidentalmente – Paris Hilton debuttasse
in un’incredibile serie televisiva
(“The Simple Life”) assieme alla figlia
del cantante Lionel Richiel proprio
sulla Fox di proprietà di Murdoch, è
stato che Paris Hilton a letto in fondo
non è granché. I fidanzati successivi,
che non sono pochi, però non confermano.
Solo uno, lasciato subito da Paris
Hilton, ha provato a suggerire che le
prestazioni erotiche di Paris Hilton sono
simili a quelle che si potrebbero avere
con un frigorifero di un metro e ottantaquattro
centimetri.
Paris Hilton è un genio perché ha
professionalizzato quella non bellezza
che riesce a diventare bellezza. L’essere
contemporaneamente cantante, attrice
e musicista, riuscendo a non essere
contemporaneamente né una cantante
né un’attrice né una musicista. Anche
questo è un lavoro.
Ma questo è esattamente il contrario
di quello che è stato detto da Andrea
Scanzi giovedì 21 sulla stampa. Non è vero
che la più grande dote di Paris Hilton
sia quella di non avere doti. Perché da
tre anni Paris Hilton viene fotografata,
viene filmata, viene chiacchierata, sognata,
odiata, discussa, pagata, invocata,
per essere semplicemente Paris Hilton.
Il che non significa essere un non talento,
non significa essere un sogno quasi
proibito e soprattutto, come invece scritto
da Scanzi, non significa che Paris Hilton
porta con sé il messaggio del “se c’è
l’ha fatta lei ce la possono far tutti”. Il
mito di Paris Hilton serve soltanto a chi
già un po’ famoso lo è. E’ soltanto grazie
a Paris Hilton che Britney Spears può
dire, non è vero che sono come Paris. Ed
è per questo che Paris Hilton viene fatta
conoscere. Paris viene fatta conoscere
per dare la possibilità, agli altri, di riconoscere
cosa è trash e cosa non lo è.
Cosa è femminile e cosa è volgare. Cosa
è trasgressivo e cosa invece è un po’ da
troietta. Paris Hilton è la rappresentazione
perfetta dello stereotipo femminile,
così come – per capire –- Costantino
Vitagliano è il perfetto stereotipo del
trash del macho latino.
Ma l’esistenza di Paris Hilton è anche
l’unica ragione grazie alla quale scrittori
come Alessandro Baricco possono
scrivere parole di grande intensità letteraria
tipo: “Fanno delle cose, le donne,
alle volte, che c’è da rimanerci secchi.
Potresti passare una vita a provarci: ma
non saresti capace di avere quella leggerezza
che hanno loro, alle volte. Sono
leggere dentro. Dentro”, senza che nessuno
gli dica che le straordinarie parole
usate in “Oceano Mare”, possono esistere
perché esiste solo una donna che apparentemente
non è così, cioè Paris Hilton.
Se non ci fosse Paris Hilton, come
farebbe Ségolène Royal a non offendersi
rileggendo quello che diceva Oscar
Wilde, e cioé che “le donne non hanno
niente da dire, ma lo dicono benissimo”.
L’errore più clamoroso che si può fare
pensando a Paris Hilton è l’errore
che fa Natalia Aspesi su Repubblica,
quando prova a spiegare il significato
del boom di questo presunto “divismo
domestico”, dove tutto viene mostrato
per dimostrare di aver qualcosa da mostrare.
Ma Paris Hilton è un genio perché
non ha svenduto nulla della sua vera
vita privata (a meno che non si voglia
credere che per vita privata s’intendono
le foto, le limousine, le pubblicità, gli hotel).
Perché della vita privata di Paris
Hilton, in realtà, non si sa nulla. Si sanno
pochissime cose. Per esempio che ha
un occhio più piccolo dell’altro. Per
esempio che secondo lei non si esce mai
la notte degli Oscar, che non si esce mai
quando piove (a meno che non si ha un
ombrello di Gucci), che non si portano
mai i bagagli da soli, che non si fanno
mai le file per vedere i film, che non si
vede mai un film se non è una proiezione
privata, che non si indossa mai un vestito
con cui è stata fotografata un’altra,
che un’ereditiera non si comporta mai
da bisognosa, che se un’ereditiera si
sente insicura deve fare un po’ di shopping;
che se un’ereditiera non si sente
ancora sicura va a Parigi, che se un’ereditiera
non si sente ancora sicura allora
deve andare a Saint Tropez. Paris Hilton
sa, molto più di Ségolène, che una
donna (soprattutto se è ereditiera e soprattutto
se è sempre una costante e
stretta osservazione) deve essere sicura
di se stessa e deve essere così sicura di
se stessa da ridere anche un po’ di sé.
Deve essere in grado di capire che se
sei la prima che ride di se stessa nessuno
sentirà il bisogno di farlo alle tue
spalle. Perché se ridi tu per prima non
solo hai tolto agli altri ogni potere ma
sei riuscita anche a far sorridere tutti,
come scrive la stessa Paris Hilton nel
proprio libro all’interno del quale uno
dei maggiori scoop editoriali è senz’altro
il diario segreto in cui la cagnetta
Tinkerbell racconta se stessa.
Di Paris Hilton si sa poco, però si sa
che nel 2005 (solo per aver fatto qualche
comparsata in qualche festicciola), ha
incassato sei milioni di dollari. Sei. Solo
per entrare in un locale, alzare la manina,
mostrare la borsetta, sorridere, ricordare
che il proprio cagnolino è un
chihuahua, ricordare che il proprio cagnolino
si chiama Tinkerbell, ricordare
che i fidanzati non devono piacere a lei
ma solo al cagnolino, ricordare che il cagnolino
una volta è stato rapito e ricordare
– sorridendo – che per ogni cazzatella
che fa viene pagata circa 200 mila
dollari. Sembra facile, ma non lo è. Provate
a immaginare, soltanto a immaginare
di far credere a tutto il mondo di essere
belle pur non essendo neanche più
belle di Ségolène. A far finta di essere le
più fiche pur avendo sempre lo stesso
sorriso. Provate voi a a dire a tutti di
avere un lato del viso molto più bello
dell’altro e riuscire a farvi fotografare
sempre dal lato sbagliato.
Ma nonostante tutto questo Paris
Hilton incuriosisce, piace, è famosa, è
ricca e il suo libro – per ora – è introvabile.
Nonostante tutto questo, Paris Hilton
è fondamentale per tutte quelle
persone che hanno bisogno di una come
Paris Hilton per poter dire: “Ehi,
non sono mica come Paris Hilton”. Perché
Paris Hilton è forse una delle pochissime
donne al mondo a cui può essere
addossato qualsiasi tipo di insulto
e qualsiasi tipo di perfido stereotipo
senza che nessuno si alzi in piedi per
invocare la misoginia. Ed è anche per
questo che dire che Paris Hilton è
senz’arte né parte (come scritto dal Corriere
il 28 settembre) è falso, falso, falso.
Perché Paris ha un’arte, ha una parte
e ha pure un mare di soldi, oltre che
un mare di fidanzati, oltre che un mare
di successo. Perché se Paris Hilton fosse
senza arte né parte, Roberto Cavalli
non avrebbe certo chiamato in passerella
la sua sorellina Nicky. Perché, se
Paris Hilton fosse senza arte né parte,
il suo chihuahua non andrebbe in giro
con i cappottini firmati Chanel.

Claudio Cerasa

giovedì 21 dicembre 2006

Il Foglio, 21 dicembre: L’INDULTO FUNZIONA,ECCO PERCHÉ I numeri (e non solo) dicono che chi è uscito non si è rimesso a delinquere

Nicola ha passato ventinove anni in carcere. Era il 1977, Nicola aveva diciotto anni, finisce coinvolto in un omicidio, va in galera, ha un permesso, poi scappa, comincia a fare delle rapine, rientra ancora e sconta la sua pena. Nicola, ora, ha quasi quarantanove anni e da due anni si trova in regime di semilibertà. Cinque mesi fa, poi, arriva l’indulto, che per chi se lo fosse dimenticato ha escluso tutti coloro che sono stati detenuti per terrorismo, mafia, rapina aggravata e abusi sessuali. Nicola doveva uscire nel 2011, ora uscirà definitivamente nel 2008. Fino a quella data, Nicola convivrà con la sua condizione in semiregime di liberta. La mattina alle 9.30 al lavoro, si stacca la sera, il tempo di vedere la sua compagna (l’unica tra i due a poter usare un telefonino, Nicola non può ancora averlo), poi alle 21.45, si torna in cella. Nei ventinove anni passati nel carcere di Padova, Nicola ha imparato a usare il computer, ha fatto alcuni corsi di informatica, ha finito le scuole medie, ha preso un diploma da geometra e – poco prima dell’indulto – frequentava il primo anno del corso di laurea in Scienze politiche. Il 2 agosto, due giorni dopo l’indulto, Nicola si trovava in Sardegna e i primi due ex detenuti diventati subito nuovi detenuti per aver alzato il gomito in un pub e per aver aggredito verbalmente alcune forze dell’ordine, lui li aveva conosciuti. Già dal giorno dopo, leggendo i giornali, Nicola aveva capito che si sarebbe scatenata la caccia mediatica all’ex detenuto.
Subito dopo l’indulto, Nicola, così come la maggior parte degli ex detenuti, non si è messo a rubare, non si è messo a rapinare, non si è messo a uccidere non si è messo a fare quello per cui era già finito in carcere. Nicola, dopo l’indulto, ha trovato un posto fisso. Ora guadagna circa ottocento euro al mese, lavora allo sportello Sos Indulto di Padova, fa l’avvocato di strada ed è uno dei fondatori dell’associazione “Ristretti orizzonti” (una rivista realizzata dai detenuti della Casa di reclusione di Padova).
La storia di Nicola è una delle tante storie positive nate grazie all’indulto. Una di quelle storie che, però, sui giornali non compaiono quasi mai, perché dopo l’indulto la cosa importante era dimostrare a tutti i costi il lato negativo di quell’atto di clemenza, cioè chi esce e poi subito rientra. Perché, in realtà, nelle settimane successive all’indulto, il ragionamento il più delle volte è stato questo: più ex detenuti in giro significano più criminalità, più criminali, più pericolo, meno sicurezza. Perché nell’immaginario comune, condiviso anche da qualche esponente dell’attuale maggioranza di governo, gli ex detenuti non sono soltanto ex detenuti, sono soprattutto nuovi potenziali detenuti.
Ma le cose non stanno così. Di storie come quelle di Nicola se ne trovano tante, di storie come quelle del presunto killer tunisino di Erba che avrebbe sterminato una famiglia (e che poi invece non c’entrava nulla con gli omicidi), sono pochissime. Certo, esistono e sarebbe stupido ignorarle, ma sono poche. Perché non è vero che l’indulto porta a aumento diffuso della criminalità, anche se – ovviamente – la possibilità di recidiva esiste. Ma leggendo bene i dati si scoprono alcuni aspetti molto interessanti. Una certa percentuale di recidiva (circa del nove per cento) si ha sempre quando un detenuto esce di prigione. Sempre. Esiste solo un modo per evitare una recidiva ed è quello di aumentare le carceri, metterci dentro più gente possibile e buttare via le chiavi delle celle.

Carceri più piene ma meno delitti
Gli indultati con una pena inferiore a un anno erano più della metà di quelli usciti lo scorso agosto: 11.370. Ma non solo. Uno dei dati più interessanti è senz’atro questo: dopo gli ultimi provvedimenti di clemenza (cioè indulto e amnistia a cavallo del 1990), i detenuti usciti furono 12.237 su un totale di circa 31.000 detenuti presenti nelle carceri. Ora, è vero che dal 1990 a oggi le carceri si sono riempite sempre di più. Ma non è vero che si sono riempite per nuovi delitti. Non si sono riempite perché gli ex detenuti sono tornati a fare i delinquenti. Si sono riempite soprattutto perché sono arrivate leggi più severe (come la Russo Iervolino sugli stupefacenti o come il 41bis) e perché chi è finito in cella in questo arco di tempo, è rimasto per più tempo in carcere. Non a caso, dopo gli ultimi provvedimenti di clemenza, il numero totale dei condannati dai tribunali è continuato a scendere sempre di più. Era di 292.980 nel 1998 e di 235.239 tre anni dopo. Lo stesso vale per il numero delle rapine che, nello stesso arco di tempo, è continuato a scendere: da 49.207 a 45.665. La situazione non è cambiata neanche dopo l’indulto di agosto. In pochi lo sanno, perché è più semplice parlare di un ex detenuto che torna a essere detenuto piuttosto che di un ex detenuto che non torna in carcere. Perché è più semplice dire che ad Erba c’era un tunisino indultato che ha fatto uno strage, piuttosto che provare a pensare che forse non era così. Da agosto a ottobre i reati – complessivamente – sono calati di circa 5.200 unità rispetto al 2005. Sono calati anche i reati a sfondo sessuale. Oltre a questo c’è un però, c’è un altro dato di estrema importanza. Perché subito dopo l’indulto, dopo cinque mesi, la percentuale di recidiva è intorno al sette per cento, media inferiore rispetto al nove per cento preventivato nei palazzi del ministero della Giustizia prima di agosto. Il nove per cento è, tra l’altro, la media standard delle recidive postcarcere. Anche se questo non viene raccontato spesso, nella percentuale di recidive successive all’indulto di luglio, sono moltissimi gli stranieri (778 su un totale di 2.070, fino al 5 dicembre) rientrati in carcere per un reato amministrativo. La maggior parte di questi sono rientrati perché non in regola con la Bossi-Fini, non per aver commesso altri reati.
Un dato che potrebbe tornare utile anche al ministro Antonio Di Pietro, molto contrario all’indulto. Ma quando Antonio Di Pietro per spiegare perché l’indulto sia un fallimento prende come esempio il sovraffollamento tuttora presente nel carcere di Regina Coeli a Roma (dichiarazione del 2 novembre), il ministro Di Pietro cade in una doppia trappola. Se il ministro crede che le carceri siano ancora sovraffollate, forse senza volerlo, fa capire che un indulto non basta per risolvere il problema del sovraffollamento. Ma soprattutto, in questo caso, il ministro Di Pietro non ricorda neppure che il carcere di Regina Coeli, essendo un carcere di primo accesso, è inevitabilmente sempre più pieno delle altre carceri.
Prendiamo il caso di Erika De Nardo di Novi Ligure. Erika era stata condannata a 27 anni. Dopo gli appelli, i ricorsi e le istanze, la pena le è stata ridotta a 17 anni. Con l’indulto le sono stati tolti altri tre anni. Ma secondo l’immaginario comune, i tre anni dell’indulto sono uno scandalo, gli altri dieci anni di riduzione della pena sono sempre uno scandalo, ma un po’ meno. Il ragionamento è molto pericoloso, perché seguendo questa idea sarebbero da condannare anche i permessi premio, le condizionali, le prescrizioni, i difetti procedurali o le assoluzioni in terzo grado. Cioè, tutti i casi in cui un potenziale detenuto non si trova in cella.
Ma il vero problema è probabilmente un altro. Se il numero di detenuti usciti con l’indulto è così alto è semplicemente perché da sedici anni le celle non hanno mai smesso di riempirsi di carcerati. Spostare ancora più avanti la data dell’indulto avrebbe voluto dire peggiorare la situazione, aumentare il numero di detenuti presenti in carcere e aumentare di conseguenza il numero di detenuti beneficiari dell’indulto, dando la possibilità a chi non sa leggere i dati di dire: “Ma perché tutti questi ex detenuti in giro?”.

Perché non ci sarà l’amnistia
Ed è proprio per una questione statistica che, per la prima volta nella storia della Repubblica, un indulto non verrà seguito da un’amnistia. Il discorso è semplice. Rispetto al penultimo provvedimento di clemenza, apparentemente i detenuti beneficiari dell’indulto di luglio sono quasi il doppio. Il numero degli scarcerati con pena definitiva, dopo agosto, è stato di 17.499 più 7.178 che si trovano attualmente in attesa. Tra questi ultimi c’è anche Nicola. Ma c’è anche Gennaro, quarant’anni, di Civitavecchia, che racconta al Foglio come sia stato assunto a capo del settore risorse umane di un’azienda della sua città e che da capo delle risorse umane abbia avuto il via libera dalla stessa azienda per assumere altri venti ex detenuti che erano da poco usciti dalle celle.
Rispetto al 1990, ciò che è cambiato è l’universo di riferimento. Nel 1990, in carcere, come detto, si trovavano 31.000 detenuti, mentre ad agosto 2006 i detenuti erano il quasi doppio, 60.710. Ed è per questo che il numero degli indultati di luglio è stato maggiore rispetto ai 12.237 del 1990. E’ per questo che la percezione comune porta a pensare “basta, va bene così”.
Ma se nell’indulto vanno cercati i problemi, i problemi non sono quelli legati alle recidiva, che – ripetiamolo – è un elemento comune a ogni provvedimento che dia la possibilità a un detenuto di uscire dalle carceri.
Semmai, il problema vero del post indulto è stata la gestione del passaggio dallo stato di detenzione a quello di libertà. Il governo ha stanziato diciassette milioni di euro per il reinserimento. Undici milioni sono arrivati dal ministero del Lavoro, tre milioni dal ministero della Salute e tre dalla cassa Ammende. A questi vanno poi aggiunti i finanziamenti arrivati dagli enti locali. Questi soldi, però, da soli non bastano. La stragrande maggioranza degli indultati, una volta uscita, si è trovata senza nulla, senza casa, senza soldi, senza famiglia, senza conoscenti e soprattutto senza lavoro, con il risultato paradossale che molti detenuti, uscendo di prigione, hanno perso il lavoro che avevano prima. Cosa è successo. In Italia esiste una legge che si chiama Smuraglia. Molto sinteticamente, la legge dice che alcune aziende e alcune cooperative hanno la possibilità di usufruire di una particolare ritenuta di imposta nel caso in cui facciano lavorare un certo numero di persone che rientrano nella denominazione di quelle “considerate in difficoltà”. Un detenuto è una persona considerata in difficoltà. Un ex detenuto, invece, lo è soltanto per i sei mesi successivi all’uscita dalle carceri. Sei mesi sono molto pochi. Ed è per questo molte cooperative hanno deciso di non lavorare più con delle persone che sei mesi dopo avrebbero dovuto mandare comunque via.
Tutto questo, però, non sarebbe mai accaduto se il governo avesse provato a mettere in pratica – come ammettono allo stesso ministero – l’articolo numero 88 del decreto 230 del 2000, “Trattamento del dimittendo”, che rientra nel regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario promulgato sei anni fa. Quest’articolo non è stato preso in considerazione, se fosse stato riapplicato avrebbe permesso certamente una migliore assistenza nell’uscita dei detenuti.
Ma c’è qualcuno che – almeno in parte – è riuscito a risolvere la situazione. Nicola è uno di questi. Il comune di Padova insieme allo sportello già citato di Sos Indulto, ha fatto sua una postilla di un regolamento comunitario (il numero 2204 del 2002) grazie al quale viene ampliata la definizione di quei “soggetti svantaggiati” inseribili nelle cooperative sociali di tipo B. Tra questi sono stati inseriti anche gli ex detenuti, ma per un periodo non superiore ai sei mesi. In questo modo a Padova in molti sono tornati a lavorare. O almeno c’è chi spera di poterlo fare al più presto. Tra questi c’è Nabil.

Il piano per la sanità carceraria
Nabil è tunisino, abita a Padova, è finito dentro per spaccio, ha trentanove anni e gli ultimi nove anni e mezzo li ha passati in carcere. Ora, anche lui, è in regime di semilibertà, ma al contrario di Nicola e al contrario di Gennaro, non ha trovato nessun lavoro. Uscito dal carcere, Nabil, non ha trovato nessuno. Ha trovato i suoi vecchi amici. Gli hanno proposto un colpo, lui ha detto di no. Non li ha più visti, ha dormito alcune notti per strada, poi ha trovato un lavoro. Al momento, però, solo in nero.
Ora un altro elemento di riflessione è ovviamente ciò che il governo riuscirà a fare dopo l’indulto. Che, come già detto e come più volte è stato ripetuto, da solo non basta. Perché all’interno delle carceri attualmente solo il dieci per cento dei detenuti svolge un lavoro, perché – prima di luglio – solo duemila detenuti avevano seguito un corso professionale e solo quattro di questi erano iscritti al cosiddetto “sportello per l’orientamento al lavoro”. Il primo provvedimento del ministero di Giustizia è stato quello di aumentare di 1.400 gli attuali posti letto nelle carceri. Perché aumentare i posti letto è importante, ma non per buttare dentro più detenuti possibili, ma solo per migliorare – ancora – la distribuzione della popolazione carceraria. Ma oltre ai 1.400 posti in più, un gruppo di lavoro istituito dal sottosegretario alla Giustizia, Luigi Manconi, ha realizzato un documento in cui vengono indicate le linee guida di una possibile riforma da realizzare nei prossimi anni. Le riforme dovrebbero essere articolate in questo modo. Verrà creata una conferenza nazionale sull’esecuzione penale, cioè una struttura periodica che darà la possibilità di confrontarsi sulla programmazione del lavoro da fare nelle carceri. Verrà diversificato il trattamento tra adulti e giovani adulti, in maniera tale che per chi non ha ancora compiuto venticinque anni sarà previsto un reinserimento diverso dalla normale detenzione. Verranno aumentati gli istituti penitenziari femminili. Verranno potenziate le forme di custodia attenuata e questo in particolare andrà a incidere le sezioni di lavoro riservate ai detenuti semiliberi. Verranno aumentate le case destinate a quelle madri che non possono godere delle misure alternative alla detenzione per l’assistenza ai figli minori e sarà creato una sorta di tavolo dei volenterosi, cioè una commissione di esperti bipartisan che lavorerà a un piano triennale di adeguamento delle carceri e verrà modificata la legge Smuraglia, grazie alla quale gli incentivi fiscali e previdenziali per i detenuti verranno prolungati per i ventiquattro mesi successivi alla scarcerazione. Oltre a questo il ministero della Giustizia insieme a quello della Salute, potrebbe mettere a punto un censimento delle strutture ospedaliere presenti nelle carceri italiane e, attraverso l’attuazione della “riforma Bindi”, passare le competenze di assistenza sanitaria nelle carceri completamente allo stesso ministero della Salute.
Claudio Cerasa

sabato 16 dicembre 2006

Il Foglio, 16 dicembre. "La Signora in giallorosso e Ruggeri, ovvero come non essere di parte pur essendo faziosi"

Iprincipali rischi nel fare giornalismo in una televisione
privata sono tre. Primo: sentirsi intelligenti come
Darwin Pastorin e cominciare a citare libri, poeti,
romanzi, film per fare una trasmissione intelligente e
colta pur non essendo né intelligenti né colti. Secondo:
sentirsi come Aldo Biscardi e non avere né i capelli
giusti per farlo né gli ospiti giusti per rendere incomprensibile
qualsiasi dialogo superiore ai ventidue
secondi. Terzo: avere una valletta che prova continuamente
a dimostrarti che lei no, non è solo una valletta
e guardami e guardami e guardami ancora, non vedi,
stupido, che non sono solo una valletta e che invece
sono già pronta per un “Distretto di polizia”?
La differenza tra un conduttore come Massimo Ruggeri
e un altro che su una rete schierata e con una trasmissione
schierata alla fine del programma alza il
braccino e fa “Aléé” è che Massimo Ruggeri (56 anni,
giornalista, conduttore da dieci anni della trasmissione
sportiva “La signora in giallorosso”) per distinguersi
dagli altri non ha bisogno di inventarsi tratti distintivi
per farsi riconoscere. Non ha bisogno di tingersi i
capelli di biondo per far parlare un po’ di sé. Non ha
bisogno di interrompere i suoi ospiti per far capire
che qui, comunque, sono io che comando.
Provate voi a fare un programma sportivo di successo
dove non c’è nessuna bomba di mercato, dove
non ci sono nani e ballerine, dove gli opinionisti non
si mettono a fare i cabarettisti, dove i comici non si
mettono a fare i commentatori e dove le vallette non
si mettono a fare le movioliste. Provate voi a fare un
programma semplice semplice e riuscire a non essere
faziosi pur essendolo per definizione. Provate a
immaginare un programma che si chiama “La signora
in giallorosso” con i conduttori che si sa da che
parte stanno, dove tutte le immagini si sa da chi sono
manipolate, dove tutte le parole si sa perché sono
manipolate, dove tutti i giornalisti, ospiti, conduttori,
vallette, registi e produttori sono dichiaratamente romanisti,
dove fai una trasmissione che parla di Roma
e quando si nomina la Lazio scatta il bip, o si abbassano
le luci, o si mettono le dita nelle orecchie, o si
fanno smorfie, o ci si tocca le palle. Provate voi ad
avere successo con un programma in seconda serata
su una rete locale romana (T9) senza aver bisogno di
mandare in onda nessun film porno (ci sono anche
qui, cominciano poco più tardi ma non sono molto
belli, dicono). Provate a immaginare una trasmissione
così faziosa, così schierata, così di parte perché dichiaratamente
di parte, che riesca però a non dire
banalità, che riesca a farsi capire senza urlare e, che
riesca a non cercare l’ospite che faccia un po’ di audience,
soltanto perché mio dio che risate dice “cacca”
o “pipì”. Provate voi a trovare una trasmissione
che pur essendo il massimo della faziosità dichiarata
riesca a non essere faziosa. O a essere obiettivi dopo
una partita in cui hanno giocato due squadre che
si chiamano Roma e Lazio (partita finita 0-3), riuscendo
non solo a non essere banali e scontati ma soprattutto
riuscendo a non nominare praticamente mai la
parola “Lazio”. Perché alla “Signora in giallorosso”
non si parla mai di Lazio. Nel senso: la Lazio certamente
esiste, la Lazio certamente a volte gioca, la Lazio
incidentalmente a volte gioca anche contro la Roma,
la Lazio fortuitamente a volte vince pure contro
la Roma e la Lazio involontariamente a volte gioca
anche meglio della Roma. Ma qui di Lazio non si parla
e se dopo un derby finito tre a zero per “Quelli lì”,
la Roma non ha fatto nemmeno un gol, il derby è come
se fosse finito 0-0 e quindi non ci sono immagini
da far vedere. Punto.
L’unica volta che Massimo Ruggeri è stato oscurato
– ma solo un po’ – è stato quando all’improvviso in trasmissione
di fronte a lui, di fronte a Francesca Ferrazza
(Repubblica), di fronte ad Alessandro Catapano
(Gazzetta dello Sport), si presentò Walter Veltroni che
in un solo colpo riuscì a convincere tutti dimostrando
empiricamente di essere della Roma senza nulla voler
togliere alla sua simpatia per la Lazio, non escludendo
il suo amore per la Juve, senza voler venir meno
alla sua passione per il basket che però non è certo
meno importante della pallavolo. Il tutto in poco più
di mezz’ora. Per il resto Massimo Ruggeri piace e piace
tanto perché non interrompe mai gli ospiti, perché
fa le battute ma non fa il battutista, parla ma non dà
sentenze, fa il tifoso ma senza essere fazioso e soprattutto
fa una trasmissione in una rete privata che non
prova continuamente a dimostrare di non essere una
trasmissione da tv privata.
Ad Alberto D’Aguanno piaceva tantissimo.
Claudio Cerasa

sabato 9 dicembre 2006

Foglio, Giovedì 16 novembre, Gli inglesi multiculti accantonano il Natale, meglio la “festa d’inverno”

Perché dire “buon Natale” quando, più
semplicemente, basta dire “buone feste”?
O “Christmas holidays” quando, senza
problemi, si può dire soltanto “holidays”?
Perché organizzare un “Christmas party”
quando, più banalmente, una festa natalizia
la si può anche chiamare “Winter party”?
Succede che, in Inghilterra, dire Natale,
festeggiare il Natale, organizzare il Natale o
parlare di Natale, inizia a diventare un po’
pericoloso. Perché il Natale significa natività,
significa religione, significa cristianesimo.
E quindi che senso ha provocare chi il
Natale non solo non lo vuole festeggiare ma
non lo vuole nemmeno nominare? Meglio
stare attenti. Meglio non dar fastidio a nessuno.
Perché tutti vanno rispettati. Con la sensibilità
delle religioni non si scherza, ovvio.
Ma con la sensibilità, in Inghilterra, non si
vuole scherzare soprattutto in un caso: quando
le persone da rispettare sono quelle che
non sempre rispettano le altre.
Siamo in Cornovaglia, è il 27 ottobre, la
città si chiama Caradon. Ogni anno funziona
così: c’è una banda, un gruppo musicale un
po’ sfigato che prende, si organizza, gira l’Inghilterra
e organizza sei, sette tappe fisse. Il
periodo è sempre lo stesso: quello natalizio.
Il pubblico è quello che è, le canzoni non
sempre piacciono. Il gruppo non va granché,
ma si è dato un senso: raccoglie i soldi, parte
li incassa, parte li dà in beneficenza. Anche
quest’anno, stessa storia: sette tappe, si parte
a dicembre in scaletta qualche canzone
nuova, qualcuna vecchia. Tra queste, in mezzo,
si suona “Jingle Bells”, “White Christmas”.
Ma quest’anno c’è un problema. Il Natale
ha nuove regole. Per suonare le canzoni
natalizie, il Caradon District Council ha fissato
una tassa: 21 sterline per ogni canzone.
Ma il problema è un altro. Il District Council
ha applicato il “licensing act” del 2003, cioè
una norma non locale, ma nazionale. Volendo,
ricorda lo stesso Council, chiunque in Inghilterra
potrebbe essere costretto a pagare
una tassa per suonare “Jingle Bells”.
La scorsa settimana la Royal Mail inglese
ha deciso che tra i francobolli stampati nel
corso delle settimane delle vacanze natalizie
non comparirà più nessun “Christmas theme”,
nessuna immagine natalizia. “E’ un caso”,
dicono dalla Royal Mail” .
Qualche chilometro a nord ovest di Caradon
c’è una città che si chiama Scarborough.
La città è famosa per essere uno dei luoghi
più belli da visitare durante il Natale. Per
due motivi: per i giochi di luce e per le decorazioni
natalizie. Ogni anno arrivano migliaia
di persone. Ora, però, non si può più.
Le luci sono troppo pericolose, ci sono troppi
turisti, sono troppo natalizie. Meglio spegnerle,
almeno per ora.
I primi sintomi da intolleranza natalizia
sono cominciati cinque anni fa. L’anno è il
2001, siamo a Luton pochi chilometri a sud di
Londra. La comunità musulmana aveva chiesto
di sostituire le “Christmas lights” (luci natalizie),
con un altro termine: “luminos”, semplicemente
luci. Così, cosa vuoi che cambi?
A Birmingham le feste natalizie, ora, si
chiamano Winterval, a Londra (lo riporta il
Guardian) il canale satellitare Sky ha ricevuto
alcune lettere di protesta riguardo alla
sua tradizionale festa natalizia. Quest’anno
il Christmas Party di Sky non si chiamerà
più Christmas Party, si chiamerà “Winter
Party”, “festa d’inverno” e per precauzione
James Murdoch (figlio di Rupert e Ceo della
British Sky Broadcasting) non si travestirà
più da Santa Claus.
Ma c’è chi ha iniziato a protestare. Pochi
giorni fa, il Christian Muslim Forum (coordinato
dall’arcivescovo di Canterbury e costituito
a metà da cristiani e a metà da musulmani),
ha chiesto di lasciare in pace il Natale.
La buona notizia è che qualcuno, ora, si
sia svegliato. La cattiva notizia, però, è che
per suonare “Jingle Bells”, per cantare
“White Christmas” e per chiamare “Natale”
il Natale, qualcuno, ora, è costretto ad alzarsi
in piedi per chiedere il permesso.
Claudio Cerasa

Oggi, Foglio, pagina 2: "A Singapore non si fanno figli e il governo si affida al porno del dr. Love"

Go ahead, try again”. Su, forza, provateci
ancora un po’, dice Yu, il dottore dei miracoli
chiamato a risollevare lo spirito ormonale
dello stato di Singapore anche con l’aiuto
di un po’ di pornografia. La storia è questa.
Dopo una lunga ricerca finalizzata all’identificazione
delle principali cause del misterioso
malessere che negli ultimi anni ha colpito
– con un certo impeto – la gloriosa nazione
di Singapore, un’autorevole commissione ha
spiegato qual'è il problema che ha portato
Singapore a una crisi interna così preoccupante.
A Singapore, spiegano gli esperti, non
si tromba più.
Nel 2002 il tasso di fertilità dello stato
asiatico aveva toccato il suo minimo storico
con una percentuale pari all’1,4 per cento,
molto inferiore – notano gli esperti – rispetto
al 2,1 per cento necessario per invertire
quel trend negativo. Hanno provato con gli
assegni per il primo bambino, per il secondo
bambino, per il terzo, per il quarto, ma
nulla. Hanno provato con le campagne di
pubblicità progresso sul sesso, ma niente. A
Singapore non si batte chiodo. E se lo si batte,
spiegano gli esperti, quanto meno non lo
si batte bene. L’ultima soluzione era quella
di chiamare il dr. Wei Siang Yu, conosciuto
negli ambienti mondani e ospedalieri di
Singapore e dintorni, come il dr. Love, denominazione
derivata dalle sue capacità innate
– spiega chi lo conosce – di essere in grado
di stimolare una miglioria della condizione
sessuale dei suoi pazienti. Con Yu si copula
di più, documentano gli esperti. Per assicurarsi
i servigi del prestigioso dottore (auto
proclamatosi “Guru del sesso”) cresciuto
in Australia e arrivato a Singapore dopo una
lunga esperienza conseguita attraverso l’organizzazione
di Resort erotici, vascelli del
piacere e programmi personalizzati per la
pianificazione dell’attività riproduttiva (uno
dei suoi migliori colpi è certamente stato
quello di inventare una sorta di cercapersone
in grado di squillare nell’ora e nel giorno
di maggior fertilità) il governo ha messo a disposizione
un budget di 185 milioni di dollari
per la progettazione di un’abile strategia
volta all’accrescimento delle prestazioni sessuali
della gloriosa nazione di Singapore. Il
programma del professor Yu, oltre al dispositivo
acustico fertilizzante, comprende
un’ampissima gamma di idee e di iniziative
utili a stimolare quella che lo stesso dottore
ha definito “una grave carenza di stimoli
sessuali” della nazione di Singapore. Il dr.
Love è molto attivo. In pochi mesi ha creato
un format televisivo (“Romancing Singapore”)
in grado di rendere celebri le coppie
più prolifiche, ha scritto alcuni libri e ha inventato
una playroom sulla cui descrizione
le cronache locali tendono però a non essere
troppo precise. Yu ha poi ideato dei pacchetti,
molto pratici, comprensivi di tutti gli
oggetti utili per una più idonea stimolazione
sessuale. I cittadini di Singapore hanno
poi avuto modo di apprezzare – con i propri
occhi – i frutti delle idee partorite dal dr.
Love. A Singapore, in poco tempo, sono arrivati
i topless bar, è stata organizzata un’esposizione
nazionale del sesso e, inoltre,
film come “Black Dahlia” vengono ora promossi
nelle sale con una particolare attenzione
a sottolineare la presenza delle “scene
più calde mai viste prima”. Ma l’ultima
trovata del dr. Love, che da due anni ormai
lavora a Singapore con un certo insuccesso,
è stata quella di creare un giornale, da molti
considerato pornografico, contenente illustrazioni
piuttosto dettagliate sulle grazie
maschili e femminili. Il giornale si chiama
“Love Airways”, costa circa 7 dollari, vende
8.000 copie e dovendo invogliare le coppie
di Singapore a congiungersi con un po’ più
di giudizio, non parla né di Nasdaq né di
Dow Jones e qualche tetta e qualche natica
sembra proprio che se le sia lasciate scappare.
Uno scandalo, se si pensa che a Singapore
la rivista Playboy è ancora proibita e
se si pensa che proprio due giorni fa è stato
messo sotto processo nella vicina Indonesia,
l’editore dell’edizione locale di Playboy,
Erwin Arnada. I singaporesi, effettivamente,
pur prolificando sempre con una certa timidezza,
sembra che abbiano iniziato ad apprezzare
il nuovo trend, tanto da essersi appassionati
al programma americano “Cheaters”,
dopo aver visto un episodio in cui veniva
illustrata la storia di una moglie bisex
che se la faceva con altre tre donne. La rete
che ha trasmesso il programma è stata poi
multata in maniera severa.
Ma il dr. Love non è amato da tutti. Pur
avendo contribuito a mettere in moto un po’
di testosterone, c’è anche chi osa mettere in
discussione l’efficacia di queste rivoluzionarie
tecniche di stimolazione riproduttiva, facendo
notare che mr. Love non è sposato, è
brutto e se è per questo, pur avendo una certa
età, non sembra che le sue teorie abbiano
avuto granché successo nella sua personalissima
vita sessuale dato che il dr. Love vive
ancora a casa con la mamma.
Claudio Cerasa

Foglio, sabato 9 dicembre. "Stare a bordo campo non è facile nemmeno per i giornalisti. Maestri è perfetta"

Uno dei più grandi rischi nel giornalismo sportivo
televisivo (specie tra i bordocampisti) è quello
di essere contagiati da quella che nell’ambiente
può essere classificata come “sindrome Varriale”.
La sindrome Varriale prende il nome dal pur bravo
giornalista Rai, Enrico Varriale solito – nel corso
delle sue brillanti interviste postpartita – sventolare
con movimenti impercettibili il microfono sotto la
bocca dell’intervistato, come se fosse un cartellino
giallo. Varriale crea, quindi, un effetto grazie al quale
le parole del giornalista, comunque bravo, si capiscono
alla perfezione, mentre di quello che dice l’intervistato
non si capisce assolutamente nulla.
Una delle poche giornaliste non affette dalla sindrome
Varriale si chiama Martina Maestri. Martina
Maestri ha trentatré anni, lavora per Sky, ha scritto
un libro (su sport, Niger, Mali e Sarajevo), è figlia
d’arte, scriveva di sci, ora parla di calcio, ha i capelli
corti, sorride poco. Si diverte ma non disturba mai,
interviene ma non interrompe mai. Martina Maestri
è una delle migliori giornaliste sportive italiane perché
riesce a essere sportiva e riesce a essere donna
senza essere costretta a far notare – tra una domanda
e l’altra – di essere effettivamente una donna e di
essere effettivamente una bella giornalista. Martina
Maestri non è una di quelle giornaliste sportive che
parla di sport ma poi sa che deve sorridere, sorridere
tanto, perché sennò lo share non aumenta. Non è
una di quelle giornaliste sportive che vuole dimostrare
di non essere solo sportiva, di non essere solo
bella, di non essere solo bordocampista. Per capire,
Martina Maestri non è una di quelle giornaliste sportive
che per dimostrare di non essere solo una giornalista
sportiva, parte e va a intervistare Gheddafi,
sotto la sua tenda, in Libia. Martina Maestri, assieme
a Fabio Caressa, Giuseppe Bergomi e Stefano De
Grandis, fa parte del miglior quartetto italiano delle
telecronache sportive, ma non è una di quelle bordocampiste
che saltella impaziente per dire “ehi, ci
sono anche io, ci sono anche io, ci sono anche io, datemi
la linea datemi la linea, fatemi parlare”, come
invece fanno quasi tutti gli altri suoi colleghi, soprattutto
in Rai.
Perché, comunque, il bordocampista è uno dei
ruoli più difficili nel giornalismo sportivo. Perché
non è semplice stare accanto a una panchina e non
sentirsi allenatore, stare in campo e non sentirti calciatore,
stare in tv e non sentirti – anche tu – un po’
telecronista. Non è semplice stare così vicini al
quarto uomo e non sentirsi più preparati dello stesso
quarto uomo nell’identificazione dei minuti di recupero
da assegnare a fine gara (“scusa Marco, secondo
me i minuti erano sei e non cinque”). E, ovviamente,
non è neppure semplice mantenere una certa
lucidità dopo aver interagito con i giocatori discutendo
della partita appena conclusa che è normale
sia stata dura perché il mister ha ragione che ci sono
stati due gol in fuorigioco però l’arbitro ha condizionato
i gol ma noi non siamo qui a parlar male degli
arbitri.
La differenza tra Maestri e molte delle sue colleghe
sportive è che quando guardi Martina Maestri
prendere il microfono in diretta per intervistare Moratti
prima di un derby, Cannavaro dopo la finale dei
Mondiali, Carraro prima del decreto Pisanu, Moggi
prima di Moggiopoli, non pensi mai “però, com’è
brava questa ragazza”. Pensi, invece, “però, che bell’intervista”.
Perché, a differenza di molte altre sue
colleghe, Martina Maestri non è la cronista in quota
rosa che prima di capire di che cosa sta parlando sei
costretto a fare i conti con il regista che stringe sulle
sue labbra o sulla sua scollatura o sulle sue gambe
o sui suoi occhi. Martina Maestri è, invece, una di
quelle giornaliste che riesci ad ascoltare senza essere
obbligato a pensare che lei, comunque, potrebbe
intervistare in qualsiasi momento chiunque altro,
che lei capisce di calcio molto più di chiunque altro,
che lei s’intende dei minuti di recupero anche più
del quarto uomo, che lei di tattica ne sa più dell’allenatore
e che lei, comunque, se in quel momento
non sta intervistando Gheddafi è solo per puro caso.
Perché Martina Maestri è una delle pochissime giornaliste
sportive (televisive) che – pur essendo molto
bella – viene apprezzata perché parla meno di chi
sta intervistando. Perché Martina Maestri viene apprezzata
soprattutto perché è brava.
Claudio Cerasa