martedì 29 luglio 2008

Il Foglio. "I cocci del CaW". Verini, Ceccanti e Tonini spiegano perché le terme rosse di Ferrero danno ragione al Pd"

Roma. Per quanto Nichi Vendola fosse senz’altro il più veltroniano tra i candidati alla segreteria del Prc, il risultato del congresso di Rifondazione regala a Walter Veltroni non soltanto l’opportunità di rivendicare il concetto che meglio di ogni altro riassume il senso della propria leadership nel Partito democratico – la vocazione maggioritaria – ma per certi versi offre al leader del Pd anche la possibilità di rimettere insieme quel che resta del CaW. La scelta di Paolo Ferrero come segretario di Rifondazione (“Non saremo mai alleati con questo Pd”, ha detto a Chianciano) arriva a poche settimane dalla sostanziale rottura dei rapporti tra l’Italia dei Valori e il Pd e in un certo senso – bocciando il tentativo di allargare a sinistra le alleanze del Pd – costringe il partito a convivere con un’autosufficienza di fatto. Non è un mistero che nelle ultime settimane erano stati i dirigenti più vicini a Massimo D’Alema a intravedere nella candidatura di Vendola la via per “riaprire un dialogo tra la sinistra e i riformisti” ed è anche sotto questa luce che il senatore Stefano Ceccanti (Pd) la mette così: “Da Chianciano è arrivato un messaggio a tutti coloro che hanno tentato frettolosamente di coinvolgere il Pd in una sorta di ‘Unione due’: ‘Signori, lasciate perdere’”. Parlando con il Foglio, inoltre, Walter Verini, deputato del Pd e consigliere di Veltroni, dice invece qualcosa di più e spiega in che senso da ieri il Pd si sia un po’ irrobustito. “Il congresso di Rifondazione rafforza oggettivamente il Pd. Purtroppo da Chianciano esce una forza di sinistra con una vocazione minoritaria che non intende cimentarsi con la sfida del governo. Questo, da un lato conferma che l’essere andati ‘liberi’ alle elezioni è stata una scelta più che mai legittima. Dall’altro lato, però, carica il Pd di nuove responsabilità”. Tra queste c’è sia quella di “continuare a portare avanti un’idea di opposizione dura” sia quella di cominciare “a discutere con la maggioranza in Parlamento su tutto ciò che semplifichi la politica”. Parole simili a quelle usate ieri da W., al termine dell’intervento di Napolitano, e che confermano che forse basterà aspettare settembre per raccogliere i cocci del CaW. Dice al Foglio il senatore Giorgio Tonini (Pd): “Se il nuovo scenario aiuterà a ricompattare il partito, ci potrebbe essere la chance per il Pd non solo di essere sempre più protagonista dell’agenda politica, ma anche di discutere con più serenità con la maggioranza su alcuni temi cruciali per il nostro paese”.
29/07/08
Claudio Cerasa

lunedì 28 luglio 2008

Il Foglio. "Fototessere rai"

Il veltroniano, il berlusconiano, il dipietrista. Ogni cronista lottizzato fa la cronaca (e pure i nomi) della lottizzazione che verrà. Consiglieri, direttori e redattori. Tutti aspettano la rivoluzione di settembre

La Rai: perché è come uno specchio, perché è come il resto, perché è come il paese e perché a settembre sarà la prima volta per W. e la terza per il Cav. La Rai: perché ci sono i nomi, ci sono i luoghi, ci sono i segnali, ci sono i giorni e perché, finalmente, tra due mesi tutto si saprà. Le nomine, i consiglieri, i direttori e i nuovi dirigenti. La Rai: perché non c’è solo il caso Saccà, non c’è solo il caso Cappon, non c’è solo il caso cda, ma c’è qualcosa di più. La Rai: perché si può dire tutto ciò che si vuole, si può pensare tutto ciò che si crede ma perché, alla fine, vale sempre quello che Orson Welles scriveva qualche anno fa. La odio. La odio come le noccioline. Non riesco a smettere di mangiare noccioline. Era il 1956. Si parlava di tv, sembrava si parlasse di Rai.
Bisogna esserci in questi giorni in Rai. Bisogna entrare dal numero quattordici di Viale Mazzini, bisogna salire al secondo piano del palazzone con cavallo di bronzo e portone di vetro e bisogna parlare con i dirigenti, i consiglieri e i giornalisti per capire il senso di ciò che è accaduto negli ultimi mesi. Per capire cosa è successo, per capire cosa accadrà, per capire chi ci sarà e per capire cosa c’è dietro a tutte quelle parole, dietro tutti quei segnali e dietro a tutti quei titoli. La Rai alla paralisi. La Rai nella bufera. La Rai sotto accusa. La Rai spaccata. Ecco. Non è un periodo come gli altri, in Rai. Perché dopo sei anni, dopo le ultime nomine arrivate nell’autunno del 2002, c’è parecchio che non è cambiato e c’è qualcosa che adesso cambierà. Le direzioni di rete e quelle dei tg. La scelta dei consiglieri e la nomina dei presidenti. Un po’ a me e un po’ a te, e senza che ci sia nulla di male. Ma in questi giorni c’è qualcosa di più. C’è la prima volta del Cav. e W., che per assegnare i posti che gli spetteranno tra Viale Mazzini e Saxa Rubra – che si voglia o no – dovranno ricominciare a dialogare. E ancora. C’è la nomina del presidente della Vigilanza (29 e 31 luglio), c’è la candidatura di Leoluca Orlando, c’è il veto – su Orlando – di una parte della maggioranza, c’è l’ultimo accordo tra dalemiani e veltroniani e c’è l’ultima intesa tra rutelliani e popolari. Poi ci sono i consiglieri che a settembre verranno rinnovati, ci sono i compiti dei redattori che verranno rivoluzionati e ci sono, già oggi, i sintomi che qualcosa si sta muovendo e che qualcuno si sta riposizionando. E ci sono modi precisi per scoprire come vanno le cose, per scoprire come funzionano le mosse, per scoprire quali sono i profili e per scoprire come si fa a capire quando il giornalista che sta di qua prova a fare un passetto per andare di là. Per questo, due mesi dopo le elezioni e due mesi prima del giorno in cui tutto cambierà, abbiamo fatto un giro in Rai e abbiamo parlato con un cronista veltroniano, uno berlusconiano e uno dipietrista.

***

Op-po-si-zio-ne du-ra! E sen-za pa-u-ra! Il veltroniano, aridatece er Caimano, è un berlusconiano perfetto solo con i capelli un po’ più a caschetto. Anche in Rai, come al Loft e come nel Pd, il veltroniano vede il dalemiano in ogni dove. Lo riconosce in ogni avverbio, lo inchioda a ogni “onestamente” sfuggito e a ogni “francamente” percepito. Il dalemiano, secondo il dalemiano, esiste solo nella testa dei non dalemiani. Il veltroniano – soprattutto quello della Rai – lo vede invece ovunque ed è una ossessione. Lo vede a mensa, lo vede in diretta e, ultimamente, lo vede anche tra i signori che passeggiano con il Caimano. Il veltroniano, aridatece-er-Caimano, sarà lottizzato per la prima volta a settembre e in questi giorni, in vista dell’evento, si prepara ad affrontare l’incarico di responsabilità; si prepara ad articolare pensieri importanti e già si esercita su concetti fulminanti. “La trasparenza è un elemento di novità e progresso”. “La destra non ci trascinerà nella giungla”. “E’ necessaria un’operazione di crescente legittimazione”. “Bisogna superare il duopolio”. “Bisogna portare la banda larga in tutta Italia”. “Bisogna mettersi tutti attorno a un tavolo per risolvere con determinazione i problemi”. “Non è stato garantito il pluralismo”. “E’ stato violato il rispetto istituzionale”. “La destra si esercita in annunci improvvisati”. “Le contraddizioni interne alla maggioranza ci impediscono di sottoporre un progetto credibile”. E così via. E poi, il veltroniano – che dice che la destra nasconde la verità, che vede nani e ballerine in ogni redazione, che dice che Cappon il suo lavoro lo fa, che dice che Saccà va condannato ma non ha capito bene perché – non vorrebbe essere “vittima della lottizzazione”. Dice che non ha mai parlato con il conduttore Giorgino, dice che non ha mai sbirciato il Grande Fratello e dice che un giorno ha temuto che “Uno due tre stalla” fosse un programma di Rai Uno. Per quanto lo riguarda, inoltre, lui non accetta quella descrizione. Quella classica, quella del veltroniano che in Rai ha il gessatino, la cravatta alla Mourinho, il giornale stropicciato, il capello un po’ schiacciato, gli occhiali alla Sassoli, il sorriso alla Mannoni e lo stile alla Dandini. E ancora, il veltroniano non capisce che cosa c’entri con la Rai Follini, non capisce perché alla Rai non ci va Bettini e, infine, vedendo ancora insieme Tremonti e Letta, Veltroni e Berlusconi, non capisce in che senso da qualche parte ci sarebbe una “nuova stagione”. Il veltroniano, aridatece er Caimano, ha letto – anche se non può dirlo – tutti gli ultimi distensivi libri di Travaglio – “ll bavaglio”, “Regime”, “Mani Sporche”, “Inciucio”, e un’altra dozzina di utilissime sentenze rilegate. Il veltroniano, però, a volte è atipico e a volte è anche un po’ disorientato. Perché il veltroniano è anche l’eterno candidato che diventa eternamente inadeguato. Il veltroniano è anche quello che non è mai stato comunista e che in Rai dice che gli conviene dire di essere un semplice socialista. Il veltroniano è anche quello che dopo la prima caduta del governo Berlusconi ha festeggiato, ma poi c’ha ripensato. Perché sperava che con l’arrivo dei nostri arrivasse la svolta e invece la svolta non è arrivata e lui è finito come sempre e con il suo programma che la sera finisce ancora un po’ prima di mezzanotte. E poi, ancora, è quello che ha intervistato una volta Prodi – e l’ha fatto per primo, l’ha fatto al Tg1 – ed è anche quello che poi, in gran segreto, quando il Prof. ha perso, ha scritto a tutti i colleghi un famoso messaggino con tre paroline e tre punti esclamativi. Libertà! Libertà! Libertà! Ma il giornalista veltroniano, in alcuni casi clamorosi, può essere ancora più atipico. Perché – e in Rai ce ne sono in molti – è anche quello che era veltroniano ancora prima che arrivasse il veltronismo e che quindi, ora che è deluso per non dire rassegnato, ci ha messo un attimo a diventare dalemiano. Poi c’è quello non atipico, quello che la W. la sente fino al midollo, quello che dice di non essere sfiduciato, quello che dice che aspetterà ancora il suo turno, quello che dice di essere motivato, quello che dice di pensare a una tv senza tessere, a una Rai liquida, a una televisione leggera. E’ lui quello che ti parla solo di piani industriali, è lui che ti descrive scenari fatti di infinite reti digitali. Il veltroniano perfetto – che ha i capelli bianchi e il taglio un po’ a caschetto – considera la Rai un “grande strumento a sostegno della modernizzazione”. Dice di non aver mai scritto una fiction, dice di non essere riuscito ad aggiornare il suo blog, dice che sulla Repubblica vorrebbe leggere Fortebraccio, dice che non ha capito se le elezioni le hanno vinte gli altri o siamo noi quelli a cui hanno fatto il culo. Dice che non ha capito in che senso ci servono cinque milioni di firme, non dice mai di aver scritto più libri di quanti ne ha letti e poi dice di non aver capito da che parte sta Giorgino. Dice che vorrebbe essere valorizzato – e non, dunque, lottizzato – dice che alla Rai servirebbe una riforma, dice che il cda andrebbe cambiato, dice che il consiglio andrebbe azzerato, dice che qui ci vuole un nuovo presidente, dice che qui ci vuole una nuova vigilanza epperò – per quanto sia necessaria una opposizione dura! E senza paura – non ha ancora capito in che senso Orlando c’entrerebbe con i valori.

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Il redattore-ebbasta co’ sta storia del Caimano è silenzioso, è prudente, è misurato e ha letto la maggior parte dei libri che lui stesso risulta aver firmato. Non ama la lottizzazione e non la chiama mai per nome. Ti dice che in Rai il problema non è mai politico ma che, piuttosto, si tratta solo di una questione “industriale”. Vede comunisti in ogni dove e li vede alla Rai, all’Usigrai, alle mense e in redazione. Dovunque, tranne che tra i colleghi del Pd. Il redattore-ebbasta co’ sta storia del Caimano, riconosce il veltroniano nei corridoi perché è quello che cammina con la mazzetta, è quello che passeggia con i giornali stropicciati, è quello che lo senti parlare a mensa di “supremazie antropologiche”, è quello che ogni tanto ti confessa che Veltroni si incazza con Riotta – ché il leader del Pd non sopporta un audio senza volto o un servizio con una singola foto. Il cronista che non ha paura di essere considerato berlusconiano è quello smaliziato che ti racconta tutto quello che succedeva nei giorni prima e quello che succedeva nei giorni dopo. Tra un’elezione nazionale e un ballottaggio locale. E’ quello che ricorda, a pochi giorni dalle elezioni, le lunghe file di fronte agli uffici del direttore e di fronte alle stanze del caporedattore. E’ quello che ricorda tutti quei colleghi di fede contraria che improvvisamente provarono a far di tutto per passare di qua. E i passaggi di fede, per non dire di proprietà, si vedono quando sei in fila dal direttore. Si vedono nelle mense fuori dalla redazione. Si vedono la mattina prima e dopo una trasmissione. Si vedono con il cronista conduttore che in tempi prossimi alla lottizzazione sta molto attento alle parole e parla poco di nuova stagione – preferisce chiamarla semplicemente “una nuova situazione” – e ti confessa che lui non aveva dubbi, che Napoli non è mai stata così bella e che oggi serviva proprio un gran comunicatore.
“Io so’ sempre stato dei vostri, diretto’!”.
Il cronista, ebbasta co’ sta storia del Caimano, è anche quello che negli anni ha imparato a conoscere il profilo del candidato che già da oggi, in Rai, è sostanzialmente un mezzo trombato. Lo riconosce subito. E’ quello che parla e poi non piglia. E’ quello che promette e non mantiene. E’ quello che ti si avvicina e ti dice “Dotto’! Mo’ tocca a me!”, e che in tempi di spoils system ci mette poco a non demonizzare il gran lottizzatore e ci mette poco a dire che, Lui, è sempre stato in fondo un gran comunicatore. “Il Parlamento – ti spiega – non mi spaventa che sia azionista di riferimento della televisione pubblica”. Evviva! Evviva la lottizzazione! E poi, il berlusconiano – che crede ancora nella cordata, che non ha mai amato Moretti, che non ha mai letto un’intercettazione, che non ha mai sbirciato su Dagospia e che l’ha sempre detto che quel Brunetta lì… – ti spiega esattamente come funziona il processo dell’allontanamento. O meglio. Del riposizionamento. Ti dice che c’è un esempio e ti dice che è un esempio biondino, che ha il cognome che sembra un diminutivo e che ieri stava con noi e che oggi sta invece un po’ più al centro. E il passaggio si formalizza con una dichiarazione. Magari con un’allusione. Certe volte basta una specifica posizione. Perché basta arrivare alla mensa e sedersi in un altro tavolino. Basta cominciare a bere il caffè dove sai che i compagni non ti starebbero vicino (un esempio, in Viale Mazzini, è il bar e quelle mattonelle vicino al balconcino). E spesso basta scegliere di fumare una sigaretta accendendola non nel cortile – che è più democrat che Cav. – ma di fronte a quell’ingresso con il cavallino. Di là ci sono i compagni, di qua invece no. Ma il cronista – ebbasta co’ sta storia der Caimano! – ragiona ormai solo con logica bipolare. Vede solo maggioranza e opposizione, vede solo Pd e Pdl e, prima delle elezioni e prima dei consigli di amministrazione, sa che ci sarà sempre un politico che ti chiamerà perché nei servizi vuole che il suo audio sia accompagnato dal video, vuole che nel pastone la sua voce sia prima di un altro e chiede – se proprio deve essere rispettata la par condicio – di scegliere le voci più incazzose tra quelle dell’opposizione.
“E ricorda: quelli che litigano devono essere sempre gli altri!”. Inoltre, il cronista che non ha paura di essere chiamato berlusconiano e che a pranzo preferisce accontentarsi di una semplice coppa di gelato, si chiede come mai i comunisti sono rimasti solo in Rai e come mai solo in Rai ci sono ancora giornalisti che possono fare campagna elettorale, che possono andare in piazza, che possono presentare il proprio candidato premier e che possono considerarsi imparziali anche quando, con il microfono in mano, un giorno – davanti al pubblico – dicono “signori qui dobbiamo disinfestare la piazza che fino a ieri c’è stato il nano!”. Mentre poi, zitti zitti, il giorno dopo si mettono in fila dal direttore e dal caporedattore. “Io so’ sempre stato dei vostri, diretto’!”.

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Il tintinnante condottiero dei valori, in Rai, è un comunista un po’ più accigliato ed è un lottatore che sognava la falce e il martello e che adesso si ritrova invece con una trebbia di governo. Non vuole inciuci e non vuole regimi. Fosse per lui, all’Onu vorrebbe Marco Travaglio, alla Caritas Di Pietro, all’Intelligence Giulietto Chiesa e alla Rai tutti i tre della famiglia Guzzanti. Dice che avrebbe letto volentieri i romanzi di Camilleri ma non ha mai superato la sindrome “deficit da Travaglio”, ché, sommando le ultime opere scritte dal grande giornalista dei valori, il cronista dipietrista si ritrova spesso a leggere più o meno seimila pagine di libri tintinnanti. Epperò quanto è bravo sto’ Camilleri, signo’! Il condottiero dei valori – che ti dice che in fondo lui è la vera anima dell’azienda – è poi anche quello che dice di avere le conoscenze giuste. E’ anche quello che, se serve una carta, sa dove cercare e dove trovarla ed è anche quello che – pur non apprezzando la lottizzazione – a lottizzare dice che ci penserà da sé. E allora evviva la revolución! Evviva il compagno Leolucà!
E se gli chiedi, al compagno dei valori, chi è il più veltroniano dei veltroniani lui ti parla degli occhialetti di Sassoli. E se gli chiedi chi è il più berlusconiano dei berlusconiani lui ti parla della vicedirezione di Maurizio Ciarnò. E se gli chiedi di D’Alema lui ti dice che in Rai il dalemismo è “un dato trasversale”. Un po’ di qua e un po’ di là. E se gli chiedi come finirà lui ti dice che tutto sarà in un inciucio, che non ci sarà alcun candidato dei valori, che alla Vigilanza finirà a schifio e che non ci sono le prove ma i fatti ci sono eccome. Per questo, la presidenza Rai andrà a un veltroniano – al massimo a un rutelliano – e la vigilanza – ahilui! – sarà terreno fertile per un bravo dalemiano. Poi, il dipietrista giornalista dei valori, prende e ti fa la mappa del potere. Ti dice che sono sei anni che in Rai cambia poco o nulla, che a Rai Uno il nome giusto potrebbe essere quello di Minoli e che dipendesse dai berlusconiani – che i condottieri dei valori conoscono meglio dei veltroniani – oggi ci sarebbero due nomi che valgono più degli altri. Quello di Lorenza Lei, una cattolica che piace anche a Casini. Quello di Gianfranco Comanducci, vicedirettore della Divisione uno. Quello di Giuliana Del Bufalo, che non dispiace al ministro Tremonti. E poi, ti spiegano, per il Tg1 ci sono i nomi di Pierluigi Battista e di Maurizio Belpietro. Al Tg2 ancora quello di Mauro Mazza (o al massimo Pasquale D’Alessandro). Al Gr – e forse al tgr – finirà la Lega. Il Tg3 rimarrà rosso, non rimarrà a Paolo Ruffini e forse arriverà Francesco Pinto (direttore del centro Rai di Napoli). Poi, ti spiegano ancora, alla presidenza bisogna stare attenti, perché Stefano Parisi – l’amministratore delegato di Fastweb per il quale Goffredo Bettini e Gianni Letta avrebbero già trovato un accordo – non è un uomo di cui il Cav. si fida del tutto. Perché dipendesse da lui, al posto di Claudio Petruccioli, ci vedrebbe bene il dottor Guido Resca (*1). Poi, il dipietrista – che ha una storia complicata, che è stato comunista, che è stato pidiessino, che ha militato nella Rete e che però ci tiene a dire che non è mai stato dei Ds – ti fa il suo ragionamento. Ti dice che il bipolarismo è la rovina della lottizzazione. Ti dice che al voto utile corrisponde il giornalista utile, che al voto non utile corrisponde il giornalista non indispensabile, che non capisce cosa c’entri Giorgino con Casini e che non capisce lo strano caso del cronista con la targhetta Udc. Che è all’opposizione, che in Sicilia si sente di governo, che nel Lazio è in confusione e che a Bologna, ormai smarrito, crede ancora Follini sia tra i nostri. Ma il condottiero tintinnante dei valori – che sa come andrà a finire, che sa che né il 29 né il 31 verrà eletto nessuno alla Vigilanza – sa che c’è qualche dipietrista che ha pronte le carte giuste, che promette che se Orlando non avrà la Vigilanza all’improvviso, giù in Sicilia, c’è chi è pronto a combinare pasticci, e c’è chi è pronto a dimostrare che – in certi casi – i valori giusti fanno sempre quel rumorino lì. Anche se in fondo si tratta di Rai. E’ proprio come le noccioline. Non riesci a smettere. Tin-tin.
Claudio Cerasa
26/7/08

*1 (In realtà Resca alla fine potrebbe andare non alla presidenza ma alla direzione generale)

mercoledì 23 luglio 2008

Il Foglio. "Rutelli cerca casa"

Roma. Ancora oggi non sono in pochi a sostenere che Francesco Rutelli sia ormai disposto a sacrificare la sua militanza nel Partito democratico per dare vita a una grande forza di centro con l’Udc di Pier Ferdinando Casini. Qualcuno dice che questo possa accadere prima delle elezioni europee. Qualcun altro sostiene che possa succedere non prima delle prossime legislative italiane. Nelle ultime ore, però, è successo qualcosa di diverso: le voci che hanno accompagnato ogni ipotesi di scissione sembrano essere meno probabili di quello che potrebbero apparire e il risultato è che il nuovo conio che Rutelli aveva teorizzato giusto un anno fa da ieri pomeriggio ha un volto un po’ più definito. Un volto che per il momento non prevede fratture con il Pd e che l’ex vicepremier del governo Prodi ha provato a descrivere nel corso di un convegno organizzato al piano terra di Montecitorio.
Rutelli – di fronte al presidente e al segretario dell’Udc, Rocco Buttiglione e Lorenzo Cesa, e all’onorevole Roberto Rao, già portavoce di Casini – ha parlato da “fondatore del Partito democratico” (sono parole sue), ha lanciato qualche messaggio al segretario del Pd e ha cercato di ragionare sul senso che il voto cattolico ha avuto nel corso delle ultime elezioni. Non è la prima volta che nel Pd si riflette sul peso effettivo che quell’elettorato ha avuto lo scorso 14 aprile. Ma le parole che Rutelli ha usato ieri pomeriggio sono significative per un paio di motivi. Non solo per quanto riguarda le future alleanze del Partito democratico: su quell’argomento – ovvero sul tentativo di spostare il baricentro del Pd verso posizioni di centro – Rutelli ha un copyright che risale al luglio dell’anno scorso. Fu lui il primo a parlarne e ne continuerà a parlare anche sabato prossimo in un seminario a Todi con Pier Ferdinando Casini e Ferdinando Adornato. C’è dell’altro nell’iniziativa rutelliana. Perché l’ex sindaco di Roma, presentando ieri una serie di sondaggi utili a comprendere i flussi del voto cattolico nel Pd, non ci ha messo molto a spiegare perché il Partito democratico non è riuscito a sedurre in modo sufficiente l’elettorato cattolico. Il Pd sarebbe riuscito ad attrarre un 28 per cento di credenti (la metà di quelli messi insieme dall’Ulivo due anni fa, il 2 in più rispetto ai dati Pd nel 2007) mentre il Pdl il 36 per cento. Ma, come spiega a fine giornata un dirigente del Pd, dietro le ultime iniziative di Francesco Rutelli c’è qualcosa di più.

(segue dalla prima pagina) Nel corso del convegno di ieri pomeriggio ci sono stati due passaggi molto significativi. Nel primo, Rutelli ha fatto un esplicito riferimento al proprio tentativo di ricerca di una “casa” per i cattolici, e l’ha messa così: “Ora bisogna far sì che vengano posti nelle condizioni di sentirsi a casa loro nel partito”. Nel secondo passaggio è stato Luigi Bobba, deputato del Pd, a spiegare che oggi – anche per quanto riguarda il mondo dei cattolici – è la stessa sopravvivenza della vocazione maggioritaria a essere messa in discussione. “Un partito a vocazione maggioritaria e nazionale deve mirare a vincere anche in quella fetta di elettorato”. Ma ieri Rutelli – che per settembre avrebbe pronto un manifesto sulla laicità – ha lanciato un messaggio sia a Veltroni sia ai cattolici che più degli altri hanno appoggiato la leadership di W. I cosiddetti Walter Pop. Il veltroniano Giorgio Tonini ha provato a prevenire ogni polemica e ha detto che “non si può non condividere l’invito di Rutelli”. Ma come spiega un dirigente del partito le cose sono un po’ più complesse. “Rutelli – dicono dal Pd – sta facendo un’operazione semplice. Sta cercando di occupare la casellina più a destra del Partito democratico. Sta cercando di spiegare che il vero garante dei cattolici nel Pd è lui, non qualcun altro. Sta cercando, inoltre, di dimostrare che se il Pd ha ottenuto così pochi voti cattolici alle ultime elezioni la colpa va data a coloro che finora hanno preteso di rappresentare i credenti nel partito. In altre parole, Rutelli ha messo formalmente sotto accusa i popolari di Dario Franceschini e di Giuseppe Fioroni”.
Claudio Cerasa
23/7/08

venerdì 18 luglio 2008

Manuale Celli. "L’ex direttore Rai difende Saccà, suggerisce a Cappon un passo indietro e lancia due provocazioni"

Roma. Certo, se solo il dottor Cappon avesse ascoltato un po’ prima le parole dell’ex direttore generale della Rai… “Ma per carità! Se noi tutti fossimo stati registrati, se fossimo stati esaminati sulla base di quello che dicevamo per telefono, se quelli fossero stati i criteri di valutazione, con ogni probabilità – anche ai nostri tempi – tra i dirigenti Rai non ci sarebbe stato davvero nessuno in grado di salvarsi! Ma figuriamoci: sai quante telefonate ‘fuori regola’ e quante parole disincantate si sono dette al telefono in tutti questi anni! Detto ciò, a questo proposito, io ho una filosofia precisa che spesso mi viene rimproverata. E’ vero, sono una persona con animo a sinistra – che ha sempre cercato di essere corretto ed equilibrato con tutti sul lavoro. Ma è proprio per questo che, francamente, io preferisco trattare – anche per quanto riguarda il lavoro – con un mariuolo intelligente piuttosto che con un ignavo incompetente”. Ecco, avesse ascoltato queste parole un po’ prima, chissà se il dottor Claudio Cappon – direttore generale della Rai – avrebbe fatto quello che ha effettivamente fatto mercoledì pomeriggio, quando – dopo aver riunito il cda Rai con l’idea di sfiduciare Agostino Saccà per una presunta “incompatibilità ambientale” – nella sostanza si è ritrovato sfiduciato dalla maggioranza dei consiglieri convocati. Le parole tra virgolette sono quelle dell’ex direttore generale Rai Pier Luigi Celli – oggi direttore della Luiss – che non parla da tempo con i cronisti ma che oggi sembra aver davvero voglia di sparigliare a proposito della sua vecchia azienda. Celli non ci gira attorno. Dice di voler “difendere” Saccà. Dice che per il bene stesso dell’azienda preferirebbe che “la Rai oggi fosse per lo più privatizzata”. Dice che a suo avviso, inoltre, “questo sarebbe il momento giusto per abolire la commissione di Vigilanza, visto che ormai proprio non si capisce che senso abbia”. Dice anche “che il ruolo di direttore generale – ruolo, tra l’altro, oggi occupato dal dottor Cappon – è un ruolo ormai obiettivamente di troppo e che ha poco senso per un’azienda come la Rai”. E infine, Celli dice che a suo avviso – viste le cose come sono andate – il dottor Cappon dovrebbe capire qual è il senso del messaggio arrivato due giorni fa dal cda Rai, che ha clamorosamente bocciato la sua proposta di silurare Agostino Saccà. “E’ chiaro che, quando il consiglio di amministrazione su una questione considerata importante vota contro il suo presidente o contro il direttore generale, esiste anche un problema di dignità personale. Io, come è noto, mi sono dimesso nel 2001 per molto meno…”. Celli continua il suo ragionamento. “Per quanto riguarda tutto questo baccano su Saccà – fermo restando che in Rai spesso prevale la logica del ‘mors tua vita mea’ – sono convinto che sulla valutazione di un professionista possono e devono incidere solo i risultati personali. Ricordo che Saccà sono stato io a lanciarlo, nel 1998. L’ho fatto perché era bravo e oggi rivendico quella scelta. Per come Saccà ha lavorato, in termini professionali, io l’ho difeso prima e naturalmente lo difendo anche adesso”. Celli non si ferma qui. “Dal mio punto di vista, la situazione oggi in Rai è la manifestazione perfetta della recente degenerazione dei rapporti con la politica. La lottizzazione non va certo demonizzata. Ma vorrei ricordare che la politica è una cosa seria. Per essere chiari. L’indipendenza dai partiti renderebbe tutto molto più semplice in Rai, ma è anche vero che la vecchia lottizzazione – pur avendo un sacco di difetti – era più chiara e consentiva più professionalità a tutti. Ora, per il bene stesso della Rai, se dovessi scegliere preferirei che fosse per lo più privatizzata. E invece no. Oggi capita che non tutto sia trasparente e che ci sia qualcuno che si nasconde dietro a nomine politiche. La vera differenza con il passato è che in Rai, un tempo, vi erano degni rappresentati di una parte politica. Un tempo si rivendicava la professionalità e se questa non c’era ci si vergognava. Ora, invece, è consentito non vergognarsi. Ecco. E’ difficile dunque non rilevare tutta la sciatteria che si manifesta nella tv pubblica. Non tanto per la qualità dei programmi, quanto per il fatto che si vede che le cose vengono fatte, diciamo, un po’ a tirar via. E’ anche per questo che oggi io in Rai al massimo guarderò qualche volta il tg e magari qualche fiction. Per il resto, dato che il telecomando è spesso in mano a mio figlio, in tutta sincerità ho imparato più che altro ad apprezzare non la tv pubblica ma quella di Sky”.
Claudio Cerasa
18/7/08

Il Foglio. "Perché il modello tedesco che piace ai dalemiani sarebbe 'la fine della vocazione maggioritaria del Pd'"

Il giorno dopo le parole di Dario Franceschini al Foglio e il giorno dopo l’apertura al modello tedesco (versione bozza Bianco) del vicesegretario del Partito democratico, Salvatore Vassallo ci spiega perché la possibile adesione al modello tedesco (modello sponsorizzato da Massimo D’Alema) rappresenterebbe per il Pd “la fine della vocazione maggioritaria”. Ovvero uno dei concetti chiave della nuova stagione di Walter Veltroni. Vassallo, che è consulente per il governo ombra per gli affari costituzionali, riflette sulla pericolosità per un partito come il Pd di dire sì a un modello tedesco puro, che dia dunque spazio a un sistema che preve la coesistenza di almeno quattro partiti tutti di un certo peso. Uno di centro, uno di sinistra, uno di centrodestra e uno di centrosinistra. Questo perché ancora oggi – secondo il costituzionalista del Pd e secondo gran parte dei dirigenti più sensibili al pensiero del segretario Walter Veltroni – il sistema elettorale migliore resta comunque quello spagnolo. Mentre quello ideale è quello a doppio turno francese. “Negli ultimi giorni – dice Vassallo – si è tornati con una certa insistenza a ridiscutere di modelli elettorali. Bene, anche alla luce dell’interessante incontro di lunedì scorso con molte fondazioni, non solo del Pd, oggi possiamo essere in grado di fare un riepilogo piuttosto chiaro. Partiamo da qui. E’ evidente che oggi il principale sostenitore del sistema tedesco è l’Udc di Casini, dato che – al di là di ogni valutazione – quel sistema riconsegnerebbe a quel partito una centralità che il maggioritario, tanto più nella versione 2008, gli ha considerevolmente sottratto. Forse potrebbero essere interessati gli esponenti della Sinistra L’arcobaleno, qualora ritenessero di superare la soglia prevista dal modello; Antonio Di Pietro – che sta coltivando una nicchia elettorale dal suo punto di vista promettente e che lunedì scorso ha detto di essere sempre stato bipolarista, però chissà; infine la Lega nord, che ha fatto intendere che l’oggetto di sistema elettorale non è cosa che si ritrovi nell’agenda dei prossimi mesi. Negli ultimi giorni – continua Vassallo – è stato confermato che, per varie ragioni, esistono componenti del Partito democratico che ancora oggi sponsorizzano il sistema tedesco. Per capirci, quelle che preferiscono la composizione delle maggioranze in Parlamento piuttosto che la dinamica bipolare. Il fatto – sostiene Vassallo – è che ora abbiamo preso atto non solo che il principale partito di centrodestra rimane in una posizione contraria, ma che anche la leadership del Partito democratico ribadisce la preferenza per il doppio turno francese, senza escludere pregiudizialmente altre soluzioni. Dall’altro lato, però, la percezione è che il centrodestra stia pensando di disattivare il prossimo referendum, puntando al non raggiungimento del quorum”.

Dal CaW al ritorno dell’Unione
Vassalo, che a novembre fu autore della proposta di riforma elettorale sulla quale il CaW (Cav. + W.) aveva trovato un’intesa poco prima che il governo Prodi collassasse, oggi crede che “le cose dette in questi giorni siano difficili da interpretare, perché non si capisce se ci siano segnali minacciosi, gesti di cortesia o effettive prese di posizioni sul merito”. “Personalmente – dice il costituzionalista del Pd – continuo a pensare che nessuno abbia risposto a una domanda banale banale circa il sistema tedesco. E cioè: come si forma il governo in Italia quando per caso dovesse essere usato un sistema come quello? Va ricordato che il sistema tedesco deprime il potenziale elettorale dei partiti più grandi, apre spazi più larghi ai partiti intermedi, non avvantaggia il partito o la coalizione che ha la maggioranza relativa dei voti e consegna un Parlamento nel quale il centrosinistra per governare dovrebbe mettere insieme questo: un Pd più piccolo di quello attuale, la Sinistra arcobaleno, l’Italia dei Valori e l’Udc. Dunque, qualcosa in più che la stessa idea di Unione. Certo – prosegue Vassallo – fino a che il dibattito sul sistema elettorale viene condotto a scopi segnaletici – dire che sono per il sistema tedesco vuol dire che sono amico dell’Udc o della Sinistra – banali quesiti come questo possono essere elusi. Ma quando si dovrà discutere del merito, il problema ritornerà”. Poi Vassallo risponde all’apertura al sistema tedesco di Dario Franceschini, che ieri sul Foglio aveva detto che “ripartire da un modello tedesco corretto, come era la bozza Bianco, è un’ipotesi percorribile”. “Anche l’evocazione della bozza Bianco è un argomento segnaletico – dice Vassallo – Se ci si riferisce all’ultima bozza Bianco si sta parlando di un sistema puramente proporzionale e dunque identico al tedesco. Per quanto riguarda la maggioranza, invece, il centrodestra credo proprio sia pronto a ricompattarsi su un modello molto simile all’attuale. A meno che il Pdl non trovi il coraggio di fare una scelta virtuosa. Perché, a rigor di logica, oggi vi è una necessità per il nostro sistema elettorale di passare dal premio di maggioranza esplicito a un sistema con elementi maggioritari ‘impliciti’, come capita nel sistema spagnolo”. Sistema che per molti mesi è stato uno degli assi su cui poggiava il dialogo tra il segretario Walter Veltroni e Silvio Berlusconi. Vassallo entra nel merito. “A questo proposito credo sia importante, per forze politiche come il Pd, un modello che valorizzi il ruolo dei maggiori partiti, che salvi il bipolarismo e che lasci al tempo stesso un maggior margine di flessibilità alle coalizioni. Per questo, per le ragioni che ho appena detto, continuo a pensare che il sistema tedesco rappresenti inevitabilmente la fine della vocazione maggioritaria”.
Claudio Cerasa
18/07/08

giovedì 17 luglio 2008

Il Foglio. "Franceschini spiega la doppia strategia del Partito democratico

Il giorno dopo aver aperto la riunione della nuova direzione del Pd, Dario Franceschini riflette con il Foglio su alcuni temi piuttosto interessanti come la riforma elettorale, il dialogo con la Lega e il sistema giudiziario. Il vicesegretario del Pd ragiona anche sulla questione dei recenti scandali sulla sanità (“La gestione della sanità andrebbe portata lontana mille miglia dalla gestione dei partiti”) e poi comincia così: “Non vedo alcun logoramento nel Pd e non vedo nessun dirigente che abbia messo in luce una linea programmatica diversa da quella del segretario. Certo, se ci fosse uno scontro tra due linee politiche l’unico modo per chiarirsi sarebbe quello di convocare un congresso per discutere del gruppo dirigente. In questi giorni, però, mi sembra che il clima sia davvero molto migliorato”.
Tre giorni fa, Franceschini ha partecipato a un incontro organizzato da alcune fondazioni per discutere di modelli elettorali. Sull’argomento, il vice W. la mette così. “La legge elettorale europea va fatta subito e credo sia possibile raggiungere un’intesa con la maggioranza prima della fine dell’anno. La legge elettorale nazionale, invece, va affrontata prima del referendum. C’è però un ragionamento da fare. La nascita del Pd e del Pdl ha reso molto meno da fine del mondo questo dibattito, perché fino a pochi mesi fa un sistema o un altro potevano bloccare la transizione. Oggi è diverso. Per quanto ci riguarda – come ammesso nel documento firmato dalle fondazioni – il sistema che preferiamo è quello a doppio turno francese. Ma è evidente che al momento c’è un consenso più largo – anche se non sufficiente – su quello tedesco. Noi aspettiamo che arrivi una proposta dalla maggioranza. Ma posso dire che ripartire da un modello tedesco corretto, come era la bozza Bianco, è un’ipotesi percorribile”.
Franceschini, che dunque non rifiuta il modello da tempo sponsorizzato da Massimo D’Alema, parla anche del rapporto tra Lega e Pd. “Noi siamo disposti a discutere di federalismo, anche a settembre, ma non con l’idea di federalismo che ha in mente la Lega. Il Pd vuole un federalismo solidale e su questo noto che non esiste convergenza con la maggioranza. Non possiamo accettare un federalismo sciagurato che uccida il mezzogiorno. Ma se si dovesse aprire un confronto, in un clima diverso, noi siamo aperti e disponibili”. Sempre a proposito di maggioranza, Franceschini critica il governo. “La nostra opposizione sarà durissima, perché quando arrivi a toccare l’essenza del sistema parlamentare l’intransigenza deve essere assoluta. In questo momento lo scontro è molto forte e temo che saremo costretti a farlo diventare ancora più duro. Ma quando si tratta di scrivere le regole del gioco cosa dovremmo dire? Che siccome ci stiamo scontrando sull’azione di governo fatevele da soli? Sarebbe autolesionista. Noi dobbiamo pretendere che le regole della convivenza democratica si possano cambiare solo con accordi tra maggioranza e opposizione. Non daremo alibi perché le riforme costituzionali le faccia la maggioranza da sola”.
Franceschini fa una precisazione sulle polemiche con il presidente della Camera, Gianfranco Fini. “Sono stato accusato di aver insultato Fini. Ho fatto una considerazione. I presidenti delle Camere sono stati sempre interpretati come ruoli di garanzia. Io non faccio accuse specifiche, ma mi pare incontestabile che in particolare alla Camera le scelte della presidenza sull’ammissibilità di qualsiasi emendamento della maggioranza e sulla creazione di un calendario come è successo con il lodo Alfano creino un Parlamento a due velocità, con le leggi normali per cui servono mesi e quelle che premono al governo per cui servono tre giorni. Per questo, il ruolo dei due presidenti tende a essere non più di garanzia ma finalizzato a far funzionare le camere secondo la volontà politica della maggioranza”. A proposito di giustizia e di Antonio Di Pietro, Franceschini trova “deprimente” che di fronte a quello che sta facendo il governo “ci sia una specie di gara a chi sia più duro a fare l’opposizione e ci sia un’azione tesa a galvanizzare i propri elettori”.
Ma per quanto riguarda due temi che potrebbero essere affrontati dopo l’estate dall’esecutivo – obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere – il pensiero del vice W. è questo: “In un clima diverso si può ragionare e si può discutere su entrambi gli argomenti”. Riprendendo un tema riproposto ieri da questo giornale, Franceschini dice di essere favorevole a “una totale trasparenza dei finanziamenti dei partiti e a un possibile miglioramento delle modalità di finanziamento pubblico”. “La legalizzazione dei rapporti di lobbying”, invece, è una cosa che a Franceschini “non piace”. E le fondazioni culturali? “Questo non deve essere un tema brutalizzato. E’ l’esempio di come il Pd sia un partito che si ispira al modello americano. Le fondazioni sono una risorsa per il Pd. Altra cosa invece sono le correnti personalizzate, che per un partito come questo sarebbero un fenomeno distorsivo”. E se a Franceschini chiedessero di prendere la tessera della fondazione dalemiana ItalianiEuropei? “Mi chiederei per far cosa”, risponde con un sorriso il vice W.
Claudio Cerasa

17/07/08


mercoledì 16 luglio 2008

Il Foglio. "Ecco la storia, milione per milione, dei conti di Sacchetti e Consorte"

Perché la procura ha ritirato la grande accusa

Milano. Arrivi al primo piano della procura di Milano e scopri che il nome di Ivano Sacchetti è un nome che incuriosisce i pubblici ministeri da circa sei anni. E’ vero. Oggi non c’è nessuno che parli e non c’è nessun magistrato pronto a raccontare i lati chiari e quelli invece meno limpidi che riguardano la vita dell’ex numero due di Unipol. Ma a microfoni spenti cambia tutto e non è difficile scoprire che anche la storia giudiziaria di Ivano Sacchetti è una storia che è lo specchio perfetto di un progetto che poteva essere storico. Ed è l’unica storia in grado di raccogliere insieme tutte le sfumature utili per comprendere come è cambiato negli ultimi dieci anni il rapporto tra soldi e comunismo. Tra finanza e socialismo. Quello specchio si è frantumato nell’estate del 2005: Unipol non è diventata il grande polo bancario delle cooperative e Sacchetti non è diventato il presidente di Bnl. In tutto questo, tra le vicende giudiziarie che riguardano i due ex manager (l’altro è Giovanni Consorte), la vita di quei famosi quaranta milioni di euro (non cinquanta, come invece si credeva in un primo momento) finiti sui conti correnti di Sacchetti e Consorte comincia così. Comincia nel 2001, quando la Telecom passò di mano dall’Olivetti di Roberto Colanninno alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera e quando per il passaggio di proprietà risultò decisiva la mediazione di Emilio Gnutti (ex presidente di Hopa, azionista di Telecom, ed ex consigliere proprio di Unipol). Gnutti convinse Colaninno a vendere le sue azioni alla Pirelli e l’ex numero uno dell’Olivetti ricevette una buonuscita di 150 miliardi di lire. A Gnutti, invece, spettarono 50 miliardi. Nei mesi delle trattative per il passaggio di proprietà Gnutti ebbe però un malore cardiaco; come nuovo interlocutore fu scelto Giovanni Consorte e in parte, anche se con un ruolo molto più defilato, Ivano Sacchetti. Sacchetti fu importante nel gestire i rapporti tra la dirigenza Unipol e Gnutti. Fu lui a conoscere il banchiere bresciano quando Gnutti sedeva nel cda della Banca agricola mantovana e fu Gnutti a proporre a Sacchetti e Consorte l’ingresso in Bell (la finanziaria che controllava Telecom). Consorte e Sacchetti entrarono così nella partita Telecom proprio in quanto soci minoritari dell’azienda telefonica (con il 4 per cento del pacchetto). La vendita di Telecom si concluse bene: la stessa Unipol da quell’operazione guadagnò in tutto circa 80,4 milioni di euro ma a Consorte e Sacchetti andò anche meglio. Certo, c’è chi non ha ancora compreso come sia possibile che due manager di una società facciano simili attività di consulenza presso una società esterna. Fatto sta che in quattro anni la “parcella” totale finita sui conti di Sacchetti e Consorte è stata di circa 40 milioni di euro. Fatto sta che i soldi sono tutti transitati da società riconducibili a Gnutti – “Preferivo averli amici che nemici”, dirà poi lo stesso Gnutti in un interrogatorio del 25 dicembre 2005 – e che, secondo la ricostruzione del finanziere bresciano, sarebbe stato proprio Ivano Sacchetti a chiedere a Mantova, alla fine di una riunione con Colaninno, di ricevere quel denaro. Di quei miliardi promessi a Gnutti – dirà poi l’ex presidente di Hopa – “una parte devono venire a me e Consorte, perché ci siamo impegnati anche noi”. (Gnutti ricorderà inoltre che “ogni volta che costruivo un’operazione finanziaria che coinvolgeva l’intervento di Unipol, ovvero di Monte dei Paschi di Siena”, veniva presentato “il conto”, nel senso che si “chiedeva sempre di poter fare delle operazioni con le quali guadagnare a latere”). Sacchetti non è d’accordo. Secondo la sua versione sarebbe stato invece l’ex vicepresidente Unipol, cioè lui stesso, a proporre che fosse riconosciuto a Gnutti il premio di 50 miliardi di lire. In un modo o in un altro, però, i soldi sono arrivati ai due dirigenti Unipol, e tra la fine del 2001 e il 2002 sarebbe stata la banca di Lodi di Giampiero Fiorani a trasferire circa 40 milioni di euro dalle casse di Hopa a quelle di Consorte e Sacchetti. La prima parte della consulenza viene versata il 15 ottobre e il 7 novembre del 2001 e viene versata su due conti correnti del Credit Foncier di Montecarlo. E’ sempre tutto a metà: 2,5 milioni di euro a Consorte, 2,5 milioni a Sacchetti. “Provvigioni della vendita del pacchetto Bell, Lussemburgo”, si legge nella causale del bonifico di Sacchetti. Poi Consorte e Sacchetti incominciano a incassare soldi in un altro modo. Incominciano a farlo, secondo l’accusa milanese, con operazioni costruite ad hoc e comprando azioni e rivendendole a Gnutti a prezzi superiori a quelli di mercato. Consorte e Sacchetti avrebbero incassato 3,4 milioni con Eni, 4 milioni con Autostrade, 3,4 milioni Olivetti, 10,6 milioni con Mps e Capitalia, 3,6 milioni con Fingruppo, 7 milioni con Antonveneta. In tutto, alla fine del 2005, sono arrivati circa 40 milioni di euro. Quei soldi, che rimangono a lungo depositati all’estero, incominciano a rientrare in Italia dal 2002. Quei soldi, dicono ancora oggi Sacchetti e Consorte, sono soldi nostri. Sono soldi che abbiamo investito negli anni. Non c’è nessuna provvista. Non c’è nessuna tangente. Non c’è nessun tesoretto per nessun partito. “Quei soldi – spiega al Foglio un ex cooperatore che ha conosciuto Sacchetti e Consorte – rischiano di essere davvero soldi loro e da un certo punto di vista sarebbe un’ipotesi sempre drammatica: sarebbe la dimostrazione che il vecchio spirito dei cooperatori di sinistra non esiste più. Sarebbe il sintomo vero del fatto che oggi qui in Emilia non ci sono più i dirigenti che come un tempo dividono i soldi con i cooperatori. Oggi, purtroppo, ci sono troppi manager con macchine di lusso e troppe persone che scelgono di distinguersi socialmente e che alla cooperazione scelgono i soldi. Ditemi: è questo che si intende per ‘mutualità’?”.
Al primo piano della procura di Milano ancora c’è chi un po’ dubita della versione dei manager. La cronaca racconta però che oggi sono gli stessi pm che avevano formulato l’accusa di riciclaggio ad aver fatto un passo indietro, ad aver ritirato quell’ipotesi di reato, ad aver ammesso che quei soldi non sono rimasti per così tanti anni all’estero e a raccontare che quell’accusa di tesoretti e di provviste oggi semplicemente “non è dimostrabile”. (4. continua. La prima puntata è stata pubblicata mercoledì 2 luglio, la seconda venerdì 4 luglio, la terza venerdì 11 luglio)
Claudio Cerasa
16/7/08

venerdì 11 luglio 2008

Il Foglio. "Perché Sacchetti parlava più con Bersani che con D’Alema"

Reggio nell’Emilia. La tessera e la banca. La coop e il sindacato. Il cooperatore e il partito. Possono servire anche sessant’anni per una telefonata e con Ivano Sacchetti, con Giovanni Consorte, con Unipol, con le coop e con quel vecchio sogno di conquistare una banca è andata proprio così. Bisogna partire da qui per capire il senso di una frase e bisogna partire da qui per capire il senso di una scalata che per Sacchetti aveva un significato diverso rispetto a quello che poteva avere per Consorte. Bisogna partire da un piccolo paese in provincia di Bologna, bisogna partire dai seimila abitanti di Sant’Agata e bisogna poi arrivare un po’ più in là, al di là della ferrovia di Reggio nell’Emilia, in quella strada stretta stretta dove ogni sera Sacchetti tornava a casa prima che il filo del suo mondo si spezzasse a metà. Le coop, il partito, il Pci, i Ds, la Cgil e oggi la Lega.
Il sogno di una grande banca che doveva mettere insieme operai, comunisti, cooperatori e sindacati non nasce nel 2005, quando Consorte e Sacchetti tentarono di conquistare la Banca nazionale del lavoro. Non nasce neppure nel 2004, quando Pierluigi Bersani e Piero Fassino salirono al secondo piano di Palazzo Koch per fare un “giro di orizzonte” e per parlare di banche con l’ex governatore Antonio Fazio. Nasce prima e nasce con tre piccoli maiali in una piazza dell’Emilia. Nasce con l’idea stessa di Unipol. Nasce quando le coop sbocciavano negli scantinati degli operai comunisti. Nasce quando i militanti di partito cominciarono a confondere la tessera di Unipol con quella del Pci; quando anche la Coltivatori diretti aveva una sua delegazione nella Dc; e quando un insulto contro i cooperatori sui muri di Reggio era impossibile, era come leggere un insulto contro la Roma nello spogliatoio di Francesco Totti. Ma nasce, soprattutto, quando il mondo delle cooperative era un mondo che metteva insieme tutto quello che Ivano Sacchetti era riuscito a trasformare in un sogno unico. La sinistra. Il sindacato. L’operaio. L’artigiano. Il partito. La banca. Nasce tutto qui. Quando uno dei maestri di Sacchetti – Cinzio Zambelli, fondatore di Unipol, ex partigiano come il papà di Ivano, Walter – raccontò ai cooperatori quell’idea che avrebbe trasformato un progetto in un tentativo di scalata. Perché l’idea di una banca della cooperazione è un’idea nata nell’estate di sessantatré anni fa, quando a Sant’Agata di Bologna – dove i maialini cominciarono a essere tagliati in piazza per essere distribuiti a “prezzi equi” – nacque la prima coop in grado di assegnare prestiti ai propri soci. Il primo banco di credito. E’ anche per questo che oggi ci possono essere sfumature molto diverse per spiegare il significato di quella frase scappata dalla bocca a Piero Fassino tre anni fa: “Siamo padroni di una banca”. Perché si possono alludere cose più o meno corrette, si possono fare collegamenti più o meno legittimi, si possono intendere cose più o meno querelabili. Ma il sogno di una banca è un sogno che Sacchetti conosceva meglio di Consorte. Perché per lui quello non era un possibile successo personale. Era altro. Era il desiderio di un riscatto. Erano le parole dei padri degli assicuratori che diventavano realtà. Era quello che Cinzio Zambelli aveva spiegato qualche anno prima anche allo stesso Ivano. Perché, come diceva Zambelli, “quella di avere una banca propria è sempre stata tra le aspirazioni più forti dei cooperatori. Si trattava di rendersi autonomi nei confronti di un contesto finanziario e creditizio tutto sommato ostile”. Perché non doveva essere dimenticato “l’antagonismo che ha animato a lungo la cooperazione nei confronti dei ceti di governo e quindi l’ostilità politica contro di essa”. Poi però cosa è successo. E’ successo che oggi non esistono più le feste dell’Unità con gli striscioni verdi e con la U scontornata dell’Unipol sotto i banchetti delle sottoscrizioni. E’ successo che oggi non esiste più quello che Beniamino Andreatta – inventore dell’Ulivo – definì un “reticolo asfissiante di consenso universale”. La tessera e la banca. Il cooperatore e il partito. E’ successo che la tessera del partito e la tessera della coop non sono più lati identici della stessa medaglia. E’ successo, lo dice al Foglio anche il reggiano Pierluigi Castagnetti, che oggi “ogni ragione sociale delle cooperative purtroppo è stata rimossa”. E’ successo, come racconta un ex dirigente coop, “che molto è cambiato e la gente, per fortuna, si è accorta di tutto. Perché non si erano mai visti cooperatori con i segretari personali. Con le macchine con autista. Con i premi di ventimila euro l’anno. Non si erano mai visti presidenti con tripli e doppi e quadrupli incarichi. Perché un tempo le cooperative erano la cinghia di trasmissione del partito. Oggi no. Hanno perso quello che da queste parti si chiama ancora ‘spirito mutualistico’. I cooperatori ora devono fare impresa. Devono ottimizzare. Devono essere competitivi. E invece sono diventati irriconoscibili. Sono un’altra cosa. Non più quelli che ci dicevano: ‘Vi diamo il servizio migliore al minor costo possibile’. E qui c’è qualcuno che ha cominciato ad accorgersene sulla propria pelle. L’Emilia è diventata un’altra cosa. E’ diventata la regione dei democristiani che si sono fatti furbi. La terra rossa è ora la terra dei dossettiani. E’ cambiato tutto. E’ come se si fosse aperta una ferita profonda. Qui un tempo, prima delle elezioni, le cooperative convocavano le assemblee per dare indicazioni di voto. Da due anni, invece, questo non succede più. Ecco. Sacchetti è l’immagine perfetta di tutto questo. E’ l’immagine del cooperatore vero che fa cambiare un mondo che poi gli sfugge di mano. E qui, oggi, si vota un po’ meno a sinistra anche perché la sinistra è un po’ meno rappresentata da quello che significò il mondo coop. Chiedetevi se c’entra qualcosa, tutto questo, con la Lega che ha preso il triplo dei voti rispetto a due anni fa. Chiedetevi perché il presidente della Lega cooperative nomina come vice non più un comunista, ma un bravo leghista. Chiedetevi che cosa significa quando da queste parti scopri che la coop, l’Unipol e il partito sono diventate cose che non ti rappresentano più”.
E’ anche per questo che Sacchetti era quello a sinistra. Era il partito. Era la tessera. Era il sindacato. Era lo specchio e l’evoluzione di quel “consenso universale”. Era quello che parlava con la base, e non con i giornalisti. Era quello che parlava più con Pierluigi Bersani che con Massimo D’Alema. Era quello che stava al mondo di sinistra come il Lambrusco sta a Reggio. Come Vasco sta all’Emilia. Come la Ferrari sta alla Romagna. Poi però è cambiato tutto ed è cambiato tutto anche per colpa di due conti in banca che con quel pezzo dell’Emilia sono in molti a dire che non c’entravano nulla. Il conto numero 046.1039.38 e il conto numero 046.1038.37. La storia dei 40 milioni comincia più o meno così.
(3. continua. La prima puntata è stata pubblicata mercoledì 2 luglio, la seconda venerdì 4 luglio)
Claudio Cerasa
11/07/08

martedì 8 luglio 2008

Il Foglio. "Prodiani senza leader. Gli ulivisti sognano D’Alema contro Veltroni e nel Pd torna il lessico di Prodi (che forse ora ha un piano)"

Roma. Fragile com’è, ormai, al Pd di Walter Veltroni basta appena un soffio per sentire scricchiolare i muri traballanti del partito. Correnti, fondazioni, associazioni e furibondi membri costituenti. Negli ultimi giorni, però, il Pd ha registrato una certa vivacità anche tra i fedeli custodi della dottrina ulivista. Non sono un movimento, non sono una lobby e forse non sono neppure una corrente. Fatto sta che quelli che Arturo Parisi (in una lettera al Corriere) definisce “alcuni amici” – qualcun altro li chiamerebbe semplicemente prodiani – sono diventati la prima opposizione ufficiale alla segreteria di W. e sono riusciti a imporre nel partito il vecchio lessico ulivista. La vocazione non è più solo “maggioritaria” ma anche “coalizionale” e ieri l’ex ministro Giulio Santagata ha persino riproposto la piattaforma che accompagnò l’elezione di Prodi del 2006, la “Fabbrica del Programma”. Ora c’è il rischio di trasformarsi in una delle mine più imbarazzanti per il Pd, non solo per la presenza in piazza oggi con Tonino Di Pietro. Arturo Parisi ha già chiesto da tempo le dimissioni del segretario. Ma c’è anche chi chiede qualcosa di più. Parlando con il Foglio, i prodiani Mario Barbi e Franco Monaco propongono a Massimo D’Alema, “l’unico che finora ha messo in campo una linea manifestamente alternativa a quella di Veltroni”, di fare qualcosa di più: “Discutere di leadership associate a piattaforme e promuovere personalmente una competizione”. “Questo – dice Monaco, ex parlamentare del Pd e grande amico di Prodi – sarebbe un passo decisivo per il Pd e sarebbe un fatto apprezzabile perché il partito non può stare un anno e in più a bagnomaria con una politica che oscilla come una canna al vento”. “Io – dice Barbi, deputato del Pd – mi considero all’opposizione di questo segretario, che anziché produrre un chiarimento sul tipo di opposizione da condurre si impegna in una semplice gestione oligarchica. Ma non si illudano: noi non faremo il regalo di lasciare il Pd”. In tutto questo, mentre dopo parecchi mesi i prodiani tornano a coniugare il proprio pensiero con la prima persona plurale – con il “noi” –, sembra chiaro però che Prodi con la politica italiana avrà sempre meno a che fare. Da tempo, il Prof. ha scelto di dedicarsi a una serie di conferenze (in Spagna, Francia, Polonia, Slovacchia e tre giorni fa anche Albania) e per il momento non interverrà direttamente sulle questioni che riguardano il Pd. “Prodi non rimarrà pensionato per molto. Se lui potesse scegliere – dice un prodiano che chiede di rimanere anonimo – penso che gradirebbe mettere a frutto la sua esperienza internazionale in modo da dare corso, davvero, alla sua visione del mondo e dell’Europa. E se mi chiedete se Romano accetterebbe un ruolo importante, non so, all’Onu o a Strasburgo, per me la risposta è sì”.
Claudio Cerasa
08/07/08

venerdì 4 luglio 2008

Il Foglio. "Solo chi mette il Lambrusco in lattina può sperare di scalare Bnl"

Il partigiano Walter Sacchetti (papà di Ivano) riuscì a dare all’american dream la forma di falce e martello

Reggio nell’Emilia. Il punto è stato sempre lo stesso e la storia dei due manager che volevano dar vita a una grande banca delle cooperative comincia così: comincia con una provocazione, con un sogno americano e con un piccolo compromesso storico. Comincia prima della fallita scalata alla Banca nazionale del lavoro. Comincia prima del 2005. Comincia prima di Ivano Sacchetti e Giovanni Consorte. Comincia quando a Reggio iniziarono ad arrivare le prime Skoda colorate di rosso, quando i voti per il Partito comunista sfioravano il 70 per cento dei consensi e quando, a poco a poco, i supermercati dell’Emilia si riempivano di persone convinte che acquistare una salsiccia sui banconi di una Coop fosse un modo come un altro per finanziare compagni e soviet della vecchia Russia. Non è possibile comprendere il senso della scalata di tre estati fa senza conoscere la persona che prima di tutti riuscì a scrivere nel codice genetico del movimento cooperativo il grande salto di qualità e che riuscì a mettere insieme, senza alcuna contraddizione, quello che a quei tempi sembrava impossibile far accettare ai vecchi militanti. Soldi e comunismo. Mercato e socialismo. Cooperazione e investimento. Per questo, la storia di Ivano Sacchetti – ex vicepresidente di Unipol, indagato per la scalata su Bnl di tre anni fa – è una storia che non può essere raccontata senza partire da qui. Senza partire dalla persona che diede un senso al rivoluzionario discorso che il segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti, venne a fare quasi cinquant’anni fa proprio a Reggio nell’Emilia. Era il 23 settembre del 1946 e la famiglia di Sacchetti stava per entrare nella storia con un signore di nome Walter. “Compagni. Qui da voi c’è l’occasione storica di dimostrare che il socialismo si può fare pacificamente con un largo fronte democratico in cui le ragioni del lavoro e quelle del capitale possono collaborare per far vedere al blocco reazionario che i comunisti sono capaci di fare star bene il popolo”. E Walter Sacchetti – che fu partigiano, senatore, deputato, amico di Giorgio Napolitano e papà di Ivano – fece così. Riuscì a fare una cosa che in quegli anni non era riuscita a nessun altro. Riuscì a dare all’american dream la forma di una falce e di un martello.
C’è un momento preciso nella storia di questa parte dell’Emilia in cui comunismo e socialismo diventano il “capitalismo fatto da noi” e in cui le cooperative si trasformano in un mondo pronto a entrare davvero nella competizione e nei mercati interni e internazionali. Un mondo pronto, se necessario, anche a conquistare una banca. Tutto però comincia con Walter Sacchetti. Sacchetti era il papà di Ivano e fu lui a consigliare al figlio di entrare in Unipol e di andare a Bologna in via Stalingrado. Sacchetti era il partigiano più famoso dell’Emilia. Lo divenne dopo essersi iscritto al Partito comunista (nel 1928), dopo essere stato prigioniero per sei anni nelle carceri fasciste, dopo essere tornato a Reggio con il nome di battaglia “Spartaco” e dopo essere entrato nella resistenza come ufficiale di collegamento fra le città e le montagne. Era il 1943. Cinque anni dopo Sacchetti diventò onorevole e in seguito senatore. In tutto per tre legislature. Poi entrò nella Cgil, diventò amico di Giuseppe Di Vittorio, fu presidente delle Cantine riunite e segretario delle Camere del lavoro. Da migliorista, militò nel Pci fino al 1989 e fu uno degli uomini di riferimento al nord per la componente napoletana del vecchio Pci di Giorgio Napolitano e Giorgio Amendola (il presidente della Repubblica fu il primo politico che inviò una lettera a Reggio, a casa Sacchetti, quando Walter morì un anno e mezzo fa). Sacchetti fece quello che nessun altro era riuscito a fare. “Portò la rivolussione in America!”, racconta un vecchio amico di Sacchetti. Ci riuscì in due modi, Walter. Ci riuscì ripetendo quelle parole che il figlio Ivano ripeteva spesso prima della scalata alla Bnl del 2005 (“Non si può essere impresa in un territorio se non si dà qualcosa in quel territorio”) e in piccolo, Sacchetti, riuscì a fare quello che cinquant’anni dopo provò a fare il figlio Ivano con le assicurazioni, le banche e i cooperatori. Fu l’esempio perfetto e la dimostrazione ideale di come la dimensione imprenditoriale non poteva che essere legata all’esperienza cooperativa. Sacchetti lo dimostrò e fu una rivoluzione. Tutto cominciò quando da presidente delle Cantine riunite mise il Lambrusco in una lattina, lo portò negli Stati Uniti e lo trasformò nel prodotto coop più esportato in America. (Per chi non avesse mai superato il raccordo anulare, portare il Lambrusco a New York ha lo stesso valore simbolico che potrebbe avere il tentativo di insegnare a un americano a mangiare la porchetta invece che il Big Mac). Sacchetti però fece anche dell’altro. Mise insieme le coop e il basket. Mise insieme cooperatori e calcio. Acquistò la squadra di Reggio di pallacanestro e dopo due stagioni, nel 1984, la portò in serie A. Comprò la squadra di calcio di Reggio – quella fantastica di Ravanelli, di Futre, di Silenzi e di Paganin – e nel 1994 fu la sua Reggiana a portare diecimila tifosi a San Siro e a salvarsi battendo all’ultima giornata il Milan del Cav. E quarant’anni dopo il punto è sempre lo stesso. Soldi e comunismo. Mercato e socialismo. Il papà di Ivano ci riuscì. Riuscì a rimanere dentro il limite del possibile. Il figlio Ivano, invece, scoprì con Unipol e Bnl che più in là, anche se si poteva, forse non si doveva andare. Lo scoprì a Reggio. Lo scoprì quando i compagni cominciarono a dirgli di sentirsi un po’ traditi. Lo scoprì quando i sindacati, anche la Cgil, cominciarono a parlare di “deriva culturale”. Lo scoprì, raccontano a Reggio, quando Sacchetti si accorse che nella sua Emilia i compagni cominciavano a temere che il mondo delle coop fosse diventato simile al mondo immaginario cantato da Francesco Guccini nella “Voce del padrone”. Quel mondo dove in fondo “sol due cose hanno importanza e sono il conto in banca e l’eleganza”. Si dice così per via dei 40 milioni di euro divisi tra Consorte e Sacchetti che meritano una storia a sé. Si dice così anche per via della Lega, che nella città un tempo del Pci è arrivata al 9 per cento. E’ anche per questo che oggi a Reggio, per spiegare l’evoluzione del mondo coop, ci sono due cooperatori che hanno una gran voglia di parlare.
Claudio Cerasa
04/07/08
(2. continua. La prima puntata è stata pubblicata mercoledì 2 luglio)

mercoledì 2 luglio 2008

Il Foglio. "Così Ivano Sacchetti divenne “il vero Cuccia della finanza rossa”"

Reggio nell’Emilia. La strada era sempre quella e ogni sera, anche a sessant’anni, Ivano Sacchetti aveva deciso che doveva essere così, che doveva essere come al solito e che lui doveva essere come gli altri: un po’ pendolare, un po’ operaio, un po’ vecchio comunista. Allora su e giù, su e giù, come in fondo gli aveva suggerito anche papà: Bologna, via Stalingrado, via Lincoln e poi l’autostrada, i 74 chilometri di A1, lo svincolo a destra, il fiume Panaro, Reggio nell’Emilia, via dei Gonzaga e ogni sera si tornava a casa. Faceva così da trent’anni, Sacchetti: lavorava all’Unipol dal 1964. Dal giorno in cui uno dei fondatori, Oscar Gaeta, lo aveva chiamato per spiegargli come quel progetto sarebbe diventato l’immagine perfetta di un movimento di cooperatori che avrebbe trasformato il mondo delle assicurazioni in un grande “strumento sociale”. Era quella l’Unipol di Sacchetti: non ancora la compagnia che sarebbe diventata il satellite finanziario pronto a lanciare la sua offerta pubblica di acquisto sulla Banca nazionale del lavoro. Era quello che ancora oggi conoscono tutti: era il bollino con la U scontornata sul parabrezza, era il tagliandino verde delle assicurazioni, era l’unico lato tollerabile del capitalismo ed era il modo migliore per poter coniugare il comunismo con i tempi del futuro. Diceva Gianni Brera che la struttura morfologica di Fausto Coppi sembrava un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta. Sacchetti – che oggi ha 64 anni – stava al mondo delle assicurazioni come Coppi stava alla sua bici, e quella bici la conosce anche meglio di Giovanni Consorte.
E’ vero: Sacchetti era meno sanguigno, meno passionale di Consorte. Sacchetti era quello che ai suoi colleghi diceva di non “considerare necessaria la comunicazione”, quello che controllava le penne in ufficio, quello che aveva in mano i conti della compagnia, quello che a Bologna aveva trasformato l’Unipol nel gigante delle assicurazione prima ancora che quel mondo (nel 2007) finisse quotato in Borsa. Prima che, come dicono a Reggio, arrivassero quei bocconiani che con i vecchi cooperatori non c’entrano granché. Certo, a volte Sacchetti e Consorte sembrano una cosa sola. Quasi un unico soggetto giuridico. Non solo per le accuse identiche ricevute negli anni (aggiotaggio, associazione a delinquere, ricettazione, appropriazione indebita). Non solo per le somme di denaro (anche queste identiche) transitate sui conti correnti. Non solo per la famosa consulenza ricevuta dopo il 2001 (quando furono decisivi per il passaggio di Telecom a Marco Tronchetti Provera). C’è dell’altro, naturalmente, e il filo che lega Consorte e Sacchetti è un filo dentro il quale viaggia tutta la differenza che esiste oggi tra una vocazione alla gestione della cosa pubblica (che era la vecchia idea di Unipol) e la vocazione a essere invece, per quella cosa pubblica, un polo finanziario. In Unipol, prima del 2005, Consorte era il manager fuoriclasse, quello che i giornalisti dovevano chiamare per avere il virgolettato giusto che facesse notizia. Sacchetti era invece quello che si occupava di tutto quello che non si vedeva. Quello che in un giornale, per esempio, verrebbe definito uomo macchina. Quello che, mettendoci magari un po’ meno la faccia e la firma, si trova dietro un computer, e titola, fa il giornale e sceglie cosa è giusto e cosa no. In effetti le cose non potevano che andare così: Consorte era arrivato all’Unipol con una laurea e un master in Economia e finanza e aveva già lavorato alla Montedison prima di arrivare a via Stalingrado. Sacchetti, invece, aveva cominciato da perito assicurativo e aveva lavorato anche come docente all’Istituto tecnico industriale Ipsia (lo stesso dove insegnò Giancarlo Tarquini, il procuratore della Repubblica di Brescia che sul caso Unipol ha interrogato il gip Clementina Forleo; lo stesso che come preside, negli anni di Sacchetti, aveva il dottor Franzoni, papà della signora Flavia Franzoni moglie di Romano Prodi). Poi Sacchetti quando arrivò all’Unipol diventò coordinatore degli uffici sinistri di tutt’Italia (girava da Palermo a Bolzano in roulotte, percorrendo ogni anno circa 150 mila chilometri). In via Stalingrado, fu direttore del personale, direttore commerciale, direttore centrale, direttore generale, ed è lui uno degli uomini che hanno scelto di assumere Consorte. Sacchetti è quello a sinistra perché è quello che viene davvero dall’apparato del partito. E’ quello figlio del partigiano Walter – che diventò l’uomo più potente di Reggio. E’ quello che fu iscritto al Pci, al Pds e infine ai Ds. E’ quello grazie al quale, fino al 2005, al nord non esisteva alcuna festa dell’Unità senza lo striscione verde con i caratteri bianchi dell’Unipol. E’ quello che qualcuno considera come la vera mente della compagnia assicurativa. Come il “vero Cuccia delle cooperative”. Come il simbolo forte, anche perché meno esposto, di quel blocco della finanza rossa, oggi diviso a metà (ieri Mps è uscita dall’universo Unipol), che fino a poco tempo fa riusciva a mettere insieme le forze economiche più sensibili alla sinistra. Unipol, i capitani coraggiosi, Mps. Di Unipol Sacchetti fu vicepresidente; di Mps consigliere; di Gnutti (uno dei “capitani coraggiosi”, definizione di Massimo D’Alema, della scalata Telecom) Sacchetti divenne amico quando Gnutti sedeva nel cda della Banca Agricola Mantovana.
Ora, tre anni dopo l’estate in cui erano i muri di Reggio a raccontare meglio di ogni pezzo di cronaca lo spirito di una città ferita nel cuore del suo motore politico, di Sacchetti si sa poco. Non un’intervista. Non una dichiarazione. Non un’intercettazione degna della prima pagina di un giornale. Persino il giorno delle dimissioni da Unipol Sacchetti ha scelto di nascondere la sua voce. Raccontano che quel giorno Consorte presentò un memoriale di tre pagine. Sacchetti no. Scrisse venti righe e spiegò agli amici che non ce la faceva. Che era distrutto e che non c’erano parole per dirlo. Oggi Sacchetti ha scelto di fare il pensionato. Vive a Reggio, non ha una merchant bank, ha due misteri che proveremo a chiarire e come Consorte crede ancora che Unipol doveva essere la “banca del paese”. Ma ci sono alcuni aspetti di questa storia che dimostrano come forse avesse ragione Nanni Moretti quando cinque anni fa ricordava che il comunismo italiano ha a che fare più con l’Emilia che con l’Urss. Sacchetti, in questo, è l’esempio perfetto. Per tre motivi. E almeno per tre storie che da queste parti considerano incredibili. (1. continua)
Claudio Cerasa
2/7/08