L’ordinanza del tribunale, il diritto di cronaca, la bimba che dice: “Me l’ha detto mamma”, la campagna elettorale
Roma. Dopo settanta giorni di sequestro passati tra interrogatori e magistrati, avvocati e udienze, memorie e collegi, reclami e garanti, la prima sezione del tribunale civile di Roma ha deciso di dissequestrare il mio libro su Rignano Flaminio, con un’ordinanza che arriva nello stesso giorno in cui, dopo la testimonianza di una delle bambine dell’asilo Olga Rovere, gli orchi di Rignano forse sono un po’ meno orchi. Un’ordinanza significativa, questa: perché in sette pagine di motivazioni i giudici hanno spiegato, e forse anche ricordato, perché sia giusto “garantire il diritto di libera manifestazione del pensiero” e perché “l’interesse alla circolazione della stampa ha prevalenza su altri interessi contingenti”. Il libro dissequestrato si chiama “Ho visto l’uomo nero”, l’editore è Castelvecchi, il suo sottotitolo è “l’inchiesta sulla pedofilia a Rignano Flaminio, tra dubbi, sospetti e caccia alle streghe” e queste 170 pagine ricostruiscono giorno per giorno il Sabba di quel paesino a 39 chilometri da Roma, riportano le denunce delle mamme, le testimonianze delle maestre, le memorie degli avvocati, le descrizioni dei bambini spiegando contro quali pareti è andato a scontrarsi il carrozzone del circo mediatico giudiziario, partito il 24 aprile 2007 da Rignano e finito in pochi mesi sulle prime pagine dei giornali e sulle poltroncine delle seconde serate. In questi casi si dice così: solo presunti innocenti, non presunti colpevoli.
Ricordate? Sono passati poco più di dieci mesi dal giorno in cui, in quel paese in provincia di Roma, tre maestre, una bidella, un benzinaio e un autore televisivo venivano arrestati con l’accusa di satanismo, sottrazione di minore, sequestro di persona, atti osceni in luogo pubblico e violenza sessuale su diciannove bambini, di tre e quattro anni. Pedofili, gridavano i giornali. Poi, poche settimane dopo e a sedici giorni dagli arresti, un tribunale del riesame dirà che per gli indagati, pardon, per i “pedofili” non esistono gravi indizi; un famosissimo avvocato arriverà da Cogne a Rignano, passando per Matrix, chiedendo nuovi arresti, la Cassazione spiegherà perché, nell’indagine, “gravi indizi” non esistono; i carabinieri ammetteranno di non aver trovato nessuna prova sui computer e i giornali e i tg, via via, parleranno un po’ meno (sono tutti titoli veri) di “pedofili ogni domenica a messa”, di “bambini drogati dalle maestre” e di “piccole vittime” che “dovevano bere il sangue e fare massaggi alle maestre”. (Cosa che invece non ha mai fatto Carlo Bonini di Rep.). Così, a ottobre, succede che alcuni dei genitori che il 9 luglio del 2006 avevano denunciato per primi i presunti abusi di Rignano, chiedono il sequestro d’urgenza del mio libro, sostenendo che quelle pagine avrebbero agevolato “l’identificazione dei minori coinvolti nelle vicenda” e avrebbero ripercorso il caso in modo “fazioso e offensivo”; libro che sarebbe stato possibile veicolo di “morbosità, pressioni psicologiche, rischi di ulteriori molestie ed atti intimidatori”. Il tutto perché, spiegano i genitori, scrivere il nome di battesimo di un papà o di una mamma, e scrivere l’iniziale del nome di un bambino è sufficiente per violare la privacy del minore. (Anche se quello stesso genitore era andato poche settimane prima a Porta a Porta senza nascondere né nome né cognome). Il 5 dicembre, dunque, con un’elegante formula per non dire “sequestro”, un giudice romano ordina “l’inibizione, la vendita, la distribuzione e la diffusione ulteriore del volume”. Ieri, però, dopo che anche il garante della privacy aveva escluso violazioni della riservatezza dei minori, i giudici del tribunale di Roma hanno spiegato perché – a prescindere dalla materia trattata – il sequestro preventivo di un libro va contro la libertà di stampa. Lo spiegano così, i giudici; scrivendo che nel libro “il trattamento dei dati dei minori presunte vittime di abusi sessuali risulta a ben vedere effettuato nei limiti del diritto di cronaca e in particolare di quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico”, che “l’indicazione del nominativo dei minori mediante la sola iniziale del prenome appaiono adeguati a garantire la reale protezione dei dati personali dei soggetti coinvolti” e che, in casi come questi, va “evitato che la pretesa tutela dei dati personali divenga un facile escamotage per condizionare o comprimere la libertà di stampa”. L’ordinanza del tribunale civile arriva in un momento molto significativo, sia per quanto riguarda il caso Rignano sia per quanto riguarda il tema dei reati di pedofilia. Martedì pomeriggio, infatti, una bambina di cinque anni – una delle testimoni impossibili di un’inchiesta complicata come quella di Rignano, dove per trovare traccia di “gravi indizi” i magistrati sono costretti a interrogare in tribunale bambini di quattro anni – ha detto che “le maestre sono cattive perché dicevano cose brutte ai bambini, e me lo ha detto la mamma e alla mamma l’ha detto un’altra mamma” (riferendosi, la bimba, alla notte prima delle denunce, quando alcuni genitori, come si legge dai verbali, sarebbero “venuti a conoscenza di situazioni gravi”). Il momento è però significativo anche da un altro punto di vista, perché sul terribile reato della pedofilia oggi c’è chi, come Walter Veltroni e Gianfranco Fini, sta costruendo importanti battaglie elettorali. La pedofilia fa notizia e porta pure voti. Perché, come spiegava qualche settimana fa su questo giornale Emily Horowitz, docente di sociologia al St Francis College di New York “queste cause hanno un consenso generalizzato, e appoggiare o promuovere leggi sempre più severe per i colpevoli di reati sessuali fa lievitare i sondaggi”. E naturalmente i sondaggi – così come gli ascolti e così come i lettori – lievitano solo quando sei lì, sulle prime pagine dei giornali o seduto sulle poltroncine in seconda serata a parlare di orchi cattivi e di streghe crudeli, facendo a gara a chi in studio fa tintinnare di più le manette. Legittimamente, si capisce; ma un po’ meno legittimo è invece non ricordare che anche per gli orchi vale quella regola lì: che non ci sono presunti colpevoli ma solo presunti innocenti. E come si è visto a Rignano può sembrare scontato, ma non lo è. Ieri, a modo suo, lo ha ricordato anche un tribunale di Roma.
Claudio Cerasa
21/02/08
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1 commento:
giustizia è fatta.
D'altronde siamo farfalle.
Non c'è spazio per Scafandri.
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