mercoledì 30 aprile 2008

Il Foglio. "L’agenda Panebianco punta ancora sul CaW"

Roma. Qualche giorno fa, Massimo D’Alema l’aveva preventivamente definita come la nuova marea nera del centrodestra; e ora che l’onda lunga del successo ottenuto da Silvio Berlusconi ha travolto anche gli ultimi bastioni forti del Partito democratico, la sensazione che il dialogo tra premier in pectore e nuovo speaker dell’opposizione venga lentamente affogato dall’ebbrezza elettorale sembra esserci davvero. Per ragioni diverse, gli ingranaggi che avrebbero dovuto far scoppiettare presto il nuovo motore del CaW si sono un po’ allentati: Goffredo Bettini (con il suo modello Roma e con Veltroni) è uscito malconcio dalle elezioni più importanti (Campidoglio e Palazzo Chigi); e l’altra metà del CaW, Gianni Letta, tra un’intervista, un retroscena e qualche battutina maliziosa lasciata cadere qua e là, rischia di non avere più le stesse chiavi diplomatiche che aveva un tempo. Dunque tutto finito e dunque addio dialogo, addio CaW e addio nuove rivoluzionarie stagioni costituenti? No, probabilmente. Angelo Panebianco – politologo, editorialista del Corriere della Sera – dice al Foglio che, invece, il dialogo tra Veltroni e Berlusconi sarà uno dei temi di cui la prossima legislatura non potrà prescindere. Il CaW, secondo Panebianco, respira sì con un po’ di affanno ma potrebbe essere più vivo che mai. “A mio avviso, l’intuizione che aveva avuto Berlusconi del ‘non posso governare contro tutti perché sennò mi ritrovo nella situazione del 2001’ vale anche adesso. Certo, alcune delle condizioni del dialogo oggi sembrano essere venute meno: l’indebolimento di Veltroni è molto forte, ci sarà un grosso controllo sulla sua azione da parte del suo partito e il tentativo di spingere il Pd a riaprire verso la sinistra è un ostacolo di una certa importanza. Dall’altra parte, la sensazione rovinosa che il centrodestra sia convinto che la sua forza sia tale da non avere più bisogno del dialogo potrebbe esserci e sarebbe un errore clamoroso. Il centrodestra ha bisogno di costruire un rapporto con il sindacato e l’idea che sia possibile farlo da soli è sbagliata. Detto questo, io non credo che Berlusconi si sia rimangiato le parole che aveva detto qualche tempo fa”. Pronto al dialogo sulle riforme, aveva detto il CaW. “E’ vero, è possibile che nella sua maggioranza l’ubriacatura da risultato elettorale ci sia; ma i segnali che ha dato finora – anche con una sua campagna molto centrista – sono stati contrari. Va detto che non c’è oggi possibilità di discutere con l’opposizione senza che ci sia un Tremonti catalizzatore del dialogo; ma a prescindere dagli intermediari, in qualunque rapporto di questo tipo al centro del tavolo ci dovranno essere Berlusconi e Veltroni”.
Ieri mattina, il segretario del Pd ha già dato un piccolo strattone al mantello impolverato del CaW (“Finora – ha detto W. – non c’è stato nessun dialogo da centrodestra”). E prendendo spunto dalla prime ore di nuova legislatura, Panebianco dice che il leader del Pd è ancora il ponte di dialogo giusto per Berlusconi. Così, se Francesco Giavazzi aveva declinato una sua agenda economica, anche Panebianco oggi ne ha una sua. L’agenda CaW. “Proprio perché Berlusconi è forte dovrebbe interessarsi a non umiliare l’opposizione e a cercare ogni elemento di dialogo. Berlusconi ha sempre avuto una grande potenza elettorale e una forte debolezza istituzionale; e passati i cento giorni di luna di miele arriverà la dura opposizione organizzata della società. Dunque, senza Veltroni, Berlusconi avrà difficoltà a riformare politica estera e giustizia; a riscrivere la legge elettorale, a dialogare sul welfare, a rivoluzionare la pubblica amministrazione e a prevenire l’onda d’urto delle corporazioni che verranno colpite dal governo e a capo delle quali ci sarà presto l’opposizione”. Ma, secondo Panebianco, il filo del dialogo non si spezza solo se nel Pd rimane Veltroni. “Dal clima costituente, Veltroni potrebbe avere la possibilità di ridisegnare le regole del gioco, mantenendo l’immagine di forza moderata che ha costruito con la sua buona campagna elettorale e candidarsi per la volta successiva a fare quello che non è riuscito a fare questa volta, sfondare al centro. Il Pd non ci guadagnerà nulla delegittimando il segretario; e per questo, se i due leader non riusciranno a dialogare ci perderà la sinistra, perché quella di questo Pd è l’unica linea plausibile nel lungo periodo; ma ci perderà anche Berlusconi, perché non avrà più una sponda con cui fare le cose che si devono fare nel nostro paese”. Si potrebbe cominciare dalla sicurezza, conclude Panebianco; e visti i segnali arrivati ieri e viste le proposte di dialogo arrivate da sinistra dal veltroniano Achille Serra (ex prefetto di Roma e deputato di Forza Italia nella tredicesima legislatura) chissà non sia proprio questa la strada giusta da cui partire.
Claudio Cerasa
30/04/08

martedì 29 aprile 2008

Il Foglio. "Sul palco della sconfitta. Rutelli e Bettini. Così la sinistra ha scoperto di aver perso 100 mila voti nella nuova pancia di Roma"

Roma. Il resto è tutto un dettaglio: Zingaretti che vince negli stessi collegi che Rutelli invece ha perso; la sinistra della capitale che sceglie di togliere lo scettro del potere romano a chi l’aveva custodito negli ultimi quindici anni; il voto utile che nel suo volto locale si trasforma in un boomerang impossibile da evitare; e il Partito democratico che si chiude silenzioso nel suo fortino oggi ancora più assediato di due giorni fa. Il senso della sconfitta di Francesco Rutelli è però tutto lì: è tutto in quell’immagine alla fine del pomeriggio e in quegli occhi che si incrociano sul tappeto blu della sala stampa rutelliana. Francesco Rutelli, il modello Roma, i sette punti di distacco e l’abbraccio che si legge in uno sguardo con gli occhi affaticati di Goffredo Bettini. Tutti sul palco, a Roma stavolta si perde insieme. Rutelli esce frastornato dalle sue stanze alle diciotto e dieci minuti; stringe un paio di mani, ascolta qualche applauso, attraversa in un soffio un lungo cordone fatto di elettori, curiosi e giornalisti; e portando con sé lo staff che nelle ultime settimane aveva provato con lui a preservare l’ultimo serbatoio forte del Partito democratico, eccolo lì, salire sul palco seguito un istante dopo dall’inventore del modello Roma. Arrivano le prime proiezioni, arrivano i primi seggi scrutinati, le poltroncine del comitato sono ancora un po’ vuote ma già dal primo pomeriggio, pochi minuti dopo gli ultimi dati sui voti della provincia, era ormai chiaro che la dolce sconfitta di Rutelli era un po’ meno dolce di come il Partito democratico aveva provato a immaginarla qualche ora prima. L’ex sindaco di Roma fino a ieri aveva cinque punti in più di Alemanno e alle sedici e trenta di ieri ne aveva invece quasi sette in meno. Lo ammette subito, Rutelli; dice che il suo dovere lui comunque l’ha fatto; dice che la sconfitta oggi è più amara che mai; dice di credere ancora nelle energie importanti che il Partito democratico riuscirà a mettere in campo; dice che il Pd a Roma sarà in grado di guardare a poco a poco al proprio futuro e in quel momento, con un po’ di fiatone, con un po’ di ritardo accanto a Rutelli, Paolo Gentiloni, Roberto Giachetti, Renzo Lusetti decide di condividere lo schiaffo elettorale anche l’uomo che più degli altri aveva creduto in Rutelli, Bettini. E così, due settimane dopo essersi stretto accanto al candidato premier Veltroni, l’architetto del modello Roma era lì ad abbracciare il candidato sindaco: sconfitto proprio in quella capitale che per quindici anni aveva indossato l’abito risorgimentale dell’inventore degli ultimi anni di politica romana. Tutti sul palco, oggi più che due settimane fa. Perché nel giorno in cui la pancia elettorale della capitale ha dato a Rutelli sette punti di distacco nell’immagine di questa sconfitta c’è tutto: Veltroni, Bettini, Roma, Prodi, il Pd. Si perde, si va sotto di sette punti, il cuore rosso di Roma finisce nelle mani di Gianni Alemanno, Rutelli perde 97 mila voti rispetto alle elezioni di due settimane fa. Ma se si perde si perde insieme stavolta. E forse aveva ragione Ermete Realacci quando, pronosticando i possibili esiti di una disfatta, diceva, qualche giorno fa, che un’eventuale sconfitta di Rutelli “spargerebbe altro sale sulle ferite, senza cambiare i fondamentali del voto alle politiche”. Fatto sta che la Roma un po’ repubblicana e un po’ risorgimentale si sveglia oggi schiaffeggiata dal voto più popolare e di pancia che Roma abbia mai avuto negli ultimi anni. Certo, Rutelli era amreggiato, non aveva l’animo di citare il preferito di Bettini, Woody Allen (“Sono stato picchiato, ma mi sono difeso bene. A uno di quelli gli ho rotto la mano: mi ci è voluta tutta la faccia, ma ce l’ho fatta”). Ma ora che Roma è rimasta senza il suo modello chissà che l’unico modo per eleborare la sconfitta questa volta sia quello di capire davvero il senso del successo altrui.
(segue dalla prima pagina) E’ vero: a Roma si sorride pure al comitato elettorale: perché i cronisti fanno presto a innamorarsi di un sindaco nuovo e fanno presto a dire che in fondo Alemanno sarà un sindaco migliore perché almeno i portavoce rispondono ogni tanto al telefono. Perché, certo, si sorride e si ironizza sulla sfortunata collocazione del comitato elettorale (tra sede della croce rossa e famosa agenzia di viaggio) e qualcuno sbuffa pensando a chi recentemente aveva profetizzato, da sinistra, una marea nera e una serie di interminabili weekend elettorali per il Pd. Yes, weekend. Ma nelle stanzette del comitato di Rutelli si soffre tantissimo, c’è una ragazza con gli occhi azzurri che piange, un giovane dalemiano che ironizza sugli ottimi risultati ottenuti dal Pd a Nettuno, un piccolo rutelliano convinto che dieci anni fa l’elettore che non si presentava al ballottaggio era di destra e oggi invece è di sinistra. C’è chi è convinto che sarà difficile per W. ripetere a Roma quello che aveva detto due giorni dopo la prima sconfitta della nuova stagione (“Ha pesato il giudizio sul governo”). Nella sconfitta romana basta guardarsi intorno però per capire che c’è un po’ di Prodi, un po’ di Rutelli, un po’ di Veltroni, un po’ di modello Roma. La candidata vice sindaco Patrizia Sentinelli dice che se a Roma la sinistra ha perso il sindaco uscente qualche responsabilità ce l’ha. Nel giorno in cui il modello Roma perde la sua città, per la prima volta la sinistra, più che comprendere le sfumature di una sconfitta, chiede disperatamente tempo per capire le ragioni di una vittoria nemica che arriva dal popolo, dalla pancia della città.
Claudio Cerasa
29/04/08

sabato 26 aprile 2008

Il Foglio. "Aspettando Roma, in Sicilia il Pd ha già la sua prima resa dei conti"

Attorno all’irresistibile potere chiodato che il governatore Raffaele Lombardo insedierà lunedì prossimo nella sede della regione siciliana, la resa dei conti nel Partito democratico è cominciata con un certo anticipo rispetto al resto del paese e, come spesso capita da queste parti, la Sicilia potrebbe anticipare gli effetti nazionali che l’eventuale sconfitta di Rutelli porterebbe nelle stanze romane del loft. Al di là dello Stretto non c’è stato nessun ballottaggio, non ci sono stati risultati in bilico e non c’è stato neppure lo spazio di una seconda tranche elettorale per posticipare gli effetti del ceffone incassato alle urne. Tra Palermo e Catania, il tappo che avrebbe dovuto arginare lo smarrimento del partito è saltato subito: il Pd ha reagito molto male, i dirigenti non hanno neppure organizzato una vera riunione per discutere del fallimento isolano e la prima a finire sotto processo è stata naturalmente Anna Finocchiaro (candidata alla presidenza della regione). Così, oggi c’è chi chiede di commissariare i vertici dell’isola, chi un’autocritica del loft, chi di rivoluzionare il progetto del Pd e persino le pagine locali della Repubblica non sono comprensive di fronte ai numeri del partito di Veltroni. In Sicilia, il Pd è andato tutt’altro che bene: il cartello di centrosinistra ha ottenuto 35 punti in meno rispetto al Pdl e, prendendo in considerazione la somma dei voti ottenuti da Ds e Margherita nelle penultime elezioni, il Pd ha perso il 7 per cento. Dunque, un mezzo disastro; e se si va ad affiancare a questo dato il margine complessivo con cui il Pdl ha staccato al sud il Pd (14 punti) si capisce perché al loft siano in molti a credere che con questi numeri prima di aprire l’ombrello del Pd al nord sarebbe meglio dare uno sguardo al nubifragio del sud. Certo, le radici del pasticcio siciliano vanno ricercate anche nello scarso peso che gli uomini forti del Pd sono riusciti a dare al partito isolano (oggi, tra l’altro, il Pd in Sicilia non ha ancora una sede) e sarebbe ingiusto attribuire tutte le colpe ad Anna Finocchiaro. Ma, così dicono anche alcuni dirigenti palermitani del Pd, il fatto è che ci sono parecchi aspetti della sconfitta che non vanno trascurati e che faranno riflettere anche quegli uomini di Veltroni piovuti dal nord (Causi, Martino, Carra, Bernardini, Levi) che hanno partecipato attivamente al crollo meridionale del Pd e che hanno visto clamorosamente risorgere il vero vincitore delle elezioni siciliane: quel Totò Cuffaro che ha portato l’Udc al 9,6 per cento delle preferenze regionali. Non c’è dubbio che aver catapultato dal loft un numero così elevato di candidati democrat – che la politica siciliana l’hanno conosciuta (e male) solo nelle settimane di campagna elettorale – non ha aiutato il Pd a sfondare nelle città più importanti dell’isola. Ma nelle elezioni che hanno dato una spallata alla costruzione propagandistica di una vecchia mitologia antimafia, è un fatto che nel Pd (e nei suoi apparentamenti) non hanno sfondato né i contenuti elettorali del capolista Giuseppe Lumia (ex presidente della commissione antimafia) né quelli dell’Italia dei valori di Antonio Di Pietro e Leoluca Orlando. Così, la candidatura di Lumia è finita sotto processo come quella di Anna Finocchiaro, l’Idv orlandiana ha preso 19 mila voti in meno rispetto al 2006. Forse perché la faccia nuova dell’antimafia sicula si identifica sempre più in Ivan Lo Bello, presidente della Confindustria siciliana e dal prossimo 29 aprile successore di Salvatore Mancuso al Banco di Sicilia.
E’ vero: in alcune città il Pd è persino cresciuto considerando le vecchie somme di Margherita e Ds (a Palermo, 6 punti). Ma un misero 20 per cento non può essere una scialuppa sufficiente per parlare di sconfitta onorevole. Anche per questo, i più brontoloni tra i democrat siciliani contestano ora ad Anna Finocchiaro sia una scarsa percezione esterna del suo radicamento nel territorio sia la scelta di optare per un seggio al Senato piuttosto che guidare la rimonta del Pd siciliano da capo dell’opposizione a Palazzo d’Orleans, cuore politico della regione. Pochi mesi fa, in effetti, era stata proprio la dirigente Pd a dire che in Sicilia avrebbe avuto “intenzione di restarci”. Solo che un conto è farlo a Palazzo d’Orleans, un altro è farlo da Palazzo Madama. Il discorso fatto per il Pd riguarda però anche quel che rimane della vecchia guardia del Popolo della liberta siciliano. Le geometrie tra Pdl e Mpa sono in fondo molto simili a quelle che legano al nord il Cav. e la Lega. Con la differenza che se il tentativo leghista di spostare a proprio favore il baricentro politico settentrionale è ancora un tentativo, in Sicilia, invece, per l’Mpa è un dato di fatto. Dopodomani si insedierà Lombardo e il nuovo presidente della Regione non sembra voler cedere molto potere al Pdl. Anche se il Pdl in termini di voti ha stravinto, resta una questione di equilibri. Saranno molti gli esclusi dalla nuova giunta ed è facile prevedere che gli esclusi prima o poi cominceranno ad agitarsi un po’. Già dalla prossima settimana – già si sentono i primi malumori – gli insoddisfatti di Forza Italia presenteranno il conto al coordinatore del partito, Angelino Alfano. Al quale molti riproverano di non aver avuto sufficiente coraggio quando gli si offrì la possibilità di candidarsi alla successione di Cuffaro (lo avrebbero sostenuto incondizionatamente tutti i partiti di centrodestra, a partire da Totò). Oggi invece, a conti fatti, il Pdl si ritrova a Palazzo d’Orleans con un alleato scomodo che non intende cedere un centimetro del suo irresistibile potere chiodato.
Claudio Cerasa
26/04/08

venerdì 25 aprile 2008

Il Foglio. "WalterPop inquieti"

Prodi resti presidente del Pd, dicono i cattoveltroniani impensieriti da D’Alema e Marini

Roma. Capita che dopo un lungo periodo di freddezza elettorale, Massimo D’Alema sia tornato a corteggiare Franco Marini; capita che Walter Veltroni e Dario Franceschini se ne siano accorti con una certa preoccupazione; e capita che martedì scorso il segretario del Partito democratico abbia spiegato a Giuseppe Fioroni quale sia il modo migliore per evitare che il nuovo asse tra il ministro degli Esteri uscente e il presidente del Senato uscente vada a indebolire l’attuale leadership della nuova stagione.
Marini, Fioroni e Franceschini sono ormai da mesi i principali azionisti di maggioranza del loft e il segretario del Pd sa perfettamente che la solidità della sua leadership dipenderà anche dall’appoggio che l’affluente cattolico del Pd riuscirà a garantire nei prossimi mesi. Non è un caso, difatti, che l’investitura di Veltroni, a giugno, sia arrivata proprio grazie alle convergenze parallele dei tre popolari; non è un mistero che negli ultimi mesi siano stati soprattutto Marini, Fioroni e Franceschini a scortare Veltroni in tutte le centodieci province visitate in campagna elettorale; e non c’è dubbio che saranno ancora loro i primi a soccorrere il segretario se la pellaccia del Partito democratico uscirà mortificata anche dai ballottaggi romani. Ora però arriva il periodo delle nomine anche per il Pd: per la prima volta dalle elezioni in un modo o in un altro gli equilibri su cui si poggia il loft verranno allo scoperto e, se i cattolici scenderanno in campo meno compatti che un tempo, W. potrebbe cominciare a preoccuparsi. “Tutto – racconta un senatore del Pd che non vuole essere citato – dipende proprio dal nuovo asse tra Marini e D’Alema”.
Da qui a maggio, il Pd dovrà scegliere i nomi dei due capigruppo alla Camera e al Senato, dei dodici ministri dello shadow cabinet e dei nuovi membri dell’ufficio politico. Il momento chiave per comprendere il gioco delle correnti del loft sarà quando l’assemblea costituente del Pd nominerà il presidente del partito. Romano Prodi si è dimesso una settimana fa e, pochi giorni dopo la lettera resa nota dal presidente del Consiglio, D’Alema ha lanciato alla presidenza Marini con le stesse parole che lo scorso giugno aveva usato Franceschini per proporre, con successo, Veltroni alla segreteria del Pd. “Se Marini si candida io lo voto”, ha detto D’Alema. Marini non ama mai scoprire le carte prima del dovuto e ieri ha detto di essere ormai troppo vecchio per certe cose. Al loft però a queste parole ci credono poco e sanno che il ruolo di Marini sarà decisivo. Beppe Fioroni e Walter Veltroni tre giorni fa hanno parlato di questo.
Per evitare di mettere il Pd sotto una possibile tutela marinian-dalemiana, mai come in questi giorni Franceschini e Fioroni sono stati così vicini al segretario del Pd e così lontani da quell’asse che Marini e D’Alema avevano già cominciato a costruire dieci anni fa. All’epoca c’era in ballo il passaggio alla fase due del governo Prodi. Oggi, invece, ci si gioca la fase due della nuova stagione. Ma non c’è solo questo, naturalmente: nella vocazione maggioritaria del Pd, fatta minoritaria dalle elezioni, sono molti gli uomini che cercheranno di evitare il fallimento dello sfondamento al centro del partito. Come ripete da mesi il ministro Fioroni, “ai cattolici non basta una stanza nel Partito democratico”. E’ anche per questo che nel mettere a punto gli ingranaggi che presto faranno partire il dialogo tra il Cav. e W, Fioroni e Franceschini sanno che il sistema elettorale su cui il Pd dovrà puntare sarà quello francese. Non quello tedesco (che comprenderebbe il rafforzamento dell’Udc), a cui da tempo sono invece affezionati D’Alema e Marini.
Dunque, di cosa hanno parlato Veltroni e Fioroni? Di questo. Il segretario e il ministro uscente non vogliono Marini come prossimo presidente del Pd: troppi popolari nei ruoli chiave del partito comporterebbero eccessive contropartite da offrire agli ex Ds; un uomo di peso come Marini alla presidenza del Pd toglierebbe inoltre capacità d’azione al vice Franceschini; e con il tempo il rischio di creare nel Pd un commissariamento del segretario – simile a quello già visto nella Margherita negli ultimi anni con Rutelli – sarebbe reale. Per questo, martedì il segretario del Pd ha spiegato a Fioroni il suo piano: un profilo soft per la presidenza del Pd e un incarico che tra cinque anni potrebbe avere come prosieguo naturale una possibile candidatura per la presidenza della Repubblica (carica a cui anche Marini aspirerebbe nel futuro). Veltroni ha così fatto il nome di Prodi. Franceschini e Fioroni hanno detto di sì e l’ex premier, che tra l’altro giovedì ha detto che non si presenterà come candidato sindaco di Bologna, sta pensando di fare marcia indietro.
Claudio Cerasa
25/04/08

mercoledì 23 aprile 2008

Il Foglio. "Le truppe di W in parlamento. Veltroni ha molti eletti. Poi ci sono i WalterPop. Però D’Alema... Le vere correnti del loft"

Roma. Si potrebbe anche riassumere così: 65 Veltroni; 62 Franceschini, Marini, Fioroni; 38 D’Alema; 17 Fassino; 17 Rutelli; 14 Prodi; 12 Letta; 5 VeltronianPopolari (WalterPop); 4 Bindi; 4 Teodem; 3 Soru; 3 Bassolino. Gli altri tutti indipendenti o comunque difficilmente collocabili.
Passeranno appena ventiquattro ore dai ballottaggi che domenica e lunedì metteranno ai voti i quindici anni di modello Roma e giusto a pochi metri dal Campidoglio le truppe della nuova stagione di Walter Veltroni si andranno a disporre per la prima volta nelle due Camere del Parlamento. Ci saranno popolari, dalemiani, fassiniani, prodiani, rutelliani e tantissimi veltroniani a rappresentare la vocazione maggioritaria del Pd alla Camera e al Senato, fatta minoritaria. Veltroni ovviamente avrà maggiori possibilità di sopravvivere se il modello Roma sopravviverà, ma anche la conta dei suoi, degli amici e dei nemici tra i parlamentari una sua importanza ce l’avrà. Magari non si chiameranno correnti, magari W potrà continuare a rivendicare la sua estraneità a qualsiasi tipo di sfumatura correntizia (“Vorrei che sia scritto sulla mia lapide: non ha mai partecipato a una corrente”); sta di fatto che oggi i veltroniani di nuovo e vecchio conio esistono, sono tanti, sono più dei popolari, più dei dalemiani, più dei rutelliani, più dei fassiniani e nella geografia del prossimo Parlamento saranno loro a scortare alla Camera e al Senato la leadership di W. Veltroni aveva consegnato proprio a questo giornale il tentativo di escludere dalle future geometrie del suo partito qualsiasi richiamo a tessere, sezioni e correnti (“Non mi piace un tipo di leadership esclusiva, né una struttura correntizia di tipo italiano: quella fatta da gente per la quale nella politica conta ‘quanti dei miei ci stanno in questo o in quel consiglio regionale o nel cda di non so che cosa”). Ma a soli sei mesi dalle primarie, martedì mattina a Palazzo Madama e a Montecitorio le truppe del segretario saranno ancora caratterizzate dalle storie personali vissute nei Ds e nella Margherita. Così, andando a studiare le simpatie e i legami politici di ciascuno dei 209 democratici eletti alla Camera e dei 122 eletti al Senato sembra chiaro che in questa legislatura i due azionisti di maggioranza del Pd, veltroniani e popolari, con circa 132 parlamentari, saranno quelli che verranno meglio rappresentati tra Montecitorio e Palazzo Madama. Scendendo nel dettaglio, i veltroniani puri saranno 65 (43 alla Camera, 22 al Senato), gli ex Popolari 62 (43 alla Camera, 19 al Senato) e quei parlamentari la cui collocazione politica si trova oggi a metà strada esatta tra W e gli ex popolari saranno 5 (Picierno, Bratti, Bindelli, Garavaglia, Armato) e andranno a portare ossigeno ai custodi del patto stretto lo scorso giugno tra Veltroni, Franceschini e Marini (quelli che al loft chiamano WalterPop).
Dunque, a parte una quota decisamente alta di eletti che hanno lo stesso nome del segretario del Pd (Walter Vitali, Walter Verini, Walter Tocci), l’ex sindaco di Roma vedrà arrivare in Parlamento un numero significativo di fedelissimi che hanno lavorato con lui in Campidoglio negli ultimi anni: Morassaut, Coscia, Causi e Argentin erano assessori di W; Garavaglia era la sua vice; Verini era capo di Gabinetto; Cosentino è stato a lungo capogruppo dei Ds al consiglio comunale; e volendo, tra i senatori eletti nell’Italia dei valori c’è anche Leonard Touadi, ex assessore di W.

Ricordate la lettera dei sessanta?
Certo, tra i veltroniani di nuovo conio ci sono anche gran parte delle 102 matricole elette per la prima volta in Parlamento con il Pd, ma tra deputati e senatori che andranno a occupare i seggi al Senato e alla Camera ce ne saranno molti già nominati da W in alcuni punti chiave del loft: Merloni, Mogherini, Mosca, Orlando, Della Seta, Pinotti, Realacci, Pistelli, Calipari, Tonini sono membri dell’esecutivo del Pd e il futuro onorevole Vinicio Peluffo è capo della segreteria politica del segretario. Un discorso diverso è invece quello che va fatto per i popolari, perché se è vero che in proporzione le due arterie principali del loft come numeri si equivalgono (65 veltroniani, 62 popolari), e se è vero che anche Franceschini è riuscito a portare alla Camera due suoi fedelissimi come Piero Martino (ex portavoce) e Alberto Losacco (capo della segreteria politica), l’origine dei parlamentari che si riconoscono nell’elettorato cattolico – e che in un modo o in un altro fanno ancora capo al possibile futuro presidente del Pd, Franco Marini – ha una matrice forte nella famosa lettera firmata da 60 parlamentari cattolici nel febbraio del 2007: “La laicità del nostro impegno politico”. Di quei firmatari circa 34 saranno in Parlamento. E le altre correnti? Ecco, i due segretari dei partiti fondatori del Pd, Fassino e Rutelli, vedranno arrivare nelle due camere un numero complessivo di circa 34 parlamentari (10 deputati e 7 senatori l’ex segretario Ds, 7 deputati e 10 senatori il candidato sindaco di Roma) che nel corso dei mesi potrebbero andare a rinforzare proprio l’asse dei WalterPop. Dall’altra parte, invece, è un fatto che tra gli eletti che il Pd porterà in Parlamento tra sette giorni la terza forza in campo è quella che ha radici solide nell’ortodossia dalemiana. Che a Palazzo Madama sarà rappresentata da almeno 11 senatori e che a Montecitorio porterà circa 27 deputati (di cui 5 molto vicini a Pierluigi Bersani). Una forza che oggi marcia unita e compatta attorno al proprio segretario ma che tra qualche giorno potrebbe cominciare a esercitare il proprio peso legislativo anche in maniera più decisa; molto dipenderà dal risultato che Rutelli e Zingaretti otterranno nei prossimi ballottaggi romani, certo è che quella che da martedì prossimo sarà la prima vera corrente di Veltroni di questi numeri potrebbe davvero cominciare a tenerne conto.
Claudio Cerasa
24/04/08

domenica 20 aprile 2008

Il Foglio. "Ostaggi in Iraq, ostaggi delle procure"

A Bari un pm rincorre il mito del bodyguard mercenario e mascalzone. Dimenticandosi delle medaglie al valore (e di Quattrocchi) si incaponisce contro Stefio. E contro chi ha rischiato la vita per sicurezza e pagnotta
Salvatore Stefio è quello a sinistra con la magliettina bianca, le gambe incrociate, il passaporto tra le mani, la pistola delle Brigate Verdi di Maometto puntata per cinquantasei giorni sulla testa e una prigionia finita con due proiettili di piccolo calibro esplosi tra gli occhi bendati del suo collega Fabrizio Quattrocchi. Quattro anni dopo il sequestro iracheno dei bodyguard italiani, rapiti nel disprezzo borioso degli sconclusionati custodi dell’internazionalismo pacifista (oggi per fortuna rimasti dietro le porte dal Parlamento), quattro anni dopo l’esecuzione di Fabrizio Quattrocchi c’è una procura della Repubblica, a Bari, che ha deciso di rincorrere in un’aula di tribunale il mito del mercenario invasore e mascalzone. Venerdì mattina Salvatore Stefio e il suo collaboratore Giampiero Spinelli sono stati rinviati a giudizio con un capo di imputazione che in mezzo secolo di Repubblica, prima d’oggi, non aveva mai superato la fase delle indagini preliminari (“arruolamenti o armamenti non autorizzati a servizio di uno stato estero”). Un capo di imputazione che significa articolo 288 del codice di procedura penale; che significa “fiancheggiamento dei militari stranieri”; e che significa “reclutamento in territorio iracheno in favore dello straniero e in cambio di un corrispettivo economico”. La procura di Bari (che nel 2004, definendo quei bodygard “fiancheggiatori delle forze della coalizione” aveva detto che “questo spiega, se non giustifica, l’atteggiamento dei sequestratori nei loro confronti”, prima di vedersi spernacchiata da un saggio Tribunale del riesame) oggi con sfumature non distanti da quelle adottate qualche tempo fa da Oliviero Diliberto (che aveva definito Stefio, Quattrocchi, Agliana e Cupertino “mercenari”) vorrebbe far scivolare su carta bollata una differenza sottile sottile; quella che potrebbe esistere tra una guardia del corpo (che in territorio di guerra scorta la vita di chi prova a fertilizzare il terreno della pace) e un cittadino che invece viene onestamente pagato per combattere al fronte. L’incaponimento dei magistrati di Bari, però, più che un processo a Stefio o a Spinelli sembra voler mettere in discussione la legittimità stessa dell’esistenza di un bodyguard o di un contractor in una zona di guerra. Il processo al contractor è un’idea che rischia di correre sulla stessa corsia di chi ieri definiva i terroristi resistenti e di chi oggi vorrebbe invece dimostrare che l’americano in Iraq è solo un maledetto invasore; e che chiunque porti ossigeno alla sua missione, e chiunque garantisca anche indirettamente la sua sicurezza, è un mezzo criminale che non può che legittimare ogni difesa della “resistenza”. Non è certo un mistero che in quei mesi del 2004 il governo provvisorio iracheno aveva chiesto che ogni azienda appaltatrice provvedesse alla tutela dei propri uomini anche con servizi di bodyguard (Stefio scortò in Iraq anche l’ambasciatore italiano Gianludovico De Martino); non è certo un mistero che sia stato lo stesso governo Prodi ad aver dedicato un capitolo di bilancio ai contractor nelle missioni di pace (nell’ultima Finanziaria sono stati stanziati circa 3,5 milioni di euro); e non è un mistero che l’Italia non solo partecipa ancora oggi al progetto internazionale di ricostruzione dell’Iraq ma che dell’International reconstruction fund for Iraq è per di più copresidente. “Con un’ipotesi di reato come questa – dice al Foglio Alfredo Mantovano, senatore del Pdl – è quasi come se si volesse affermare che il cittadino che viene pagato per lavorare in territorio di guerra commette un alto tradimento. La logica sembra essere quella che vuole negare la ricostruzione di un paese come l’Iraq in condizioni di sicurezza. Ragionando per assurdo si potrebbe arrivare al passo successivo, dire che sia più o meno un reato lavorare in Iraq vicino agli americani”. E sempre ragionando per assurdo verrebbe da dire che se a Quattrocchi è stata assegnata la medaglia d’oro al valor civile (“vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l’Italia”) oggi invece c’è una procura pronta a dimostrare che guadagnarsi onestamente la pagnotta come facevano Quattrocchi, Stefio, Agliana e Cupertino semplicemente non si può fare.
Claudio Cerasa
20/04/08

venerdì 18 aprile 2008

Il Foglio. "Caw, regia di Goffredo Bettini. L’architetto del loft svela il codice in comune con Letta e le prossime mosse di W"

Hanno continuato a stuzzicarsi anche ieri sulle presidenze delle Camere, sulla nomina del commissario europeo e sul possibile sostegno dell’Udc per la corsa al Campidoglio. Silvio Berlusconi e Walter Veltroni faranno a spallate in pubblico ancora un po’, ma già da qualche giorno nel motore silenzioso del CaW gli ingranaggi diplomatici hanno ricominciato a funzionare con una certa efficienza. W ha chiesto a Goffredo Bettini di rimettere insieme i fili della vocazione maggioritaria della nuova stagione; e già da martedì il coordinatore della fase costituente del Pd è tornato a ridisegnare il perimetro del CaW con la metà diplomatica del Cav, Gianni Letta. Parlando con il Foglio dell’evoluzione possibile del Pd, del dialogo con Casini, dei nuovi volti della nuova stagione, del suo rapporto con Letta e delle ragioni che hanno portato alla vittoria di Berlusconi, Bettini entra nel cuore della teoria del doppio colpo in canna (da lui teorizzata) e spiega da dove ripartirà il dialogo con il prossimo presidente del Consiglio. “La vera questione – dice Bettini – è quella che riguarda le riforme istituzionali e il cammino comune sulle regole del gioco: riduzione dei parlamentari, costi della politica, poteri del primo ministro e riforma elettorale. Sulla riforma avevamo raggiunto quasi un accordo in Parlamento e anche con Berlusconi. Si potrebbe ripartire da lì. Se poi ci dovessero essere ulteriori passi in avanti in direzione del modello francese, per noi va benissimo. Il nostro modello di riferimento è questo. E’ il francese. Ed è un modello che a mio avviso unisce il Pd”. Bettini, smentendo che ci possa essere stato un incontro tra il Cav e W (semmai potrebbero essersi incrociati martedì al compleanno di Gianni Letta), conferma che per far ripartire il motore del CaW servirebbe un segnale. “In questo caso è il vincitore che deve dare per primo un segnale politico. Per esempio si potrebbe partire dalla nomina del Commissario europeo: D’Alema, Bonino e Fassino sono dei nomi ottimi. Detto questo, a proposito di futuro del Pd, io prevedo che Walter guidi il partito per tantissimi anni e che continui a portare nel Pd lo stesso sforzo di innovazione programmatica che ha avuto, per esempio, Tony Blair. Ma oggi nel Pd è importante capire una cosa: dobbiamo imparare a fare squadra. Tutte le grandi classi dirigenti erano squadre. Anche nella vecchia Dc e nel Pci tutti avrebbero potuto fare i primi. Ecco: qualcuno mi vuole dimostrare che il non essere stato segretario di partito ha offuscato il ruolo di Ingrao, Amendola o Bufalini? Per carità! Invece di preoccuparsi di fare i primi oggi – sorride Bettini – bisognerebbe preoccuparsi di produrre qualcosa che resti. Io credo che nel Pd ci siano grandi dirigenti che avranno un’influenza molto forte anche al di là dei posti che occupano e che verranno evidentemente utilizzati anche nelle posizioni di prestigio che dall’opposizione potremmo avere. Ma non è essenziale il problema dei posti. Per questo, credo che il Pd, per crescere ancora, dovrà avere un organismo di direzione collegiale. Una direzione politica. Una sede con 50 persone che possa diventare un vero organismo di indirizzo politico”. Bettini fa anche qualche nome interessante.

Bettini vedrebbe bene nel futuro del Pd, per esempio, un Nichi Vendola e un Pier Ferdinando Casini? “Beh, io dico che pur seguendo lo sviluppo della discussione negli altri partiti, nel Partito democratico un grande spazio per la sinistra più radicale è semplicemente ‘naturale’, come succede in tutti i partiti alternativi alla destra nelle democrazie occidentali. E lo stesso discorso vale per Casini. La cosa sbagliata, in questo momento, sarebbe però precipitare in manovre politiche frettolose che non sarebbero comprese né dall’elettorato dell’Udc né dagli elettori che hanno votato Pd. A mio avviso, la cosa comunque più probabile è che il leader dell’Udc raccoglierà con l’opposizione una serie di forze deluse dal governo di Berlusconi consolidando così la sua performance elettorale e arrivando a un partito del 7 per cento o dell’8 per cento con il quale dovranno fare i conti tutti. Compresi noi”. E se Casini un giorno decidesse di aprire al Pd? “Andrebbe verificata la convergenza sui contenuti e sui programmi. Ma figuriamoci! Mai dire mai”. Tornando sulle ragioni che hanno portato il Pd a crescere rispetto ai voti totalizzati da Ds e Margherita alle ultime elezioni ma non abbastanza da vincere, Bettini fa questo ragionamento: “Io voglio dire che abbiamo fatto come partito un risultato forte. Insediare nella società italiana la più grande forza riformista che sia mai esistita è un’operazione storica. In Italia, si sa, il riformismo ha navigato per diversi rivoli. Noi invece oggi siamo una grande forza e l’unica vera alternativa alla destra. E’ questo il grande merito di Veltroni. Certo, pensando alle ultime elezioni, il problema è stato quello che non abbiamo sfondato nella partita per arrivare al governo, ma, ripeto, abbiamo costruito una nuova realtà che va oltre la forza dell’Ulivo. (A Roma, per esempio, il Pd ha preso il 41 per cento dei voti e ricordiamo che di solito quando si mettono insieme due partiti si va invece sotto rispetto alla somma dei vecchi simboli. Noi abbiamo fatto molto meglio”). Continua Bettini: “Perché il Pd non abbia sfondato, comunque, è oggetto di una discussione. Io posso dire che, a mio avviso, si è accumulato un contenzioso, ormai da anni, tra le forze della sinistra e certi pezzi dell’elettorato popolare che non era possibile smaltire in una campagna elettorale. Ci siamo trovati di fronte a un contenzioso storico, un’immagine, un senso comune che è molto complicato smontare completamente. L’immagine della sinistra, fino a poco tempo fa, era quella del partito che metteva le tasse, che metteva i vincoli, che rendeva difficile la crescita in un paese che però funziona poco per i servizi che dà. E alla fine la gente si incazza e vota Lega. Ecco, noi non siamo riusciti a smontare del tutto questa cosa qui. Il partito non ha avuto il tempo di costruire un senso comune, una cultura, una credibilità di messaggio intorno a queste cose. Ha prevalso ancora il vecchio immaginario su di noi. Un immaginario che però Veltroni e il Pd stanno dimostrato che non esiste più”.
Bettini, parlando del futuro del Pd, dice che Di Pietro, “lealissimo in campagna elettorale”, ha ottenuto un ottimo risultato, “ma ora deve rispettare l’impegno ed entrare nel gruppo”. Per quanto riguarda la convocazione di futuri congressi, crede che a questo proposito non ci sia invece proprio nessun problema: “Il congresso rappresenterà la conclusione della costituzione del partito e deciderà l’asse della nostra opposizione e del nostro rapporto con il paese. Decideremo serenamente se vogliamo fare una discussione prima dell’ottobre 2009. Ma mi sembra chiaro che con Veltroni si è aperto un ciclo. Tutto il gruppo dirigente ha riconosciuto che Walter ha fatto una grande campagna elettorale, e una splendida rimonta, realizzando un miracolo. Ricordiamolo: queste elezioni quasi non erano previste, e solo la voglia frettolosa della destra ci ha fatto precipitare in questa avventura”.
Conclusa la fase costituente del Pd, Bettini avrà un nuovo ruolo all’interno del loft. A piazza Santa Anastasia, c’è chi non ha gradito l’intervista in cui Bettini aveva fissato l’asticella elettorale del Pd (“se il partito non raggiungerà il 35 per cento si potrà ridiscutere tutto”). Bettini nega di aver indicato quell’asticella. E semmai dice: “Ho detto che avevamo due obiettivi egualmente importanti: vincere le elezioni e costruire una grande forza riformista attorno al 35 per cento. Cosa che nella sostanza è avvenuta”. Poi Bettini ci scherza su (“Walter è l’unico che si occupa della mia salute e ogni volta che stiamo in qualche riunione, e io mi avvento sul tramezzino e sul pasticcino, solo l’autorità del segretario mi impedisce di mangiarlo. E’ l’unico. Gli altri, che probabilmente mi vogliono eliminare politicamente, usano la gola per farmi scoppiare!”). Ma dopo aver risposto a una domanda sul prossimo presidente del Pd (Sarà Marini? “Non lo so, anche se con la stima e con la simpatia che ho per Marini io gli farei fare di tutto!”), Bettini rilancia così: “Il mio compito nel Pd è stato quello di aver contribuito a costruiro. Adesso sarà quello di favorire al massimo un rinnovamento del partito che valorizzi una generazione di trentenni e quarantenni che nel corso dei mesi si è assunta una responsabilità e che ha combattuto. Parlo di forze cresciute nei territori, che hanno già dato prova di sé e che noi dobbiamo mettere alla direzione del partito. Non esiste Pd se noi non mettiamo alla testa di questo processo i nuovi protagonisti. Naturalmente ne dimenticherò qualcuno, ma qualche nome lo faccio: Andrea Orlando, Maurizio Martina, Andrea Martella, Andrea Manciulli, Salvatore Caronna, Marina Sereni, Luciano D’Alfonso, Ileana Argentin, Nicola Zingaretti, Federica Mogherini, Alessia Mosca, Ninni Terminelli e Stefano Fassina”. Bettini conclude la conversazione tornando sul suo rapporto con Gianni Letta. I due si sono conosciuti ai tempi in cui Bettini era segretario romano del Pci e l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio dirigeva il Tempo. Poi i due hanno consolidato il loro rapporto lavorando fianco a fianco all’Auditorium di Roma. “Siamo due persone che amano molto, quando si dà la parola, mantenerla o che, se non la si può mantenere, lo si dica in faccia. C’è tutto un codice tra di noi. Lui ha questa capacità di lavorare e dialogare al di là degli schemi politici e ha la forza di saper cogliere nel dialogo quello che c’è di buono nell’altro”. Bettini spiega così su cosa, oltre alle riforme istituzionali, si potrà lavorare nel CaW. “Vede, Togliatti diceva ai socialisti: ‘Voi dite che con la Dc sarete in grado di fare tante cose e tante riforme. Bene. Noi vi diciamo fatele!’. Ecco: Berlusconi in campagna elettorale ha promesso delle cose, sulle pensioni, sui salari, davvero condivisibili. E così, se mi consentite una battuta, io a Berlusconi rispondo allo stesso modo: Fatele!”.
Claudio Cerasa
18/04/04

giovedì 17 aprile 2008

Il Foglio. "Così i radicali fanno pesare il loro ingresso nel gruppo del Pd (con la Rosa)"

100 contro 9 - Emma che fa? vice, europa o shadow

Roma. I nove radicali candidati a custodire in Parlamento il cuore laico del Partito democratico, in un modo o in un altro, sono stati eletti tutti quanti alla Camera e al Senato. A Montecitorio ci sarà così un seggio per Maurizio Turco, Marco Beltrandi, Matteo Mecacci, Elisabetta Zamparutti, Rita Bernardini e – con un complicatissimo gioco di scatole cinesi – anche Maria Antonietta Coscioni. A Palazzo Madama, dove finalmente i radicali potranno schierare quei senatori che per due anni gli sono stati negati, arriveranno invece Emma Bonino, Marco Perduca e Donatella Poretti. Dunque, il patto sottoscritto dai radicali con il Pd è stato sostanzialmente rispettato. Emma Bonino, che ieri chiedeva che il Pd garantisca la stesura “di un regolamento chiaro che non preveda vincoli di mandato”, sostiene che gli accordi non sono stati traditi solo per “un ‘caso’ legato alla sconfitta drammatica della Sinistra”. C’è chi ricorda che nel patto firmato con il loft era previsto che in caso di elezione Bonino sarebbe stata confermata ministro; ed è difficile credere che, nelle ore decisive per ufficializzare la nomina del successore di Franco Frattini a Bruxelles, per l’ex commissario europeo sia sufficiente un dicastero nello shadow cabinet del loft. (Dove una Bonino vicecapogruppo al Senato non verrebbe vista male). Ma il fatto è che in un Parlamento a vocazione maggioritaria – dove 304 senatori su 315 vestiranno le casacche del CaW e dove la terza forza a Palazzo Madama ha conquistato solo due seggi (Udc) – avere tre senatori è un risultato eccellente. I radicali sanno che l’unica presenza laica in Parlamento rischia di essere via via diluita nel bipolarismo spontaneo della Nuova stagione (che con il Pd, oltre ai nove radicali, tra Camera e Senato, ha eletto circa cento parlamentari cattolici). Ed è per questo che il senatore Perduca dice al Foglio che “il mero esserci non è garanzia di presenza politica”. Il punto è che i radicali oggi hanno l’occasione non solo di imporre nell’agenda parlamentare gli argomenti che il Pd ha accettato di sottoscrivere nel suo programma elettorale (testamento biologico, definizione dei diritti del convivente, rafforzamento della 194 e sperimentazione della Ru486). Non c’è solo questo, perché – come ammette Perduca – i radicali, entrando così da protagonisti negli ingranaggi del CaW, presenteranno come primo disegno di legge una proposta (presidenzialismo perfetto e in seconda battuta semipresidenzialismo alla francese) che potrebbe innescare la miccia delle riforme elettorali. Ma c’è dell’altro: perché a maggio, a Chianciano, prima del prossimo congresso straordinario, è stata convocata “l’Assemblea dei Mille” e da quel giorno, oltre che tentare di far rifiorire la vecchia Rosa nel pugno, i radicali proveranno a trasformarsi nell’anello di congiunzione ideale tra gli spazi legislativi e quella sinistra che da lunedì è diventata extraparlamentare.
Al loft non sono pochi i democrat convinti che i radicali si stiano però già muovendo per ridiscutere la loro posizione nel Pd (“Non vorrei che fosse un alibi per giustificare una volontà di dissociazione dagli impegni assunti”, dice al Foglio l’ex direttore del Popolo e parlamentare del Pd, Francesco Saverio Garofani). Ma, come dice Roberto Giachetti, se il Pd vuole consolidare la sua vocazione maggioritaria e “andare oltre la sommatoria di Ds e Margherita” deve misurarsi anche con i radicali. Anche perché, spiega Giachetti, “il modello americano del Pd passa anche da Torre Argentina”. E per questo alle prossime primarie democrat i radicali stavolta ci vogliono essere davvero.
Claudio Cerasa
17/04/08

mercoledì 16 aprile 2008

Il Foglio. "W l’inglese. Fa lo speaker con lo shadow cabinet e parla con Sua Maestà"

Dialogo con l’Udc, domande retoriche, nuovi volti dell’opposizione

Roma. Per evitare che il mirino del secondo colpo in canna venga rapidamente puntato sulla testa del Pd, ieri pomeriggio Walter Veltroni ha convocato la sua prima conferenza stampa da capo dell’opposizione e ha spiegato come il Partito democratico abbia intenzione di articolare l’altra metà della sua vocazione maggioritaria, quella all’opposizione. Il Pd aveva cominciato ad aggiornare il vocabolario della nuova stagione già dalla mattina, quando il coordinatore della fase costituente, Goffredo Bettini, aveva anticipato così le geometrie del lieto inizio democrat. “Noi abbiamo iniziato questa avventura in modo positivo e ci prepariamo a un combattimento civile e fermo per giocarci le nostre carte in futuro”. L’idea forte, e anglosassone, da cui il loft ripartirà per dimostrare che la sconfitta elettorale, seppur pesante, può però essere allo stesso tempo costruttiva, è quella di un governo ombra, uno “shadow cabinet” come lo chiamerà a fine giornata un W già perfettamente entrato nella parte di speaker dell’opposizione (“Un’opposizione che sarà repubblicana, questa è la vocazione del Pd”). Veltroni parlava ieri pomeriggio nella stessa sala stampa dove il giorno prima aveva ammesso con un certo stile la sconfitta del Pd. Ma questa volta W lo ha fatto con una differenza sostanziale: se lunedì sera l’ex sindaco era circondato dall’abbraccio simbolico di quella vecchia stagione che aveva condiviso il tuffo del centrosinistra nella nuova stagione veltroniana, ieri, invece, nella dependance del loft, non c’erano per esempio Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Piero Fassino, Beppe Fioroni e non c’erano neppure gli altri ministri prodiani ad ascoltare in prima linea il segretario del Pd. Sul palco Veltroni era invece accompagnato dal vice Franceschini; e le prime seggioline della sala stampa del loft erano così occupate quasi prevalentemente dai volti nuovi della nuova stagione (Federica Mogherini, Walter Verini, Walter Vitali, Achille Serra, Enrico Gasbarra). Ieri però è stato un pomeriggio piuttosto significativo anche per altre ragioni. Veltroni, infatti, nel tentativo comunque complesso di ribaltare l’incontestabile insuccesso elettorale, ha rivendicato la scelta del “correre liberi” spiegando il significato della disfatta bertinottiana con un’argomentazione che non dovrebbe lasciare spazio a chi nel loft già comincia a brontolare; a tutti quegli oligarchi convinti che il Pd, abbandonando le ali estreme dei vecchi ramoscelli d’Ulivo, si sia letalmente indebolito: “La sinistra ha pagato un prezzo elevato per sua responsabilità perché ha minato la compattezza del governo Prodi”. Da non trascurare poi che ieri W, assieme al suo staff, notava come nella Puglia dalemiana il Pd avesse perso qualche voto di troppo.
Veltroni ha analizzato la sconfitta del Pd leggendola con una lente che il segretario del loft utilizzerà ancora a lungo nei prossimi giorni. W ha sottolineato che il Pdl ha comunque perso 804 mila voti (con contestazioni dal Pdl); ha ringraziato i candidati milanesi del Pd per lo “storico” risultato in Lombardia (33 per cento a Milano); e ha maliziosamente ricordato all’Italia dei valori che ci sono dei patti da rispettare (“Di Pietro dovrà entrare nello stesso gruppo parlamentare del Pd”). Ma la metafora che rende nel modo migliore l’onda lunga che il Pd vorrebbe proiettare su tutto il Parlamento, partendo dalla sua prima stagione all’opposizione, è quella che offre Franceschini; è quella di un corridore che prepara con cura la sua lunga maratona politica e a cui improvvisamente, e troppo presto, viene chiesto di correre i cento metri delle elezioni. Ma c’è dell’altro: perché Veltroni ha sì spiegato che il Pd da oggi in poi osserverà con interesse i movimenti dell’unico partito che insieme con il Pd sarà formalmente all’opposizione (“Con l’Udc ci proponiamo di avviare un confronto e lo faremo anche con le forze di opposizione che non sono entrate in Parlamento”), ma l’impressione è che nel lieto inizio della nuova stagione W voglia ripartire dalla stretta di mano dello scorso primo dicembre con Berlusconi. E se è vero che ieri W ha stuzzicato il Cav. (“L’annuncio di non dare all’opposizione la presidenza di una Camera non fa vedere un buon inizio”), è pur vero che per ricompattare quel CaW che dovrà comunque riscrivere le regole dei giochi per le prossime elezioni (in francesce più che in spagnolo però) anche ieri W, a suo modo, ha strizzato l’occhio all’altra metà del CaW, con una domanda retorica: “Anche nella nomina del commissario europeo vale la logica di applicare lo spoils system?”. Chissà che il Cav. non gli risponda presto di no.
Claudio Cerasa
16/04/08

martedì 15 aprile 2008

Il Foglio. "Dalla “rimonta incredibile” di W alla sconfitta del Pd. Ora nel loft comincia il processo"

La rimonta che già alle quindici e trenta era “incredibile”, che pochi minuti dopo sarebbe diventata “straordinaria”, che a metà pomeriggio si sarebbe trasformata in un “durissimo testa a testa” e che a fine giornata sarà comunque “politicamente importante”, finisce alle sedici e trenta nella sala stampa del loft con un incontenibile Ermete Realacci il quale, mentre spiegava la “la grande soddisfazione del partito per il risultato”, si ritrovava di fronte a un maxischermo che proprio in quel momento proiettava il primo dato attendibile della giornata democratica: Senato, Pd, 32,8 per cento. E così, mentre al loft arrivavano anche Latorre, Fassino, Bianchi, D’Alema, Letta, Bassanini, Franceschini, Bersani, Marini e Colaninno, i dirigenti del Pd erano lì, pronti a declinare in tantissimi modi diversi il lieto inizio della nuova stagione candidata al governo e uscita azzoppata dalle elezioni: “Abbiamo fatto la cosa giusta per l’Italia”; “E dire che c’era qualcuno che parlava di distacco incolmabile”; “Da parte nostra c’è già una grande soddisfazione per il lavoro fatto”; “Possiamo affermare che siamo il primo partito d’Italia”. E non solo: fino a metà pomeriggio c’era persino qualcuno che spiegava come Veltroni fosse “iperottimista” e persino “sorridente”: “Con questa ‘forchetta’ tutto è possibile. Il successo del Partito democratico è innegabile”. Non era così. Nel corso della giornata, chiuso nella sua stanzetta del loft con Dario Franceschini e Massimo D’Alema, Veltroni avrebbe rapidamente compreso come nel lieto inizio della nuova stagione ci fosse qualche problema di troppo. Perché il Pd ha perso l’elezioni, perché Veltroni prevede che raggiungerà comunque il 35 per cento dei consensi, ma la rupture democrat che W era pronto a spiegare ieri sera ai seicento giornalisti arrivati a Piazza Santa Anastasia era un po’ diversa da come Veltroni l’avrebbe scoperta ieri. Perché solo una settimana fa l’ex sindaco di Roma aveva chiamato la sua spalla destra Bettini per dirgli “Goffredo, vinciamo!”. Mentre oggi invece il Pd è costretto a dimostrare che qualcosa è comunque successo, che la nuova stagione ha davvero cambiato il paese, che la vocazione maggioritaria è un’idea nata al Lingotto di Torino e che il futuro del paese in fondo non può che essere del Pd. W non farà un passo indietro: chi lo ha sentito nelle ultime ore dice che non mollerà e lui continuerà a essere difeso da quegli azionisti di maggioranza (gli ex Popolari) che sul Pd veltroniano avevano investito prima di tutti. Non è un caso che ieri il primo a difendere Veltroni sia stato il ministro Fioroni; e non è un caso che da oggi al loft, chi crede ancora in W, ripeterà le parole rilasciate da Franceschini proprio a questo giornale: “Oggi noi stiamo lavorando per partire da una vittoria, ma non si cambia un progetto, o un partito, in base all’esito elettorale. Questo deve essere chiaro”. Nel Pd sono in tanti a fare questo ragionamento e Veltroni proverà così a proiettare la vocazione maggioritaria anche nel partito. Ma da oggi, comunque sia, al loft comincia il processo.
(segue dalla prima pagina) “Noi ci siamo candidati per governare con una proposta nuova”, dirà a fine giornata Realacci, responsabile comunicazione Pd. “Sappiamo che probabilmente questa proposta non ha la maggioranza ma è un tema su cui continueremo a lavorare”. Punto. La seconda parte della nuova stagione di Veltroni comincia così, comincia con il secondo colpo in canna che da domani il Pd proverà a puntare sulla nuova maggioranza di governo. “Faremo un’opposizione costruttiva. Abbiamo ottenuto un risultato elettorale importante, lavoreremo perché l’Italia possa avere una sfida riformista al governo”, dirà a fine giornata W; che ora non vuole sentire parlare di nuovi congressi, che non vuole sentir parlare di rivoluzioni e che cercherà in tutti i modi di non nominare quell’asticella che poche settimane fa Goffredo Bettini aveva fissato per il suo Pd. Quando il coordinatore della fase costituente aveva detto che “se il partito non raggiungerà il 35 per cento si potrà ridiscutere tutto”, perché “è una patologia italiana quella dei dirigenti per tutte le stagioni”. Ci sarà dell’altro oggi nell’inizio della seconda fase della rupture soft veltroniana. Perché il lieto inizio è una sconfitta che si spiega così: pesando il voto, spiegando agli elettori il successo di una campagna elettorale dove – sono parole di Veltroni – è molto importante anche il voto giovanile; dove il successo della vocazione maggioritaria è comunque un dato che il Pd cercherà di ascrivere al suo vocabolario e che, dicono dal loft, in un modo o in un altro porterà a un riavvicinamento del CaW. “Dalle urne sta uscendo un risultato splendido per il paese”, dirà nel pomeriggio il ministro Gentiloni. Ma l’aspetto forte su cui punterà di più W nei prossimi giorni sarà il tentativo di arginare chiunque nel loft proverà a dimostrare che la teoria del correre liberi sia stata un fallimento. E lo stesso W ieri sera, un po’ commosso, lo spiegava sul palco della sala stampa del loft: “La nostra decisione di andare da soli ha aperto una nuova stagione. Ora si apre una stagione di opposizione nei confronti di una maggioranza che avrà difficoltà a tenere insieme ciò che è”. Veltroni proverà a dimostrare che il boom della Lega nord è oggi per il Pdl una minaccia Turigliatto moltiplicata per mille. Ma il punto decisivo per trasformare il lieto inizio in una sconfitta utile si trova in una frase di uno dei veltroniani che ieri pomeriggio difendeva il suo segretario: “Questo resta un successo personale di Veltroni”. Da oggi bisogna solo scoprire se al loft la pensano tutti così.
Claudio Cerasa
15/04/08

lunedì 14 aprile 2008

Il Foglio. "Sansonetti difende il Caimano rossonero e dice che ci andrà pure a cena"

Roma. Ieri, quando il caso Francesco Totti era obiettivamente diventato l’argomento più frizzante delle ultime ore di campagna elettorale (71 lanci di agenzia fino alle cinque di pomeriggio, tra cui anche un “Rutelli fa il cucchiaio ad Alemanno” e “Rutelli è solo un laziale”) l’unico comunista in grado di andare in soccorso al Caimano milanista, senza imbarazzo, era Piero Sansonetti. Non è un mistero che con Silvio Berlusconi il direttore di Liberazione ha un feeling che lui stesso fa fatica a nascondere; tanto che in quelle poche volte in cui, come è capitato giovedì sera, i due si sono incrociati in tv il Sansonetti milanista ha gioiosamente prevalso sul Sansonetti comunista; e a vederli lì vicini con il giornalista che stringe la mano al Cav. e con il Cav. che seduce il giornalista annunciando l’acquisto di Ronaldinho, è chiaro che il direttore di Liberazione e il principale esponente dell’opposizione si piacciono da matti. Così, anche ieri che in redazione Sansonetti vestiva con camicetta bianca a maniche corte e minacciosa stampa a colori con fotomontaggio Newsweek (profilo sinistro di Berlusconi, profilo destro di Veltroni), parlando con il Foglio il direttore di Liberazione difende l’attacco (un po’ vero e un po’ no) al capitano della Roma Francesco Totti; spiegando perché, finalmente, Berlusconi ha preso tutti in contropiede in campagna elettorale. “A parte che non sono per niente sicuro che il Berlusconi pasticcione che fa politica sia lo stesso grandissimo presidente, e quella brava persona, che fa sport in maniera perfetta e che non sbaglia mai. Detto questo, quella cosa su Totti credo sia stata una mossa voluta e secondo me anche giusta dal suo punto di vista. Negli ultimi anni Berlusconi ha portato in campagna elettorale le sue grandi capacità sportive avendo poi la fortuna che la politica ha subìto una crisi così verticale da trasformarsi in un’attività sportiva. E non è un caso, difatti, che in questo aspetto significativo Veltroni ha seguito il classico schema berlusconiano: drammatizzazione della campagna elettorale ma anche alleggerimenti di tipo calcistico”. In effetti, quattro giorni fa W ha detto che il Pd è come Bearzot. “Io non ho nulla contro Walter, ci mancherebbe (quando non è al potere mi sta simpaticissimo!) ma è un fatto che Veltroni ha cercato di copiare la capacità di essere vincente di Berlusconi. Berlusconi, che non avrebbe utilizzato il paragone con Bearzot perché Bearzot non era simpatico a tutti, non ha mai forzato troppo in queste settimane perché ha sempre ritenuto di essere ancora in testa e ha creduto che bastasse qualche contropiede per mettere in difficoltà il suo principale avversario. Per quanto riguarda il caso del capitano della Roma – continua sorridendo Sansonetti mentre scorre i lanci d’agenzia (“Fini, Totti? Imbarazzo per il laziale Rutelli”) – per spirito sportivo e fazioso dico che il presidente ha fatto bene a parlarne male. Ma il romanista tifoso sa perfettamente che Berlusconi spera che alla fine sia la Roma a vincere il campionato. Lo spero anche io! Lui non lo può dire perché ha problemi di rapporti cittadini, ma l’idea di vedere Moratti che non vince lo scudetto per un milanista è quasi più importante di ritrovarsi un tricolore a Milanello. E’ per questo che, da comunista, io dico che non esiste nulla più di sinistra di uno come Kakà”. Kakà? “Certo! Kakà è di sinistra perché fare gol all’Inter, per principio, è una cosa di sinistra. Per questo Kakà è la cosa più di sinistra che possa esistere”.
Sansonetti continua a raccontare le sfumature del suo berlusconismo sportivo spiegando che nella sua grammatica politico calcistica Inter significa Bossi (“Moratti poi è uno che non sa nemmeno dove sta il pallone”); che Juventus (squadra che secondo Sansonetti “rubava scudetti”) significa Veltroni; e che quando a Porta a Porta il direttore di Liberazione ha incontrato Berlusconi, dopo la trasmissione, con il presidente ha parlato per un po’ ancora di Milan. Il Cav. ha confermato a Sansonetti che Ronaldinho potrebbe finire a Milanello; il direttore non ha resistito alla tentazione e ha dato al presidente un suggerimento, di tattica. Impostare il Milan con centrocampo a quattro, con tre difensori e poi tre attaccanti. “Presidente, con tre mezze punte non può indebolire il centrocampo!”. “Anche lei dice questo?”. “Sì!”. “E’ un anno che glielo dico ad Ancelotti, ma lui non si convince. Senta, andiamo a cena insieme, io lei e Ancelotti, così lo convinciamo”. E al presidente milanista, per quanto Caimano e per quanto poco comunista, il Sansonetti milanista, naturalmente, non poteva che rispondere di sì.
Claudio Cerasa
12/04/08

venerdì 11 aprile 2008

Il Foglio. "In morte del conflitto d’interessi"

Come nacque e come scomparve per ordini superiori una decennale buffonata


E’ stato lo scudo preferito delle ultime cinque campagne elettorali del centrosinistra, dal giorno in cui il “principale esponente dell’opposizione” è sceso in campo, ha fondato il suo partito e ha vinto le elezioni; è stato il tratto più forte che negli ultimi anni Romano Prodi, Massimo D’Alema, Francesco Rutelli, Fausto Bertinotti, e naturalmente anche Walter Veltroni, hanno scelto per disegnare il profilo più appropriato del candidato premier Silvio Berlusconi; e lo è stato anche fino a poco tempo fa, quando la serietà, che sarebbe poi arrivata azzoppata al governo, l’aveva scritto undici volte tra le pagine del suo vivacissimo programma elettorale. Erano i mesi in cui c’erano “osservatori che segnalavano”, esperti che si disperavano, girotondi che si incazzavano e candidati che rubricavano il proprio sdegno antiberlusconiano in un vocabolario minaccioso che invocava “la difesa dei valori della Costituzione”, “la grave anomalia della democrazia italiana”, “il regime di incompatibilità”, gli scandalosi “intrecci tra politica e affari”. Capita invece che a due giorni dalle elezioni quella che il centrosinistra aveva descritto negli anni come la pistola fumante di un’evidente inadeguatezza al governo sia clamorosamente uscita fuori dalla campagna elettorale dei principali avversari del principale esponente dell’opposizione. Forse un po’ eccessivamente, avrà pensato Walter Veltroni; che dopo essersi accorto che sull’argomento era stato scavalcato persino dal leader del Pli, Stefano De Luca, ieri pomeriggio ha provato a non farsi sottrarre del tutto quello che fino a pochi mesi fa era il maggior detonatore dell’anticaimanismo di sinistra. E ci ha provato così: “La legge sul conflitto di interessi va fatta. E una delle ragioni per cui spero vinca il centrosinistra è che così si libera il campo nella destra e, a quel punto, il conflitto di interessi tornerà a essere una legge liberale e non contro qualcuno. Finché c’è il principale esponente in giro – ha continuato W – parlarne sembra un’aggressione contro qualcuno. Invece una volta liberato il campo, la legge sul conflitto di interessi deve valere erga omnes e per sempre”.
Chissà dov’è finita l’indimenticabile retorica sul conflitto d’interessi e tutte quelle descrizioni un po’ deboli di “monumenti viventi all’impasto quotidiano e indecente tra partito e azienda, amministrazione pubblica e business privato, soldi e politica” (Repubblica, 5 gennaio 2006). Chissà dove sono finiti tutti quei commentatori che fino a qualche tempo fa cercavano di dimostrare che, per colpa del conflitto d’interessi, l’Italia si sarebbe trasformata nella copia solo un po’ sbiadita di una dittaturina thailandese. E invece no: invece oggi il Partito democratico ha scoperto che il conflitto d’interessi non è un argomento forte per dare vero ossigeno alla propria vocazione maggioritaria; perché il conflitto è stato sì uno dei (fragili) collanti di coalizione negli ultimi anni; ma oggi è un fatto che lo stesso Pd ha dedicato al tema solo qualche lancio di agenzia e solo due righe due nel suo programma elettorale. Ed è anche per questo che due sere fa, quando Walter Veltroni è stato ospite di Porta a Porta, nel suo metaforico contratto legislativo firmato con gli italiani e tra i titoli di quei ventitré (possibili) disegni di legge consegnati a Bruno Vespa in una bella cartellina di pelle c’era un po’ di tutto, ma non il conflitto d’interessi. Non è un mistero, poi, che l’approccio meno aggressivo allo spauracchio dello Cav catodico cambiò quando, nel 1998, l’allora primo ministro Massimo D’Alema (dopo aver ripetuto per anni che “il conflitto di interessi è un tema che investe la sostanza della democrazia e non vi sarà soluzione se non si sancisce l’incompatibilità tra la premiership e la proprietà di rilevanti mezzi di informazione”) non appena arrivato a Palazzo Chigi decise di andare in visita a Mediaset e disse pubblicamente che quelle televisioni erano “patrimonio della nazione”. Certo, non è passato molto tempo dai giorni in cui le parole di Furio Colombo si trasformavano in assist precisi per i girotondismi di piazza e di governo (“Appena entrato in Parlamento, non mi toglierò il cappotto prima d’aver depositato una proposta di legge sul conflitto d’interessi che renda incompatibili la proprietà di mezzi di comunicazione come Mediaset e qualsiasi ruolo di governo. A senso, non mi spingerei fino a chiedere l’ineleggibilità ma aspetto che un giurista mi spieghi bene la materia”, diceva due anni fa l’ex direttore dell’Unità proprio su questo giornale). Non è passato neppure molto tempo dai giorni in cui il panchopardismo non era ancora diventato semplice materiale di archivio per i libri di Marco Travaglio (“Promuoveremo una legge d’iniziativa popolare per rendere ineleggibile Silvio Berlusconi. Sarà un’iniziativa di grande pressione civile”, spiegava a pochi giorni dalle ultime elezioni il candidato al Senato dell’Italia dei Valori). Ora le cose sono cambiate. E girando lo sguardo ancora più a sinistra, per certi versi, sembra ancora più chiaro come l’argomento “conflitto d’interessi” sia diventato un’arma decisamente inceppata. Così se fino a qualche mese fa Fausto Bertinotti diceva che qui “ci vuole una legge che impedisca di fare politica a chi è proprietario di grandi imprese di interesse nazionale almeno finché resta in quella condizione”, oggi quella che per molte settimane è stata la terza punta dell’asse tra W e il Cav (CaW) dice che certo, “Il conflitto di interessi è importante ma le priorità sono altre: conflitto sociale, salari, pensioni”. Viene da pensare, dunque, che la piccola gaffe fatta due anni fa da Piero Fassino – l’ex segretario dei Ds chiedeva al centrosinistra di gestire la questione del conflitto d’interessi con una legge di tipo americano, per “separare nettamente l’interesse privato, del tutto legittimo, con il ruolo pubblico”, anche se in realtà in America non c’è nessuna legge sul conflitto di interessi che impedisca al proprietario di aziende di candidarsi a cariche pubbliche e di governo – sia stata in fondo un’innocente spia di quello che sarebbe diventato nei fatti un approccio diverso alla questione. Un approccio grazie al quale, per esempio, i custodi morali dell’ortodossia anticaimana – che non scrivono più saggi su Micromega, che non organizzano più girotondi brontoloni, che non minacciano più piagnisitei in seconda serata – per dimostrare che in Italia ci sia davvero il rischio di una democrazia peronista e videocratica, e per non essere spernacchiati pure da Bertinotti, sono costretti a rilasciare interviste polverose ai giornali stranieri (“Se vince Berlusconi assisteremo alla putinizzazione dell’Italia”, ha detto proprio tre giorni fa Paolo Flores d’Arcais in Spagna al Pais).
E così in una campagna elettorale in cui, tanto per capire, il Partito democratico parla più di Wto che di posizioni dominanti, la lancia spuntata del conflitto di interesse è stata malamente indirizzata proprio contro chi ha deciso di non considerare più il conflitto d’interesse come cuore della propria agenda politica. Ed è per questo piuttosto significativo che pochi giorni dopo la stretta di mano tra Berlusconi e Veltroni a Montecitorio (primo dicembre 2007) la vecchia stagione di Romano Prodi abbia provato a sabotore la vocazione maggioritaria del CaW gridando improvvisamente dalla Germania che “il monopolio mediatico di Berlusconi è un pericolo per la democrazia”. (Dichiarazione che anticipò di pochi giorni le intercettazioni telefoniche tra Berlusconi e Saccà; le inchieste di Giuseppe D’Avanzo su Repubblica; e le successive interviste del ministro Gentiloni, autore della legge mai approvata di riforma della Gasparri). Attenzione però: il riflesso pavloviano è sempre un po’ in agguato e impugnare il conflitto d’interessi è evidente che faccia gola a chi voglia schierarsi, un po’ superficialmente, contro il Cav. E’ sotto gli occhi di tutti l’esempio di Fini che, nei giorni in cui era decisamente ancora poco convinto della svolta predellina del Cav di San Babila, flirtava pubblicamente con il ministro Gentiloni (“Ora è il momento di una legge sul conflitto di interessi”); e l’esempio di Pier Ferdinando Casini che nelle ultime settimane ha fatto un po’ sua la retorica post-panchopardesca. Ma il punto però è un altro: sembra piuttosto chiaro che per battere il Cav elettorale la declinazione noiosa del conflitto d’interesse è ormai diventata solo la fragile scialuppa di chi prova ad affondare una nuova stagione ma senza avere più frecce nel proprio arco. Veltroni questo l’ha capito perfettamente; e non è un caso che, giusto pochi giorni dopo l’apparentamento del Pd con l’Italia dei Valori, a un Antonio Di Pietro che minaccioso intimava un aut aut al Cav (“La legge sul conflitto d’interessi andrà risolta nei primi cento giorni del governo. Perché Berlusconi o fa il politico o fa l’imprenditore della comunicazione”), sono stati proprio Walter Veltroni, Anna Finocchiaro e Massimo D’Alema a dire subito che Di Pietro parlava a titolo personale, “l’argomento non è tra le priorità del programma”. Dunque, per fortuna, oggi non c’è nessuno scandalo se un ex premier dice che le televisioni del principale esponente dell’opposizione sono un patrimonio della nazione; e non c’è neppure nessuno scandalo se il custode della seconda metà del CaW (W) ha scelto simbolicamente di inziare la sua campagna elettorale sulla magnifca poltroncina rossa di quella che Veltroni definirebbe oggi, semplicemente, una delle tv della famiglia del principale esponente del partito a noi avverso.
Claudio Cerasa
11/04/08

giovedì 10 aprile 2008

Il Foglio. "Catanese, bellissima, sedici anni, mamma"

La scappatella a gennaio, la seconda notte a casa con il ragazzo, i ceffoni del papà, l’alternativa e il problemino. Storia di una Juno di Sicilia


“Tesoro, non credevo fossi in età sessualmente attiva”. “Hai preso in considerazione l’alternativa?”
Bren, mamma di Juno, non appena viene a sapere che la figlia
di 16 anni è rimasta incinta

Questa è mia zia, questa è mia cugina, questa è la mia classe, questa è la villa, questa è mia sorella, questo è il suo ragazzo, questa è la mia mamma, questa è la mia vicina, questo è il bimbo di mia cugina, questo è il mio ex ragazzo, questo è l’autobus che mi porta a scuola, questa è la mia cameretta, questo è il mio papà, questo è il giorno prima, questo è il giorno dopo e questa è mia figlia, che fa così con la manina. Clic. Mariuccia sorride scorrendo i tre giorni più belli della sua vita sullo schermetto verde del suo telefonino. Li guarda, li seleziona, li commenta e li ricorda a uno a uno mentre gioca con un paio di splendide bomboniere rosa spostandole qua e là sul tavolino della stanza da pranzo. Mariuccia ricorda il giorno in cui l’ha provato, il giorno in cui l’ha scoperto, il giorno in cui l’ha deciso, il giorno in cui credeva che il padre stesse per ucciderla e il giorno in cui lui, il suo ragazzo, era andato in farmacia e lei – uscendo dal bagno con i jeans ancora tirati giù, con una mano che stringeva il cellulare e con l’altra che teneva per la punta il suo primo test di gravidanza – aveva scoperto di essere incinta. A quindici anni. L’aveva scoperto, Mariuccia, quando ancora credeva che fosse solo un po’ di suggestione, quando ancora credeva che quella nausea fosse solo un po’ di stanchezza, che quei conati fossero solo colpa di una brutta influenza e che quel ritardo fosse in fondo come tutte le altre volte, quando il ciclo non era regolare e lei sentiva dolori fortissimi all’addome senza capire perché. Invece stavolta era così: Mariuccia aveva appena scoperto di essere incinta, sapeva che il padre era il suo ragazzo, Gabriele, sapeva cosa avrebbe detto sua madre, Teresa, e sapeva che doveva soltanto aspettare che tornasse lui, perché ora doveva dirlo anche a suo papà. Cazzo. Mariuccia aveva cominciato quasi per gioco, con Gabriele: lei andava spesso a casa di Carmela, la sua migliore amica; Carmela si era innamorata del cugino di Mariuccia, le aveva chiesto di uscire con lui, Mariuccia aveva organizzato l’incontro, Carmela naturalmente aveva detto di sì anche se, il giorno dell’appuntamento, la mamma l’aveva costretta a uscire di casa accompagnata dal fratello. Il fratello – che era bassino, che era un po’ magrolino, che aveva un paio di occhialetti con la montatura leggera – era proprio Gabriele, e dopo due settimane Mariuccia era già terribilmente cotta: lui le chiese una prova d’amore, lei ci pensò un po’; pensò che quello era il momento giusto e anche se i genitori non glielo avrebbero mai perdonato lei gli disse di sì.
La prima volta per Mariuccia doveva essere quella: doveva essere con quella fuitina, con quella piccola fuga d’amore con cui una coppia molto giovane costringe i genitori ad accettare il fidanzamento. E quella doveva essere una sera non come le altre, doveva essere la notte del loro amore, doveva essere la notte della prima volta; e poteva finire lì, poteva durare solo quella sera o poteva durare anche per tutta la vita. Perché in quella notte si fanno molte promesse, ci si dice rimarremo insieme per tutta la vita, e lui diventerà marito, lei diventerà “mugliere”, ci si scambierà le fedine, poi si tornerà a casa e quando i genitori ti guarderanno negli occhi sapranno perfettamente che la notte prima tu e lui avete fatto l’amore. Per la prima volta. Quella sera, Mariuccia era emozionata e aveva già pensato a tutto: al vestitino, alla valigia, alle calze, alle scarpe e persino alle mutandine. Solo che non sapeva ancora dove. Poi, quando ci pensò, capì che era un mezzo pasticcio: non sarebbe potuta andare a casa della cugina, perché i genitori di lei non avrebbero capito; e non sarebbe potuta andare a casa dell’amica, perché i fratelli non avrebbero gradito. Che fare? Mariuccia aveva pensato a una villa, aveva fatto un giro da un’altra amica, aveva persino cercato un posto in un sottoscala. Ma niente. Alla fine, un’amica dove andare la trovò davvero. Ma quella fu comunque una serata terribile: Mariuccia ricorda che faceva freddo, che si era sentita in colpa, che aveva cominciato a piangere e che quella notte era andato tutto così storto che anche il cielo sembrava che piangesse. Così, Gabriele si spaventò, le cominciò a urlare “amuninne!”, “amuninne!”; Mariuccia prese il telefonino e fece quello che in questi casi non andrebbe mai fatto: perché quello è il momento in cui tu diventi grande, il momento in cui tu diventi autonomo e il momento in cui, chi ti conosce, sa bene che tu hai fatto il primo piccolo grande passo della tua vita. Perché il giorno prima, anche se lei aveva quindici anni e anche se lui ne aveva sedici, avevano detto che da quel momento i problemi si sarebbero risolti in due. E invece Mariuccia cominciò a piangere, chiamò la mamma e dopo poche ore, lei e Gabriele, tornarono a casa molto tristi. Tristi, ma per poco tempo: perché sì, la fuitina era andata male, non ebbero neppure il tempo di farlo, ma nonostante tutto Gabriele e Mariuccia continuarono a vedersi, continuarono a farsi tantissimi squilletti con il telefonino, e lui le regalò una fedina di argento, poi la invitò a casa, le disse che i genitori erano partiti, lei attraversò il cortile che separava il suo appartamentino da quello del ragazzo, arrivò alla palazzina “g” e salì tre rampe di scale; lui la baciò forte sulla bocca, le disse che voleva fare l’amore, che voleva farlo subito e che avrebbe voluto farlo per la prima volta. Con lei. Mariuccia cominciò a baciarlo, lo abbracciò, lo spinse verso il letto, gli slacciò i pantaloni, si sfilò la maglietta e senza togliersi le scarpe lo guardò fisso negli occhi mentre faceva l’amore con lui. Era la prima volta, per lui, e lo era anche per lei. Era tutto perfetto, ma non andò granché: lei sentì un forte pizzicorio allo stomaco, cominciò a urlare, si spaventarono tutti e due, lasciarono le cose a metà, poi Mariuccia si mise a piangere e tornò svelta svelta a casa. Fu l’unica volta che andarono a letto insieme. Fu sufficiente, però: perché lei era innamoratissima, continuò a frequentare Gabriele e due mesi dopo, uscendo dal bagno con i pantaloni tirati giù e prima che Gabriele le dicesse che non se la sentiva più di stare con lei, Mariuccia scoprirà di essere rimasta incinta. “Ho un problemino”, disse all’amica Carmela pochi minuti dopo il test. Le disse solo questo, poi chiuse il telefono e rimase tutto il pomeriggio sdraiata sopra il suo letto a castello, fissando i tre poster di Zac Efron che la sorella aveva appeso sul muro della cameretta giusto qualche giorno prima. Quindici anni, studentessa, senza soldi, senza lavoro, con un papà nervoso, una mamma casalinga e un ragazzo che sarebbe diventato, di lì a poco, un vero stronzo e che le avrebbe detto di non sentirsi sicuro, di non essere più certo dei suoi sentimenti e di non sapere come andare avanti, con quel “problemino lì”.
Mariuccia c’aveva pensato: aveva pensato di esser troppo piccola, aveva pensato che un dispiacere così ai genitori non lo avrebbe mai voluto dare, aveva pensato che a casa non avrebbero avuto i soldi per far crescere pure una nipotina, che la mamma non avrebbe mai capito, che il papà non l’avrebbe mai accettata e che a quell’età forse sarebbe stata solo una stupidata. Così, Mariuccia aveva chiamato un’amica – la stessa che l’aveva ospitata per la sua piccola fuitina – e le aveva chiesto semplicemente come si faceva quella cosa lì. “L’alternativa”. Lei glielo aveva spiegato, Mariuccia sapeva che era ancora in tempo e sapeva che le sarebbero bastati quindici minuti per risolverle il problemino. Ci pensò due giorni, poi la mamma la chiamò in cucina, la guardò negli occhi, lei si mise a sedere con le gambe incrociate, con le suole delle scarpe che le sfioravano il sedere e la mamma glielo chiese. Le chiese se se la sentiva davvero; le chiese se fosse sicura di andare avanti; le disse che la vita le sarebbe cambiata; e le ricordò che quella che aveva fatto era comunque una cazzata. Ma ora doveva decidere lei.
Che fai, Mariuccia?
Lei c’aveva pensato tutta la notte, aveva pensato a quelle sue amiche che – anche loro molto giovani – erano rimaste incinte qualche mese prima e che per una ragione o per un’altra avevano deciso di non far crescere più il bambino nella propria pancia (Mariuccia frequentava il secondo anno di un corso statale per addetti di segreteria d’azienda e nella sua sezione già quattro ragazze erano rimaste incinte: una aveva portato avanti la sua gravidanza, una aveva scelto di dare in adozione il bambino e le altre due invece no). Ci pensò e prese in considerazione l’alternativa, perché quando hai quindici anni e quando ti ritrovi tra le mani “uno scarabocchio che non si può cancellare” – , come direbbe il farmacista che nel film Juno passa da sopra il bancone il test di gravidanza a Ellen Page –, allora capita che ti spaventi e la prima cosa che potresti pensare è semplicemente quella: come sbarazzarmene? Invece no: invece Mariuccia aveva detto che comunque quella era una cosa bellissima, e sarebbe stata bellissima sia se l’avesse tenuto, sia se l’avesse fatto adottare (“Basta che u pucciriddu non lo danno a cu’ capita”, diceva lei); e sarebbe stato così anche se le amiche si sarebbero allontanate; anche se i genitori di Gabriele le avrebbero consigliato di interrompere la gravidanza; anche se a scuola non ci sarebbe più andata per un bel po’; anche se nel palazzo avrebbero cominciato a prendere tante informazioni e i vicini pettegoli avrebbero cominciato a bisbigliare da una porta all’altra (“Ma è vééééro che è incinta? Vééééro, è?”). Mariuccia, però, fissò la madre con i suo occhioni neri e le disse che voleva andare avanti. Lei si mise e piangere, la strinse fortissimo al suo seno e cominciò a riempirla di baci sulla bocca; iniziando a parlare con la bimba nella pancia della figlia mentre giorno dopo giorno vedeva crescere la nipotina sempre di più in quel corpicino da quindicenne; che secondo qualcuno sarebbe perfetto per quei “pervertiti, che godono a vedere (…) una ragazzina, quasi una bambina, con un corpo deformato dalla gran pancia della gravidanza avanzata” (Lietta Tornabuoni, la Stampa, 4 aprile 2008, recensione di Juno) e che invece, per quella mamma di Acireale, in quel momento era semplicemente una nipotina che cresceva.
Ora però toccava dirlo al papà.
Mariuccia sapeva che il papà non si trovava in un periodo così facile: era uscito pochi mesi prima di galera, era finito dentro per una serie di piccoli reati sul patrimonio, aveva scontato la sua pena, era tornato a casa, aveva trovato qualche debituccio sul conto in banca e per questo aveva cominciato a lavorare sodo, trovando un posto come saldatore e uno come montatore esterno e iniziando a girare l’Italia (dal lunedì al sabato) tornando a casa, distrutto, solo due o tre domeniche al mese. Quella domenica, una domenica di marzo, il papà di Mariuccia era arrivato a casa con un treno da Venezia, la mamma lasciò passare qualche giorno, cercò di farsi coraggio, pianse molto, chiese consigli alla sorella, le disse che era disperata (“Fallita sono: a figghia mia non m’ascutau. Mai m’immaginavo io che Mariuccia mia potesse fare una cosa del genere. A me, a me che io le ho aperto gli occhi. A me che le dicevo ‘Mariù’, vedi che i carusi sono accussì, vedi che i ragazzi solo quello cercano, e tu devi saperi unni metti i piedi!”), poi decise di far uscire Mariuccia di casa, prese per mano il marito e gli disse che la figlia era incinta. Lui non la prese bene. “Basta! Pimmia sinni pogghiri. Io non la voglio più intra ‘sta casa!”, iniziò a urlare il papà mentre buttava i vestiti di Mariuccia sulle mattonelle del corridoio. “Devi dire a tua figlia di non rientrare più qui. Maledetto quel caruso, quel ragazzino, che ha rovinato la mi casa”, disse scoppiando a piangere, prima di trovare Mariuccia a casa della cognata, prima di darle due ceffoni e prima di chiederle scusa, piangendo ancora un po’ e facendosi perdonare comprando poi regalini per tutta la gravidanza. Scusa, amore mio.
Il ragazzo, Gabriele, però non si faceva più sentire: il papà di Mariuccia lo chiamò spiegandogli che lui doveva prendersi tutte le responsabilità del caso (“Come sei stato grande per metterla incinta ora deve essere grande per mantenerla”, gli disse ) ma lui aveva smesso di rispondere al telefono, Mariuccia aveva deciso di mollarlo ed era così rimasta sola con i genitori; dormendo pochissimo la notte, scoprendo che a Giarre, a pochi chilometri da casa sua, c’era un meraviglioso centro di aiuto alla vita che l’avrebbe aiutata a portare avanti la gravidanza; e poi iniziando a uscire ogni giorno con la mamma, cominciando a guardare i vestitini, mangiando un sacco di cocco, un sacco di patatine, un sacco di ricci di mare, provando a fare quello che secondo lei avrebbe dovuto imparare a fare una mamma (“Mi sono anche imparata a fare il punto croce e poi mi sono imparata anche a ricamare”) e vedendo la futura nonna che il giorno stesso che l’ecografo le aveva detto che era una femminuccia era scappata via di casa per entrare nel negozio di prima nascita spendendo per il vestitino della nipotina tutto lo stipendio di agosto.
Fu una gravidanza magnifica.
Poi lo scorso 29 ottobre, Mariuccia entrò nel bagno di casa e cominciò a gridare: “Mamma!!”. Mezz’ora dopo era in ospedale e un’ora dopo era su un lettino dove cinque ore più tardi avrebbe visto nascere quella bambina bellissima che oggi ha sei mesi, che sembra sua sorella, che veste largo come i cantanti famosi, che non sopporta le sciarpette, che ha un sacco di pigiamoni gialli, che non vuole mai il latte, che come la piccola di Juno rischiava di non nascere e che invece ora ha due guance grandi grandi come quelle della nonna e che quando ti guarda negli occhi si dà due pugni in testa e poi ti saluta con la manina.
Claudio Cerasa
10/04/08

mercoledì 9 aprile 2008

Il Foglio. "Veltroni “Bearzot” aspetta Obama e si difende con i WalterPop"

Roma. L’irresistibile nuova stagione che Walter Veltroni aveva disegnato a giugno sul palchetto rosso del Lingotto di Torino rischia di arrivare al prossimo weekend elettorale con un leader costretto a declinare la propria vocazione maggioritaria sulle spalle di una corrente personale più che di un partito tutto suo. Un partito che negli ultimi mesi è sembrato molto silenzioso e un po’ troppo pasticcione e che oggi si ritrova di fatto con pochissimi effettivi pronti a remare insieme con il proprio candidato premier. Risultato? A sei mesi dalle ultime primarie democratiche, sulla scialuppa di W gran parte degli ex diessini oggi si nascondono; e accanto ai veltroniani spiccano sempre di più gli ex popolari (e qualcuno al loft ha cominciato a chiamarli “WalterPop”). Rischio per certi versi calcolato da W, dato che era stato lo stesso Veltroni a circoscrivere il problema al Lingotto di Torino. Era il giugno del 2007: “Non si comincia un nuovo viaggio con un equipaggio dilaniato da vecchi rancori e preoccupato di gettare dalla nave chi a essa si affaccia per la prima volta. Qui bisogna incrociare le storie e aprirsi. Bisogna arrivare a una ‘indistinguibilità’ organizzativa di ciascuno. Per questo, il Partito democratico non sarà mai un partito di ex. Sarà, finalmente, la casa dei democratici”. Solo che a pochi giorni dalle prossime elezioni, in quel Pd paragonato ieri da W alla formidabile Nazionale di calcio che trionfò al Mundial del 1982, gli eredi politici di Rossi, Conti, Tardelli e Zoff, se ci sono, si nascondono benissimo, rilasciano pochissime interviste, evitano con cura le seconde serate e quando parlano mettono spesso il loft davvero in imbarazzo. Non è un mistero, infatti, che le ultime truppe rimaste a custodire il fortino sotto assedio del segretario del Pd – truppe che non hanno i baffi e che non parlano piacentino – sono proprio le stesse che per prime, a giugno, avevano investito sul nome dell’ex sindaco di Roma (il primo a dire: “Se Veltroni si candida, io lo voto” fu Franceschini, il 20 giugno) e sono le stesse che oggi difendono il segretario del Partito democratico. Massimo D’Alema si fa scappare che lo slogan del Pd è un po’ moscietto? Pierluigi Bersani si fa scappare che il Pd deve cambiare passo? Nicola La Torre chiede un congresso dopo il voto? Goffredo Bettini fa un’innocente gaffe spiegando, pubblicamente, che il Pd deve raggiungere il 35 per cento? Bene: a D’Alema allora risponde il vice di W Dario Franceschini; a Bersani risponde l’ex ministro Fioroni (anche se in una delle pause dell’ultima puntata di Ballarò, l’ex ministro ds, per il titolo un po’ forzato nella sua intervista alla Stampa, ha sgridato Federico Geremicca, vicedirettore del quotidiano torinese e autore del programma di Giovanni Floris); e, soprattutto, a Bettini e a La Torre risponde il presidente del Senato Franco Marini, così: “Uno che capisce un po’ di politica, di queste cose non dovrebbe parlare, soprattutto in campagna elettorale”; “Credo sia privo di senso ma molto autolesionista discutere ora della leadership del partito”; “Mi chiedo come sia possibile mettere in discussione la leadership di Veltroni”.
Sarà anche per questo, dunque, che studiando gli ultimi generosi sondaggi arrivati al loft in questi giorni (sondaggi Swg e Ipsos), i veltroniani hanno scoperto che nella corsa elettorale tra Pd e Pdl e tra W e Cav, il Pd registra un deficit piuttosto grave non tanto nel testa a testa tra i due leader quanto nella percezione di scarsa solidità che gli elettori hanno del Partito democratico. Un dato letto con preoccupazione da molti veltroniani, convinti che le prossime elezioni rischiano di trascinare il Pd nella stessa clamorosa crisi post Mundial che ebbe la Nazionale di Bearzot dopo il 1982 (Bearzot però il Mundial lo vinse) e certi, inoltre, che per evitare il commissariamento post elettorale del Loft e per permettere a W una sconfitta quantomeno onorevole, prima del prossimo weekend, oltre che scrivere lettere al Cav., oltre che invitare sul palco di Bologna il sindaco di Parigi Bertrand Delanoë, serve qualcosina in più. Serve almeno un colpo di scena. Per esempio venerdì a Roma, per esempio un messaggio di Barack Obama. W e Franceschini ci stanno lavorando. E a Roma, in video, Obama ci dovrebbe proprio essere.
Claudio Cerasa
10/04/08

venerdì 4 aprile 2008

Il Foglio. "Storia di una magnifica lapdancer in gravidanza"

Rumena, bellissima, ventinove anni, incinta, malata, non fidanzata ma molto innamorata. Che dice prima le donne e ancora prima i bambini

Lei li faceva impazzire scendendo piano piano dal palco, con una mano che scivolava lungo il corpo e con l’altra che accarezzando le spalle le slacciava a passo di danza giacca, camicia, reggiseno e pantaloncini; lui, invece, non era così cattivo: era bello, era alto, aveva la pellaccia scura, aveva un fisico perfetto, faceva il buttafuori, era molto simpatico, ballava da Dio e poi sì, era un gran puttaniere, e anche per questo lei aveva detto di no. Lei, Caecilia, si era innamorata di John la sera del 15 gennaio, all’ingresso di una famosa discoteca di Milano. Aveva ballato con lui un po’ di salsa, un po’ di merengue, un po’ di tango e un po’ di bachata; aveva parlato per molte ore del suo lavoro, della sua storia, di suo padre, dei suoi fratelli e della differenza che esiste tra una lap, uno strip, un table, una dance e un tease. Così, lui le aveva chiesto il numero, lei gli aveva dato un appuntamento, poi avevano fatto l’amore e dopo poche settimane Caecilia aveva scoperto di essere incinta, e aveva paura che fosse proprio come le altre volte. E in effetti era così, ma questa volta era un po’ diverso.
“Dottore, cos’è quella perlina?”.
Le avevano detto che si sarebbe dovuta calmare, perché in quelle condizioni sarebbe stato davvero pericoloso andare avanti; perché Caecilia era rimasta incinta altre quattro volte ed era andata sempre allo stesso modo. Streptococco, quando sei incinta, significa perdite di sangue, significa mal di pancia molto forte e significa anche gravidanza a rischio. In questi casi, come direbbe il ginecologo, il problema è semplice: “Il prodotto del concepimento” viene in genere espulso vivo e la cervice (il condotto che dalla vagina porta alla cavità uterina) cede quasi improvvisamente sotto la pressione dell’utero. Ti arrivano le contrazioni, tu partorisci, non capisci perché e sulla tua cartella clinica ti scrivono sempre quelle parole lì, “aborto spontaneo”.
Era andata così anche un mese prima, a settembre, prima di incontrare John. Rimase incinta, Caecilia; rimase incinta – di una di quelle gravidanze che per quanto inaspettata lei proprio non riusciva a chiamare “indesiderata” – e poi perse il bambino alla tredicesima settimana. Anche quella volta le fu diagnosticato un aborto spontaneo e anche quella volta Caecilia fu sottoposta a un raschiamento: il ginecologo le dilatò il canale cervicale, le controllò che l’utero fosse pulito con una curette tagliente, a forma di cucchiaio, e le chiese quindi di ritornare un mesetto dopo. Quando tornò per l’ultimo controllo, una volta incontrato John, le spiegarono che era di nuovo incinta.
Non lavorava da tre mesi, Caecilia. Era in uno di quei periodi in cui una vera ballerina di lapdance doveva riposarsi un po’; uno di quei periodi in cui doveva studiare, in cui doveva scoprire nuovi movimenti e in cui doveva sperare che qualche locale, scaduto il contratto, la richiamasse presto. Lavorava molto, lei: dieci mesi l’anno, tutti i giorni della settimana, sette ore ogni notte, chiusure dei locali la mattina alle 4.30 e poi le due settimane di pausa. In quei giorni, però, Caecilia, aveva un mal di testa forte e un formicolio fitto fitto sulla parte destra del viso; fastidioso ma nulla di grave. Caecilia aveva scoperto di essere incinta di notte, tornando da sola a casa dopo aver vinto centocinquanta euro a carte, con un full di donne e assi, a casa di Barbara, la sua ex coinquilina domenicana. Lo aveva scoperto con quel test di gravidanza a cui Caecilia non riusciva a credere. Poi l’infermiere dell’ospedale le confermò tutto. “E’ successo”, disse al suo ragazzo il giorno stesso tornando a casa. John, però, diceva che era troppo presto, che quel figlio era inaspettato, che lui non era pronto, che era troppo giovane, che voleva avere ancora tempo di vivere e che in fondo lui, in quella condizione, non si sentiva ancora a suo agio. E questo, anche se John l’amava, anche se voleva stare ancora con Caecilia, anche se continuava a dirle che lei era la donna della sua vita, che lui avrebbe voluto costruire una famiglia, che non l’avrebbe voluta perdere e che, proprio per questo, lei doveva però interrompere quella gravidanza. John le disse di scegliere. Fu un pomeriggio, lui aveva il turno in discoteca, lei aveva appena fatto due calcoli sul suo conto in banca (“Vaffanculo. Mi dovevano pagare i contributi e invece non mi hanno pagato nulla. Potevo far guadagnare al locale mille euro in più ogni sera, e invece niente: così mi sono svegliata una mattina scoprendo di aver lavorato anni e anni senza aver mai pagato un mese di pensione. Come si fa? Come si fa quando la gente si stanca di vederti mezza nuda e arriva un giorno in cui non ti faranno più lavorare?”); John, prima di uscire, le spiegò che non c’era più nulla da aspettare. Devi decidere, le disse mentre si chiudeva dentro il suo poncho di lana nera. Scegli, o il bimbo o me. Caecilia lo guardò e disse il bimbo, quando ancora non sapeva che era una bimba. Non era una scelta semplice, non lo era per tanti motivi. E non solo per una questione di statistiche: perché, in media, come calcolalato dal population services international, in Romania ancora oggi ci sono moltissime donne che abortiscono. Chi tre, chi quattro volte nel corso della propria vita; perché nel famoso decreto settecentosettanta, firmato da Ceaucescu nel 1966, era prevista anche una legge che vietava l’uso dei contraccettivi e, anche per questo, ancora oggi molte donne rumene incinte, che non desiderano un figlio, ricorrono all’aborto quasi come fosse una pratica contraccettiva. Così, nel 1990, la population services Romania registrò circa un milione di aborti, dopo averne già registrati circa 11 milioni fra il 1989 e il 2000. (La Romania, tra il 2003 e il 2006, secondo un recente rapporto del Conseil de l’Europe, “Evolution demographique recente en Europe”, detiene ancora il tasso di abortività più alto d’Europa, preceduta solo dalla Russia: 46,8 per cento). E anche in Italia basta entrare in un qualsiasi consultorio per scoprire che tra le non italiane le ragazze rumene sono quelle che interrompono di più le gravidanze. Nel Lazio, per esempio, sui quindicimila aborti registrati ogni anno circa un terzo sono quelli fatti da donne rumene. “Rischiano di cadere nella mani delle mammane le donne immigrate, soprattutto quelle irregolari, a causa della mancanza di conoscenza delle norme italiane che garantiscono loro la stessa tutela della maternità e lo stesso diritto di abortire in ospedale”, ripete da tempo Aldo Morrone, direttore dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti.
Ma non era solo una questione di statistiche. C’era dell’altro, per Caecilia: perché con una famiglia un po’ difficile come la sua (il papà rigido ex capo della sezione anticrimine della polizia di Bucarest e i fratelli con qualche guaio in Germania) sapeva perfettamente che non sarebbe mai dovuta rimanere incinta con un ragazzo di colore. A casa, le avevano detto così. E poi c’era ancora la storia della perlina. A marzo, Caecilia arriva in un ospedale lombardo con le contrazioni che le strozzavano l’addome già da qualche mese. In una situazione quasi impossibile: senza uomo, senza lavoro e senza genitori. Il ginecologo, nelle settimane precedenti, era stato chiaro con lei: le aveva detto di stare molto attenta, perché anche quella sarebbe stata una gravidanza a rischio. Per questo, avrebbe dovuto rilassare l’utero. Niente stress. Invece John, che ogni tanto tornava a casa, provava a convincerla e continuava a picchiarla. Arrivata in ospedale, Caecilia era già pronta per partorire. Sulla cartella clinica le avrebbero scritto aborto spontaneo, come le era successo a Bucarest, sei anni fa, come le era successo a Pavia, due anni fa, come le era successo a Pisa, poche settimane prima di rimanere nuovamente incinta. Ma questa volta lei voleva far davvero di tutto per salvare sua figlia. Ci credeva davvero; e aveva scelto di andare avanti, aveva detto che quella bambina l’avrebbe cresciuta anche senza papà e che per non correre rischi avrebbe chiesto a un ginecologo di capire se c’era un modo per non perdere la figlia. Lui le disse di sì; ma per farlo Caecilia doveva essere “cerchiata”. Solo così avrebbe evitato che quella “condizione di precoce dilatazione del collo dell’utero” si aggravasse ancora di più. Caecilia venne operata d’urgenza. Il ginecologo le fece scivolare una fascetta di tessuto non riassorbibile attorno al collo dell’utero, le circondò la mucosa, chiuse il canale cervicale e ripristinò così la funzione di contenimento del materiale ovulare – impedendo la fuoriuscita prematura del sacco amniotico e di fatto evitando anche l’interruzione della gravidanza. Il nastro sarebbe stato poi rimosso solo al momento del parto. Caecilia scoppiò a piangere, ma era davvero felice. In quei giorni, la bambina pesava circa trecento grammi e se fosse nata non ce l’avrebbe mai fatta. A quel punto, però, John non capì: Caecilia gli spiegò in che senso fosse stata “cerchiata”; lui disse che non era possibile; che non poteva credere che le avessero “chiuso l’utero”; che quella era solo una scusa; che lei si era messa d’accordo con il ginecologo; che a lei non gliene fregava più un cazzo di lui; e che in realtà, pensava John, Caecilia aveva un’altra idea. Lo voleva punire. Non voleva più fare l’amore con lui. “Bravi, ottimo piano. Ciao Caecilia, io torno a casa”. E John, nei mesi successivi, tornò davvero a casa.
Due giorni dopo, lei arrivò in ospedale la mattina, molto presto. Fece una risonanza magnetica e capì che quel formicolio fitto fitto sulla parte destra del viso, e quel puntino che avrebbe visto sulla pellicola radiografica che lei avrebbe cominciato a chiamare “perlina”, era un tumore al cervello. Una gravidanza, le avevano detto, non era consigliabile. Perché sarebbe stato rischioso, si sarebbe dovuta curare, avrebbe dovuto fare molte visite, molti controlli, molti esami. Il neurologo le disse che sarebbe stato opportuno non andare avanti. Fermati qui, Caecilia. Lei però la pensava in maniera diversa: litigò con molti dottori (che le avevano suggerito di curare prima il suo tumore e poi di pensare alla bambina), ci pensò a lungo, pensò a tutti quei raschiamenti che aveva già fatto, a quelle vite che aveva già sentito spegnersi dentro di sé per quattro volte e quando glielo chiesero disse semplicemente così: “Prima pensate a lei, poi pensate a me”. Non le interessava come. A Caecilia – che ama molto Oscar Wilde e che sa perfattemente che come diceva lo scrittore inglese “Vita è ciò che succede mentre noi pensiamo ad altro” – interessava solo che quel figlio arrivasse. “Sì, prima le donne e ancora prima i bambini”, dice sorridendo Caecilia, splendida ventinovenne rumena, ottima ballerina di lapdance con mioblasfoma laterale (tra pochi giorni riceverà l’ultima, decisiva, risonanza magnetica), curata praticamente gratis da un ginecologo bravissimo e oggi mamma di una bambina di cinque mesi; nata alla trentottesima settimana (il 25 dicembre del 2007) con un’anca un po’ schiacciata e con un nome bellissimo, metà greco come la nonna e metà rumeno come il nonno; che in italiano suona come Delia, che in greco suona come Delon e che quando lo scandiscono in rumeno è come se ti dicessero che sembri quasi un fiore.
Claudio Cerasa
04/04/08