domenica 25 marzo 2007

sabato 24 marzo 2007

Il Foglio. Così sono nate (e funzionano davvero) le tariffe low

Roma. Oltre al fascino del popolo low, il grande tratto distintivo
dei voli a basso costo è rappresentato dalla drastica riduzione che
i low cost hanno portato ai prezzi di mercato grazie a quella rivoluzione
iniziata in Europa con un tale Tony Ryan, il papà della
Ryan Air, che a metà degli anni Settanta chiese a un manager della
compagnia irlandese Aer Lingus di poter prendere in noleggio
una parte della flotta che finiva in eccesso durante la bassa stagione
e da lì diventò miliardario. Era il 1996 e Tony Ryan, grazie
all’Airline Deregulation Act del 1978, cominciò a riprodurre in Europa
l’esperienza dell’americana Southwest Airline: iniziò a collegare
gli aeroporti secondari (sono gli aeroporti piccoli quelli in
grado di far risparmiare le compagnie sulle tasse aeroportuali),
creò un mercato completamente nuovo che, almeno per i primi
tempi, non portò via troppi clienti alle compagnie di bandiera (chi
vola low prima non volava per niente semplicemente perché non
poteva permetterselo), ha reso più rapide le procedure di checkin,
ha scelto di non distribuire più né giornali né pasti né panini
né bevande, ha scelto di fare economia sulla carta dei biglietti (i
ticket si fanno solo on line), ha risparmiato sui numeri del personale,
ha deciso di limitare le soste a terra, ha iniziato a utilizzare
lo stesso aereo per più volte durante la giornata e ha deciso di far
pagare tutto ciò che, teoricamente, il viaggiatore potrebbe considerare
superfluo (i bagagli in più, il cambio di prenotazione, il
cambio di nome). (Per capire in che modo le low cost hanno rivoluzionato
il mercato dei cieli, uno dei modi più semplici è quello
di andarsi a leggere il paper “Milano-Londra sette euro, come la
Ryan Air ha ridotto i prezzi, spezzato il monopolio e unito l’Europa”
realizzato dall’Istituto Bruno Leoni).
Secondo il rapporto Eurispes del 2007, il volume dei voli low cost
in Europa è in forte crescita e solo in Italia, dal luglio 2003 al febbraio
2006, la percentuale dei voli low cost – per quanto riguarda
le tratte interne – è aumentata di 11,3 punti percentuali, mentre invece
in Italia l’offerta low cost è coperta dalla Ryanair per il 18,6
per cento del territorio nazionale (il totale comprende le settantuno
rotte europee e le quattro nazionali). E le tariffe ora, sempre
che si riesca a prenotare in tempo, sono potenzialmente davvero
basse. Poi però capitano cose che potrebbero sembrare strane ma
che in realtà non lo sono affatto. Capita infatti che se prenoti un biglietto
con la Ryan Air (Roma-Londra, dieci marzo) e se prenoti il
ritorno con l’Alitalia (Londra-Roma, undici marzo) e se i biglietti
(tutti e due) li prenoti su Internet il sette marzo, cioè tre giorni prima
della partenza e quattro giorni prima del ritorno, capita che
l’aereo della Ryan Air (all’andata) sia più pieno rispetto a quello
dell’Alitalia (al ritorno) e capita quindi che il biglietto dell’Alitalia
costi meno anche rispetto a quello della Ryan. E questo capita
anche grazie alle low cost, che avendo abbassato notevolmente i
prezzi di mercato e avendo quindi creato per la prima volta una
certa concorrenza nelle tariffe delle tratte aeree, hanno costretto
davvero le grandi compagnie a organizzarsi per poter essere competitive
con i nuovi (e più bassi) prezzi di mercato.
Claudio Cerasa
24/03/07

Il Foglio. "Ritratto in terra e in volo del viaggiatore low cost"

Easy, Ryan, Wind, Go, My, Wizz, Sterling,
Wing, Blue, Smart, Fly, Air,
Clik, Jet e poi cost ma very very low. Di
qua ci sono gli zaini, i biglietti senza posti
assegnati, gli aerei senza panini, con
il volo gratis (paghi solo le tasse), con gli
aeroporti piccolissimi (cioè quelli secondari),
senza metro, senza trenino,
senza la very vip lounge room, con i taxi
di Orio al Serio, i bagagli di Stansted, i
pullmini di Gatwick e con Ciampino
che diventa (nelle cartine) come se fosse
Roma, con Pisa che diventa Firenze,
Forlì che diventa Bologna, Bergamo
che diventa Milano, Brescia che diventa
Verona, Treviso che diventa Venezia,
Girona che diventa Barcellona, Bilbao
che diventa Santander, Charleoi che diventa
Bruxelles e Parigi Beauvais che
diventa Parigi e basta. Di qua il volo
low, di là il volo normal, con la valigia
rigida, il ventiquattro per cento di voli
in ritardo (quelli della British) e l’undici
per cento delle valigie che partono e
che poi non arrivano (quelle dell’Alitalia).
Di là il volo cost, che non è low, ma
non si può neanche chiamare high e
che a volte è un po’ più slow, cioè più
lento, anche dello stesso low, di qua il
volo che diventa parte dell’esperienza
del viaggio, con gli applausi all’atterraggio,
l’aereo giallo come i pulmini del
dopo scuola, senza acqua, con gli
stewart un po’ incazzati, con i posti davanti
e quelli dietro lasciati liberi perché
così ragazzi bilanciamo l’aereo, i
sedili schiacciati, il corridoio stretto e
con le tratte, ora, prese un po’ di mira
anche dal ministro Bersani che nella
sua ultima lenzuolata ha voluto liberalizzare
anche chi già, in realtà, un po’ liberalizzato
lo era (al punto quattro del
decreto legge del trentuno gennaio si
legge così: “Al fine di favorire la concorrenza
e la trasparenza delle tariffe
aeree, di garantire ai consumatori un
adeguato livello di conoscenza sugli effettivi
costi del servizio, nonché di facilitare
il confronto tra le offerte presenti
sul mercato, sono vietate le offerte e
i messaggi pubblicitari di voli aerei recanti
l’indicazione del prezzo al netto
di spese, tasse e altri oneri aggiuntivi,
ovvero riferite a una singola tratta di
andata e ritorno, a un numero limitato
di titoli di viaggio o a periodi di tempo
delimitati o a modalità di prenotazione,
se non chiaramente indicati nell’offerta”).
Di qua il viaggiatore low, di là
quello che dice che il volo low è in
realtà parecchio cost, perché sai le truffe
che ci saranno, sai che aerei che
avranno, sai che trucchi si inventeranno
e che quindi attenzione alle tariffe,
attenzione ai biglietti senza tasse, attenzione
al bagaglio supplementare, attenzione
alle offerte super scontate, attenzione
ai quattro punto cinquanta euro
del bagaglio a mano, agli otto euro
per ogni chilo in più, attenzione al cambio
prenotazione, alla sovrattassa con
carta di credito, al bagaglio aggiuntivo
nella stiva, alle tasse sui deltaplani, ai
surf e attenzione al windsurf che, effettivamente,
portarlo a bordo costa davvero
un po’ di più. Di qua il forzato del
last minute, il forzato del low cost, l’ex
viaggiatore da Inter-Rail, quello che
viaggia low per risparmiare, quello che
viaggia low solo per “non far arricchire
lo stato” e quello che dice che le bandiere
non ci sono più, non ci sono più
nel calcio e figuriamoci nelle compagnie
aeree. Di qua il viaggiatore low cost,
di là il viaggiatore con la valigia rigida,
quello che non ha mai comprato un
biglietto su Internet e che anche se glielo
regalassero non lo comprerebbe mai,
quello che vuole il posto largo, quello
che vuole sei sacchetti antivomito, la fila
ordinata, la fast lane e la corsia della
business class; quello che ha una
Sim card per ogni paese dove arriva,
che non dimentica mai di aggiornare il
fuso orario e che quando si mette in fila
non vede compagni di volo ma vede
solo pericolosissime persone che potrebbero
superarlo da un momento all’altro.
Perché di là c’è la fila tipo ufficio
postale, quella con il numeretto
scritto in nero, i passeggeri ordinati, a
volte annoiati, spesso in silenzio e quelli
con le stesse facce dei venerdì in cui
si ritirano le pensioni e che quando c’era
lui, altro che numeretti. Di qua la fila
low con i sacchettini e i sacchi a pelo,
di là, invece, il check-in rapidissimo,
con le valigie tutte uguali, tutte in serie
e poi i trolley, i borsoni in pelle di camoscio,
gli sci Rossignol e molte cravatte
rosa. Di qua “next passenger for
‘Orio al Serio’” (che a Ciampino viene
solitamente pronunciato come se fosse
un gioiello pregiato da utilizzare la sera:
cioè un Oro ar sero), di là “next passenger
for London, Heatrow”, “next
passenger for Rome, Fiumicino”, “next
passenger for Milan, Malpensa”. Di là
la valigia che forse arriva o forse no. Di
qua lo zaino che forse arriva o forse no,
e anche se poi non arriva, vuoi mettere,
almeno il volo era low. Di là il volo perfetto
ma non sempre preciso, di qua il
volo con gli zaini e con l’aereo che fa
parte del viaggio, con il viaggio che comincia
con il decollo dell’andata e finisce
con l’atterraggio del ritorno. Di qua
la low cost, di là la non low cost. Di qua
la Ryan Air, cioè la stessa compagnia
che nel millenovecentonovantasei a novantanove
sterline ha collegato per la
prima volta Dublino e Luton/London
(che è un po’ come dire Treviso/Venezia)
mentre di là la stessa tratta costava
ancora duecento sterline (ma in quel
caso la compagnia concorrente poco
prima che iniziasse la prima tratta low
cost in Europa, in un’ora, solo in un’ora
abbassò il suo biglietto a novantacinque
sterline dato “l’improvviso calo dei
prezzi benzina” e “data l’improvvisa riduzione
della sterlina”. Come no). Di là
quelli che nel duemilasei hanno perso
qualcosa come trecentottanta milioni
di euro, quelli che sugli aerei distribuiscono
molti cioccolatini, quelli che regalano
una rivista che si chiama Ulisse
e che ogni mese costa diecimila euro
solo per lo stipendio della direttrice,
quelli che pagano centosessantamila
euro per una pubblicità (quella con l’attrice
Marina Malfatti), quelli che ti fanno
scegliere tra il pasto diabetico, quello
ebraico, quello hindu, quello ipocalorico,
quello ipocolesterolo, quello
iposodico, quello musulmano, quello a
base di pesce, quello senza glutine,
quello senza lattosio, quello vegetariano,
quello asiatico, oppure semplicemente
quello a base di uno “snack” (ma
la mattina sull’aereo, si può scegliere
tutto, si può scegliere un pasto tibetano
o un pasto vietnamita, ma alla fine sempre
lo “snack” arriva). Di qua, invece, i
quindicimila voli in più negli ultimi tre
anni, l’undici virgola tre per cento in
più di tratte interne rispetto al luglio
del duemilatre, il novantadue per cento
di voli in orario e lo zero virgola cinque
per cento di bagagli smarriti. Di
qua la Ryan Air, di là l’Alitalia. Di là il
volo bello, pulito, elegante, con le valigie
perfette, le hostess parecchio fiche,
il pasto hindu e quello ipocalorico; di
qua il volo che da Roma a Londra in un
giorno qualsiasi (ad esempio il ventisette
giugno) costa ventitre euro e venticinque
centesimi, cento euro in meno
del volo standard dell’Alitalia e dieci
euro in meno di un taxi da San Pietro a
Ciampino. Di là gli aerei con i panini,
gli snack, la rivista Ulisse e i sacchetti
antivomito, di qua semplicemente il popolo
del low cost.
E’ il dieci marzo, sono le quattro e
ventisei minuti.

Il forzato del low cost. Pantaloni via
Sannio, pochissime valigie, sacchetto
rosso, molte cerniere, zaino che scoppia,
cappellino appeso alla cinta, felpa Adidas
con cappuccio, scarpe da ginnastica
con suola rinforzata, plantare, iPod, moschettone,
maglietta a righe celesti, a
Londra c’è già stato almeno sei o sette
volte, all’aeroporto di Ciampino arriva
la sera prima, il volo è alle sei e quaranta
minuti, potrebbe prendere il taxi, potrebbe
prendere la navetta, lui dorme
fuori dall’aeroporto, non perché fa più
fico, come dicono gli amici, semplicemente
perché è fico così. Sono le cinque
e trentaquattro, lui in testa ha già gli occhiali
da sole. Il forzato del low cost è il
primo a fare il check-in, poi resta in zona,
studia i suoi compagni di viaggio, li
studia bene e inizia a pensare all’operazione
“posto migliore a sedere”. La fila
si allunga, ci sono davvero molti zaini,
qualche trolley, borse da ginnastica, borsoni
Inter-Rail con cinte, ganci, sacco-a
pelo, asciugamani che un tempo probabilmente
dovevano essere bianchi, borsoni
scuola calcio (sotto le scarpe, sopra
l’accappatoio), qualche maglietta, molte
felpe con il cappuccio. Il forzato del low
cost, del last minute e del last second è
quello che legge molti giornali, quello
che se ci parli ti dice che legge la pagina
delle lettere, ti dice che adora Corrado
Augias, ti dice che adora Sergio Romano,
ti dice che li legge con attenzione
(anche se spesso non li capisce, ma lui li
legge proprio per questo), ti dice che sospetta
siano la stessa persona e ti dice
che durante lo sciopero delle firme di
Repubblica e Corriere è rimasto piuttosto
spiazzato quando ha scoperto che oltre
alle firme, Romano e Augias avevano
tolto anche le proprie foto. Il forzato del
low cost mangia solo low, riceve molte
newsletter, cerca sempre l’offerta, Londra
gratis, Parigi a metà prezzo, last minute
e last second; non sa usare bene Internet
ma compra su eBay, usa il bancoposta,
non ama le carte di credito, guarda
spesso Ballarò. Composizione dello
zainetto: guida Routard Londra anno
2001/2002, appunti, sconti per i locali (a
lui piace chiamarli “flyer”), offerta per
Steak House Piccadilly, ancora scontrini,
buoni pasto, giacca Marlboro Classic,
libri a tema con la città di destinazione:
“Londra. Mappe, storie, labirinti” (in
quota metropolitana), “Come trovare lavoro
a Londra e dintorni” (in quota con
quello che vale qui a Londra la sterlina),
“I segreti di New York” (in quota libro io
in America non c’andrei manco morto),
“I segreti di Parigi” (in quota libro perché
non facciamo anche un salto a Parigi),
“I segreti di Roma” (in quota libro a
Roma fosse per me non ci tornerei più ),
“Inchiesta su Gesù” (in quota viaggio mistico,
ma la religione non c’entra) e poi
“I segreti di Londra” (in quota magari
un giorno mi ricordo di metterci anche i
calzini nello zaino). Il forzato del low cost
ama molto Corrado Augias (i libri sono
quasi tutti suoi), ma in giro preferisce
non raccontarlo a nessuno. Il forzato del
low cost parte con pochi vestiti, molti li
comprerà a Camden Town (la domenica)
e poi a Portobello (il sabato).
Sono le cinque e cinquantadue minuti,
l’operazione posto a sedere comincia
proprio qui. Il forzato del low cost conosce
perfettamente i tempi di ogni aeroporto
low: conosce i tempi del check-in,
i tempi dell’acquisto del giornale, i tempi
dei collegamenti tra aeroporto-navetta-
aereoplano. Lui studia i compagni di
viaggio, sale sulla navetta e già vede in
lontananza l’aereo bianco, quello con la
striscia gialla. L’aereo è quello della
Ryan Air, è proprio lui. Il forzato del low
cost pensa di essere molto bello. Sulla
navetta che porta all’aereo si parla molto.
Lui abbassa lentamente il volume
dell’iPod, abbassa la visiera del cappellino,
mani in tasca, si allaccia le scarpe,
molti sorrisi, il forzato del low cost sa
perfettamente quello che gli altri non
sanno. Prende il biglietto, lo infila nel
passaporto, finge di controllare il suo
posto. Parla un po’ a voce alta, è da solo,
ma vuole farsi ascoltare. “Fila 06. Posto
13”. Si girano due ragazze, lui finge ancora
di ascoltare la musica, il volume è
però ormai molto basso e si avvicina a
poco a poco all’uscita della navetta. Il
forzato del low cost non ha mai capito
perché il pullmino si chiama navetta. La
navetta continua a camminare, è in movimento
da dieci minuti, è molto vicino
al Raccordo Anulare, voci incontrollate
lo danno proprio sul Raccordo Anulare.
Per fortuna non è così. Il pulmino, cioè
la navetta, si ferma e si fermano tutti. Il
forzato capisce che i forzati, in realtà, sono
tantissimi e capisce quindi che per
ogni biglietto c’è una tattica, capisce che
ormai è troppo tardi per le strategie e
capisce che non c’è tempo per fare nulla,
per la navetta, per il cappellino, per i
lacci, per l’iPod. Perché lui sa che chi arriva
prima sull’aereo si sceglie il posto e
si sceglie il compagno di banco. Lui lo
sa, ma non è il solo. Si ferma la navetta,
il forzato capisce che la tattica fila 06 posto
13 non funziona più perché è una tattica
vecchia e perché lo sanno tutti che
sul low cost non ci sono posti assegnati e
perché lo sanno tutti che 06 non è il posto
e che 13 non è la fila e che, in realtà,
è solo l’orario di imbarco. Ora però non
c’è più tempo, non c’è più tempo di fare
nulla. C’è solo una cosa da fare ora: c-or-
r-e-r-e. Sono tutti di fronte alla portiera,
si aprono le porte, si blocca la navetta,
scatta l’operazione posto a sedere, si
corre, si scappa, si cerca l’entrata giusta,
qualcuno cade, le hostess arretrano, sono
terrorizzate; la scaletta del low cost si
regge per miracolo, “benvenuti su
Ryan”, alle 6.03 l’aereo è già tutto pieno,
con cinque file vuote davanti e cinque file
vuote indietro. “Welcome”, e poi
“Thank you”. Sono le sei e zero cinque,
il forzato del low cost è già molto sudato,
s’infila l’iPod, alza la musica, ascolta i
Bluvertigo, aspetta il decollo, guarda il
finestrino, si slaccia la cinta, va dallo
stewart e poi – ci prova sempre – chiede:
“Quando se magna?”.

Il low cost per caso e parecchio terrorizzato.
Non ha mai viaggiato low, non è
mai andato a Ciampino, non è mai partito
alle sei e trenta, non sa dov’è
Gatwick, Luton o Stansted, non ha mai
capito perché i tempi per approvare il
decreto sulle intercettazioni sono sempre
piuttosto brevi, viaggia solitamente
con la valigia di plastica blu da duecento
euro, quando vola su Alitalia sceglie
l’opzione pasto “vegetariano”, non vuole
mangiare la carne, non vuole mangiare
il pane, in aereo compra sempre
tutto quello che costa di più, vino rosso,
spumante Ferrari trentacinque centilitri,
posto finestrino avanti non troppo
indietro mi scusi ma soffro l’aereo. Scopre
che sul low non ci sono posti assegnati,
inizia a fare molte domande, tira
fuori le e-mail con i codici stampati, il
sito della homepage, la prenotazione.
Ha molti fogli con sé. Li prende, li riordina,
li mette nel marsupio, ne tira fuori
altri, tira fuori soldi, rimette dentro i
soldi, tira fuori altri fogli. Non ci sta capendo
nulla. Il low cost gliel’hanno raccontato
gli amici del figlio ma i risultati
non sono stati buoni. Confonde ancora
il volo low con quello charter, legge il
Sole 24 Ore e legge Italia Oggi, quando
cade un charter dice al figlio: visto questi
low cost del cazzo? Non ha mai comprato
un biglietto, non ha mai pagato via
Internet, solo agenzie, prezzo pieno, business,
qualche volta economy. “Ma lo
danno il biglietto qui?”. Tecnicamente
lui si sente più che altro in borghese. Il
low cost per caso considera il volo low
cost esattamente come se fosse un centro
sociale, come se fosse la curva sud
dello stadio Olimpico, come se fosse
l’aula occupata dell’università. Ha paura,
non deve farlo capire, ha le mani vicino
alle due tasche che scorrono accanto
alla zona pubica, cerca di capire
l’ambiente, si avvicina alla vetrata dell’aeroporto
e inizia l’operazione identificazione
qualità aereomobile. Sono le
cinque, l’edicola è ancora chiusa, fuori
è buio, l’aereo si vede appena, lui però
non ha ancora imparato a pronunciare
con esattezza quelle lettere scritte in
blu su fondo giallo: Bryan Air, Arian
Ayr. Solitamente ha con sé una valigia
arancione, rigida, sessanta euro, quella
che ogni tanto usa anche la moglie e
quella che venerdì scorso ha deciso di
sostituire con una valigia blu comprata
al Tucano di Fontana di Trevi: molto
brutta ma perfettamente integrata con
l’ambiente (secondo lui). Dopo cinque
minuti le rotelline anteriori sono già
bloccate. Il low cost per caso inizia a essere
un po’ agitato. L’edicola apre, lui è
ancora al check-in, si guarda attorno, vede
poche valigie, zaini Invicta, rollerblade,
molte borsette, scarpe da ginna-
stica, al cinema non ha ancora visto Little
miss Sunshine, sui Dico è un po’ perplesso
soprattutto perché sa che un matrimonio
più un matrimonio sono due
matrimoni ma non riesce a declinare al
plurale la parola Dico (Dici, Dichi, Dicoi).
In fila davanti a lui tre ragazzi sono
seduti per terra; stanno appallottolando
mutande, camicie e magliette. Sono tutte
in un sacchetto perché – dicono – una
valigia in meno è sempre meglio che
una valigia in più. Il low cost per caso
adesso è spaventato, perché lui ama la
fila da guardaroba, per favore fatemi
passare ho molta fretta. Il low cost per
caso non ama la fila da consumazione,
dove non si aspetta ma si attende, dove
si chiacchiera e si sta anche delle ore
fermi senza capire da che lato inizi
quella diavolo di fila. Dove si attende
con calma, dove si beve un bayles e dove
si finisce una capiroska semplicemente
per rimettersi in coda e per provare
a conoscere qualcun altro, lì in fila.
Il low cost per caso aspetta, è molto
nervoso, vuole arrivare subito, non parla
con nessuno, guarda il biglietto completamente
bianco, confonde l’orario di
partenza con il posto a sedere, nella navetta
(che lui chiama bus) è l’ultimo a
scendere, trova posto sull’ala, è terrorizzato,
chiede informazioni allo
stewart, lo stewart si chiama David, 24
anni, studente di Scienze della comunicazione,
laurea breve in Marketing, due
anni di specializzazione in strategie della
comunicazione, capelli corti, occhiali
spessi, è al secondo mese di lavoro,
parla l’inglese un po’ male. Il low cost
per caso si siede sull’ala, lentamente si
gira verso l’oblò, accanto ha un uomo un
po’ grasso che a lui fa molto schifo. Dall’altra
parte c’è Mara, cinquantacinque
anni, che inizia a parlare dei suoi viaggi
low a Bangkok e delle sue escursioni
al Cairo; legge la Stampa, il low cost per
caso è ormai davvero disperato, ma a
pagina trentatre legge la parola “Alitalia”
e si sente un po’ meglio. Ma è solo
un attimo. Mara parla anche della Thailandia,
dice che gli aerei sono sempre
buoni, che finora non ha mai visto nessun
low cost cadere, il low cost disperato
si dispera ancora, ma per fortuna ha
le mani in tasca e tutte e due sono ancora
lì, molto vicine alla zona pubica:
“Questi charter del cazzo”, dice. Il signore
grassoccio, a sinistra, copre due
oblò per intero, il terzo è libero e lui, il
low cost disperato, deve vedere a tutti i
costi com’è fatta l’ala, se c’è qualcosa
che non va, qualche bullone sospetto,
qualche crepa pericolosa. Si sporge un
po’ in avanti, ma molto lentamente perché
il vicino di banco dopo sette minuti
già russa. Finalmente riesce a vedere
l’ala, l’ala è completamente bianca, ci
sono molti bulloni, non aveva mai visto
un’ala prima perché in business l’ala è
sempre dietro e le hostess ti sorridono,
puoi scegliere cibi di ogni tipo e all’ala,
lì davanti, non ci pensi proprio. In quel
momento tira fuori i giornali. Ci aveva
pensato tutta la notte a cosa comprare
in edicola. Perché, su quell’aereo, non
poteva non leggere, ma non doveva e
non voleva dare troppo nell’occhio. Aveva
comprato il Sole, e poi – in quota low
cost – anche la Gazzetta, Chi e Gente.
Dopo i giornali il bar, un cornetto un euro,
un cappuccino un euro, un’acqua
due euro e cinquanta. E’ in quel momento
che decide: prende il biglietto, lo
mette nella tasca della camicia. Doveva
sembrare molto giovane, ragazzi sono
uno dei vostri, ma tutti gli altri il biglietto
lo tengono nella tasca dei pantaloni
semplicemente perché nessuno,
praticamente nessuno, ha con sé una camicia.
Lui se ne accorge, entra nel panico,
è disperato, sa che ormai lo avranno
riconosciuto, sa che non leggerà nulla,
sa che qualcuno potrebbe rivolgergli
la parola, ma soprattutto sa che non
guadagnerà neanche un punto millemiglia.
Arriva in aereo, poggia i giornali, la
tasca davanti a lui è completamente
vuota, non c’è nulla, non ci sono riviste
e non ci sono istruzioni per l’emergenza.
Il low cost per caso sta molto male.
Mara – la sua vicina di posto – parla ancora
di aerei che non cadono mai, l’ala
sembra a posto, lui non tanto. Il low cost
per caso a quel punto si gratta. Quando
finisce cerca ancora davanti a sé,
cerca nel taschino sotto il tavolino, nel
sedile anteriore. Cerca ancora, inizia a
sudare e poi scopre che quassù, su questi
charter, non c’è nemmeno un sacchetto
per vomitare.

Il low cost con sacco a pelo. Confonde
Ventotene con Ventimiglia (e da Ventotene,
se devi andare in Francia, effettivamente
non è semplicissimo arrivarci
con il treno), a Londra non compra nulla
perché moltiplica ancora la sterlina
per tre, rimane nella City al massimo tre
giorni, ha l’ostello prenotato, passa da
Camden Town, Portobello Road, Liverpool
Street, H & M, ha ventisette anni,
l’Inter Rail (il viaggio in giro per l’Europa
a basso prezzo) ora costa troppo, lui
però viaggia solo low e ha cambiato
spesso la propria carta d’identità. Ha
uno zaino nero, uno zaino piccolissimo
che però sembra piuttosto grande; sullo
zaino ha appeso una padella, un asciugamano,
due sacchi a pelo. E’ abituato ai
treni, conosce bene Internet, ha quattro
caselle di posta elettronica, crede di essere
uno dei casi – di cui parla spesso
Repubblica – da “attenzione parziale
continua”, sul telefonino scrive messaggi
senza guardare la tastiera, ha viaggiato
molto con i treni, in Inter Rail preferisce
la zona due e la zona tre, quella da
centodue euro. E’ già stato a Nizza, Cannes,
Barcellona, Valencia, Tarifa, Lisbona,
Amsterdam. Bellissimo ma non ne
può più. Ora preferisce volare con volo
più hotel più auto; scende dall’aereo e si
rifiuta di cambiare il fuso orario del telefono,
conosce parecchi no fly, quelli
che l’aeroporto inquina (anche se in
realtà, per esempio a Ciampino, il traffico
aereo produce solo il due per cento
delle emissioni di anidride carbonica),
quelli che gli aerei fanno schifo, quelli
che i rumori non li vogliamo (anche se in
realtà negli aeroporti low cost, come
Ciampino dalle 23 alle 6.30 i voli sono
vietati), quelli che i low sono troppo low
per tutti e anche per chi ci lavora, quelli
che non vogliamo le aziende di stato e
non vogliamo neanche le aziende non di
stato, quelli che “dagli incontri emerge
la gravità della situazione” e quelli che
questa è una “situazione di fortissimo
impatto ambientale”, quelli che accusano
Ryan Air di tenere sotto scacco e sotto
schiavitù una città, quelli che hanno
scoperto la Ryan Air proprio in Inghilterra,
quelli che però amano le low cost
perché le low cost (tipo la Ryan) per un
po’ regalavano biglietti a chiunque avesse
voluto scrivere e-mail (di protesta) a
Gordon Brown (Brown, ministro delle
Finanze inglese, ha alzato tasse ai low
cost, la Ryan non ha gradito le tasse,
Brown non ha gradito le e-mail) e poi
quelli che proprio in Inghilterra avevano
scoperto che una delle prime campagne
pubblicitarie della Ryan era quella
con un Principe Carlo molto soddisfatto
per la sua scelta così good e così economy
(e per questo ai tempi erano in
molti a essere un po’ preoccupati). Il low
cost con sacco a pelo ha letto Massimo
Gaggi (“La fine del ceto medio”), ha letto
Franco Riva (“Filosofia del viaggio”),
ha letto Kerouac (“On the Road”), non
ha mai sentito nominare Bayrou, al ritorno
dal viaggio ha sempre lo stesso zaino
ma con quattro buste di plastica
bianche in più (e due sono rotte). In aeroporto
compra tutto quello che può,
ama le “tax free” e lui continua a comprare
e a riempire sacchetti, soprattutto
lì in aeroporto. Niente valigie, al massimo
un altro zaino. Poi va in bagno e legge
ancora tax free. Qui dentro però si
vendono solo pacchettini dove ai lati c’è
scritto condom.

Il liberale dodici virgola due. Ama la
low cost, ama gli aerei che non vanno in
perdita, quelli che costano poco, quelli
che non sono statalizzati, dice che “bisogna
far pagare tutto ciò che è superfluo”,
parla di sindacati, riunioni a porte chiuse,
non ha capito (tecnicamente) come
vengono liberalizzate le parrucchiere,
dice che l’Alitalia non ha un futuro, parla
anche di miopia politica, di vettori nazionali,
del bisogno di far cassa, della
sensibilità dei contribuenti, di libere decisioni,
dice che il capitalismo riesce a
produrre quello che il comunismo sogna,
parla di consumatori sfruttati, del
low cost che finalmente dà ai poveri le
stesse opportunità dei ricchi, poi parla
di quattrini nelle casse dello stato, vuole
liberalizzare gli slot, si appella alla
“continuità territoriale”, ai biglietti non
cartacei, allo sviluppo economico, alle
“ricadute positive su costi biglietti”, cita
l’Economist (che nel 2005 ha scritto che
la Ryan Air ha fatto più di qualsiasi diplomatico
o ministro del mondo per integrare
l’Europa), dice che negli ultimi
dieci anni la Ryan Air ha registrato un
solo trimestre di perdita e che lui non
vuole compagnie di bandiera e sulla low
cost ci va anche quando la low costa più
della non low. Il viaggiatore liberale prima
di partire ha fatto ogni verifica, ha
controllato tutto, peso, biglietto, asciugamano,
computer e poi in fila, parecchio
orgoglioso, chiede: “Scusa ma la tua
valigia quanto pesa?”. Prima di partire
ha controllato ogni sito, ha visto Alitalia,
ha visto Ryan, ha visto British, ha visto
Air One, ha visto Lufthansa, ha visto anche
Air France, lui però sceglie low perché
i pagamenti non sono rimborsabili
(mi dispiace cara, il lavoro), perché sa
che i nomi dei passeggeri possono essere
modificati dietro pagamento delle tariffe
applicabili (mi dispiace cara, il lavoro)
e sa che ogni bagaglio in più sono
otto euro (mi dispiace cara, le borsette a
Londra erano finite); veste con un gilet,
è sposato da poco, fuma la pipa, non
ama viaggiare in coppia, conosce a memoria
le percentuali di bagagli smarriti
da Ryan Air (zero punto cinque per cento),
Air France (dodici virgola due per
cento), Lufthansa (quattordici virgola
due per cento), Austrian (quindici virgola
due per cento), Alitalia (undici virgola
uno per cento), Iberia (dieci virgola
cinque per cento) e British Airways
(quindici virgola sei per cento).
Sono le sette e zero venti, domenica
undici marzo, ventiquattro ore dopo il
low di una dei tanti Easy, Ryan, Wind,
Go, My, Wizz, Sterling, Wing, Blue,
Smart. Volo Alitalia, pasti ebraici, vegetali,
ipocalorici, poltrone larghe, sacchetti
antivomito, tariffe business, tariffe
low, aereo un po’ vuoto, posti assegnati,
stewart eleganti, nessuno zainetto,
molte valigie rigide, buste Prada,
Harrods, TopShop, nessuna Routard,
qualche computer, molti walkmen, parecchie
cuffiette, volo soft, aranciata,
panino con il formaggio, Repubblica,
Sole 24 Ore, Corriere, volo normal, standard,
senza Forlì, senza Ciampino, senza
Treviso/Venezia, senza Oro ar Sero,
con la very vip lounge room, con i taxi di
Fiumicino e con un volo non low ma alla
fine anche un po’ slow. Di là c’è Ryan,
di qua Alitalia. Sono le sette e quaranta,
il volo arriva a Roma con dieci minuti
di ritardo.
Claudio Cerasa
24/03/07

venerdì 23 marzo 2007

Il Foglio. "Alessia Filippi ai Mondiali con le scarpette in acqua"

Alessia è ferma lì sul bordo vasca. Si alza,
asciuga il mento, alza le braccia,
controlla la cuffia, controlla gli occhialetti,
controlla il costume, si morde le labbra, si
avvicina alla vasca, si avvicina all’acqua, si
asciuga il viso, a destra il suo allenatore,
Andrea Palloni, a sinistra gli spalti dello
stadio del Nuoto, dell’Aurelia Nuoto, della
Guardia di Finanza, degli assoluti di Livorno,
di quelli di Pesaro, degli autunnali, degli
estivi, degli invernali. Alessia Filippi
però non se ne accorge quasi mai. Ogni tre
mesi l’assoluto, ogni settimana la gara, ogni
giorno l’allenamento, ogni giorno Alessia
così: mento, braccia, cuffia, occhialetti, costume,
labbra, vasca, viso, Andrea. Ha fatto
così a Budapest, ha fatto così agli Europei,
ha fatto così agli assoluti, ha fatto così nelle
gare in vasca corta, ha fatto così quando ha
vinto a Shangai (Mondiali in vasca corta, un
argento), quando ha vinto a Budapest (Europei,
vasca lunga, un oro e un bronzo) e quando
a Helsinki proprio non la vedeva nessuno
(Europei vasca corta, oro). Alessia Filippi
non è un fenomeno come Novella Calligaris
(la prima donna italiana a vincere una
medaglia olimpica nel nuoto e che smise di
nuotare a ventuno anni), non è bella come
Federica Pellegrini (l’ultima italiana a vincere
una medaglia a un’Olimpiade, ad Atene,
ora anche lei ai Mondiali), non ha la
bracciata di Cristina Chiuso (la più forte italiana
nei cinquanta stile libero), non ha il
fiato di un fondista come Simone Ercoli,
non ha la classe di Filippo Magnini (il nuotatore
più veloce di tutti, campione del Mondo
nei cento stile libero ai Mondiali di due
anni fa e poi anche agli Europei dello scorso
anno), non è una di quelle atlete che nuota
sempre contro qualcuno, contro Schoeman,
contro Neethling, contro il biolimpionico
e primatista dei cento stile libero Pieter
Van den Hoogenband. Alessia non è così
perché Alessia Filippi è un fenomeno anche
se non è ancora una vera campionessa,
anche se ai Mondiali di Melbourne, Alessia,
poteva fare tutto e lei voleva fare davvero
tutto: voleva fare dorso, misto, rana, stile e
voleva davvero essere la stessa che aveva
chiuso il 2006 ai primi posti della classifica
mondiale, dopo che aveva vinto dappertutto,
aveva cambiato società ma era rimasta
con lo stesso allenatore, era rimasta a casa
con la madre a Roma a Tor Bella Monaca
(anche se ora ha una casa tutta sua), e quindi
a scuola la mattina, il pomeriggio agli allenamenti,
la sera a casa, la mattina a scuola,
e il pomeriggio ancora allenamenti; con
le gare vinte quando non riusciva a respirare
e con le bracciate che entravano anche
quando gli altri le dicevano: “Alessia, oggi è
meglio che lasci perdere”.
Alessia Filippi però non se ne accorge
mai. Quando vince, dice lei, non se ne accorge
proprio. Non se ne accorge quando arriva
e quando si ferma a bordo vasca e quindi
cuffia, occhialetti, costume, labbra, vasca
e via, e poi fa il record. Alessia Filippi attualmente
detiene dieci primati italiani tra
vasca lunga e vasca corta anche se poi Alessia
preferisce la vasca da cinquanta perché
in quella piccola non si diverte, ma le gare
poi le deve fare lo stesso perché nel nuoto
c’è una gara ogni settimana e non ne puoi
perdere una, non devi perdere l’allenamento,
non devi perdere la preparazione, non
devi perdere i punti perché alle Olimpiadi
non ci vai se fai sette gol all’Arzebaigian,
non ci vai se arrivi in semifinale a Wimbledon;
alle Olimpiadi, ai Mondiali, agli Europei
chi nuota ci va soltanto perché lo dicono
gli altri, perché lo dice il tuo fisico, perché
lo dice la tua classifica, le tue gare, i
millesimi e i centesimi di secondo ogni anno
in meno, perché tutto deve essere sempre
perfetto, perché non ti puoi permettere
nulla, non ti puoi permettere una febbre,
non ti puoi permettere di studiare, non ti
puoi permettere di andare a dormire dopo
mezzanotte, non ti puoi permettere di litigare
con Rolando Howell, non ti puoi permet-
tere di dire che oggi quest’allenamento non
lo faccio perché non ne ho bisogno e non ho
bisogno di allenarmi assieme ai bambini di
quattordici anni e non ho bisogno di una società
piccola, non ho bisogno di essere sempre
quella brava, bella, simpatica, intelligente
e che però non vince mai, quella che
cerca di dimostrare il suo talento, e quella
che cerca sempre di far vedere come sono
belle le sue braccia, le sue gambe e i suoi
occhiali con la montatura da 400 euro.
La siepe del Foro Italico
Alessia Filippi non è così. Perché nel
nuoto funziona che se tu trovi il campione
per un anno o per un Mondiale, ci punti
davvero, lo spremi ma non glielo dici, lo carichi
ma non glielo ricordi; e aspetti. Poi
però se un Rosolino non va, se un Brembilla
non trova la bracciata, se un Bossin sbaglia
il tempo, se un Marin non prende la medaglia,
succede che tu non esisti più e non
ci sono più le sfilate di moda, non ci sono
più le serate a Porta a Porta, non ci sono più
i divanetti di Scherzi a Parte e non c’è più
niente, non ci sono i millesimi di secondo e
non ci sono più braccia, cuffie e occhialetti;
non c’è più il ritmo: stile, dorso, stile, dorso,
misto, stile, dorso, delfino. Perché per bruciare
un nuotatore ci vuole un attimo, per
diventare un campione e diventare un fenomeno
è soltanto un po’ più complicato.
Alessia Filippi però non se ne accorge
mai. Non si accorge delle sue braccia, non
si accorge delle sue gare, non si accorge dei
duecento metri, dei trecento metri, di quando
in acqua sembra che stia correndo e
sembra sia lì con le scarpette, con gli occhi
chiusi, a destra una corsia, a sinistra l’altra,
e quindi una, due, tre bracciate, virata, stile,
poi dorso, poi delfino e a destra le panchine,
a sinistra l’allenatore che non parla
mai, con gli occhiali, la maglietta bianca,
che non sorride davvero mai perché lui non
è lì in vasca ma è come se ci fosse, anche se
è lì in piedi dietro la siepe del Foro Italico
(dove c’è una delle piscine più importanti
d’Italia), con il cronometro nero nella mano
destra e quindi uno-due, virata, tre-quattro,
virata, hop, hop, hop e poi subito via perché
ragazze, ora basta, dobbiamo liberare le
corsie, tempo scaduto, ci vediamo alla gara.
Perché nel nuoto non funziona come nel
tennis, non funziona come nel calcio, non
funziona come nel rugby e non funziona come
nel basket e nella pallavolo. Nel nuoto
sei tu, l’acqua, le braccia, le gambe, venti,
trenta, cinquanta, cento, duecento, quattrocento
metri e quattro minuti zero otto secondi
e cinquantasei millesimi nei quattro
cento stile libero e quattro minuti e trentacinque
secondi e ottanta millesimi nei quattrocento
misti, vasca da cinquanta metri,
primati italiani, i migliori risultati di Alessia.
Otto minuti e quattro minuti e in acqua
Alessia sembra che nuoti con le suole chiodate,
senza guardarsi mai attorno perché
poi il tempo che conta è quello tuo, anche
con le braccia pesanti e le gambe che diventano
rigide, il cronometro e hop, hop, hop.
L’avversario esiste solo prima ed esiste dopo
a fine gara, lì in mezzo però sei solo tu, e
te la godi. Ma Alessia, in acqua, degli altri
non se ne accorge proprio.
Ora Alessia è a Melbourne, scenderà in
vasca la prossima settimana, si diverte molto
a dire cose come “il finale lo dobbiamo
scrivere”, che è vero che la federazione ha
fatto un lavoro incredibile, che starebbe lì
sempre a studiare la Laurie Manaudou, che
le mie colleghe sono anche amiche, che le
mie amiche sono tutte delle bravissime ragazze,
che non è vero che la mia rivale Federica
Pellegrini è una mia rivale anche se
poi lo è davvero, ma Alessia non può dirlo e
non può dirlo soprattutto ora dato che a
questi Mondiali voleva fare tutto ma poi era
rimasta un mese senza nulla, senza allenamenti,
senza piscina, senza gare e quindi
ora, anche se gareggerà nei duecento dorso,
nei quattrocento stile, nei quattrocento misti
nella staffetta quattro per cento stile libero
e in quella mista, Alessia punterà sui
quattrocento misti e sui duecento dorso della
prossima settimana. E poi magari li vincerà
pure. Alessia Filippi è arrivata due anni
fa alle Fiamme Gialle dopo aver passato
quindici anni all’Aurelia Nuoto e cioè in
una delle società più piccole ma più famose
e importanti di Roma. Ma quando arrivi
in un posto come sono le Fiamme Gialle, così
come quando arrivi all’Aeronautica, al
Corpo forestale, alla Polizia, ai Carabinieri,
nello sport cambia tutto perché diventi uno
sportivo vero, inizi a prendere qualche soldo,
inizi a fare sport per passione ma anche
per professione e perché senza Fiamme
Gialle, poi, Alessia sarebbe continuata a essere
un fenomeno ma non si sarebbe mai
messa nelle condizioni di poter diventare
davvero una campionessa.
Le tipologie Aldo Montano
Perché poi, nel nuoto, ci sono quattro tipi
di nuotatori. Ci sono i campioni che lo sono
sempre stati quelli che lo saranno sempre e
che non possono che esserlo e che proprio
per questo spesso sbagliano, spesso dimenticano
di controllare l’avversario in corsia,
spesso fanno la gara sugli altri, spesso arrivano
e sanno di aver vinto e non si accorgono
invece di aver perso. Perché poi c’è la tipologia
Aldo Montano o Francesco Coco, ci
sono i nuotatori quelli così così, quelli che
vincono nel momento giusto ma che poi non
vincono più, quelli che azzeccano un Mondiale,
un’Olimpiade, un Europeo o una vasca
corta e che poi si fermano lì e non gliene
frega più nulla se non vincono un campionato
italiano, se la bracciata inizia a non
essere più quella giusta, se gli allenamenti
non sono più divertenti come lo erano prima
e che iniziano ad andare sulle isole, o
cominciano a chiedere di entrare nelle fattorie.
Ci sono i nuotatori veri, quelli che nascono
in piscina, vivono in piscina, sono i
gregari del nuoto, quelli che ci provano
sempre e non saltano una gara, mattina, sera,
pomeriggio, mattina, pomeriggio, sera
sempre lì, sempre in acqua, sempre quarti,
quinti, al massimo terzi, quelli che non vincono
mai e quando vincono foto, premiazione,
pacca sulla spalla e poi si ricomincia e
non esisti più. Poi ci sono quelli come Alessia
Filippi, quelli che fanno un millesimo di
secondo al mese in meno, che ogni giorno
non pensano agli altri, che pensano alla
bracciata, alla gara, alla corsia, non guardano
a destra e non guardano a sinistra, unodue,
hop, quelli che ascoltano sempre l’allenatore,
quelli che non fanno nulla per far sì
che ogni gara diventi una favola, quelli che
aspettano il Mondiale, aspettano l’Olimpiade
e sanno di essere i più forti, sanno che
non c’è nulla da raccontare, non c’è nessuna
favola, nessun problema, nessun romanzo,
solo millimitri, millesimi, assoluti, Rimini,
Pesaro, Helsinki, Budapest, Melbourne.
E sono quelli che dicono: non me ne frega
nulla di partecipare, io devo vincere. Anche
se poi spesso i record da battere sono quelli
propri, anche se poi c’è qualcuno che pensa
che i Mondiali non contano perché quello
che conta sono solo le Olimpiadi quelli
che a Melbourne in questi giorni leggono
sui giornali “Fast lane to Beijing”, e quelli
che quindi davvero credono che i Mondiali
sono solo la corsia preferenziale per i cinque
cerchi, per la vera gloria, per essere i
nuotatori da copertina e quindi click.
Alessia ai Mondiali però ci tiene davvero.
Due anni fa a Montreal due quinti posti (duecento
dorso e quattro per cento mista), ora è
in Australia ma tra due anni, dopo Melbourne,
dopo il Beijing e dopo le Olimpiadi, i
prossimi Mondiali Alessia lì avrà a Roma, a
settecento metri dagli occhialetti di casa sua.
Claudio Cerasa
22/03/07

venerdì 16 marzo 2007

Il Foglio, 16 marzo. La riga al centro, Pantani, Baggio e lo zazzaronismo di "Dieci"

Baggio, Pantani, Zazza e riga al centro.
Ivan Zazzaroni è riuscito a diventare
uno dei giornalisti sportivi più famosi d’Italia
senza aver avuto il bisogno di inventarsi
uno stile, senza aver avuto il bisogno di rivoluzionare
il giornalismo,
senza aver avuto
neanche la necessità di
dimostrare a tutti i costi
di essere il più bravo, il
più intelligente, il più
simpatico, il più colto, il
più estroverso e il più
indipendente di tutti gli
altri giornalisti messi
insieme. Al massimo, Zazza, ha dimostrato,
di essere un fico (e da come lo guardavano
le belle ma soprattutto belle vallette della
Domenica Sportiva, obiettivamente più fico
degli altri un po’ lo era, Zazza). Zazzaroni ha
fatto una cosa che nessun altro giornalista
sportivo è riuscito a fare finora in Italia (cosa
molto diversa dal dire che nessuno ci stia
provando). Zazza ha inventato un brand,
una sorta di marchio sportivo (il più delle
volte di qualità); un brand un po’ glamour,
un po’ inside, molto informato, molto serioso
ma per niente noioso. E il suo nuovo giornale
“Dieci” (cinquanta centesimi e Rober-
to Baggio accanto alla testata) è così: molto
zazzaroniano e con la riga al centro.
Zazzaroni non è noioso perché scherza
su di sé, perché sa perfettamente che per
un periodo nemmeno troppo breve mentre
nelle trasmissioni televisive c’era chi veniva
invitato in quota Sacchi (tipo Ancelotti),
chi in quota Maradona (tipo Giannì Minà),
chi in quota donne e motori (tipo Claudia
Peroni), chi in quota Roberto Mancini
(Franco Rossi), c’era chi come Zazza era il
classico giornalista in quota “Roberto Baggio”,
e non c’è certo da vergognarsene. Zazzaroni,
oltre a essere bello, bravo e intelligente,
è uno degli unici giornalisti sportivi
in circolazione che non annoia gli appassionati
di sport per due motivi: perché Zazza
ha quasi sempre una sua idea e perché comunque
tra settimanali, mensili, radio, tv,
Quelli che il calcio, Guerin sportivo e Radio
Deejay, Zazza non dà proprio il tempo di
annoiarsi, perché lui prende e dopo un po’
cambia tutto. Con i giornali è andata più o
meno così; prima di accorgersi che la carta
stampata sportiva – cosa di cui è ancora
convinto – fosse completamente da prendere
e buttare via, Zazza guadagnava un sacco
di soldi con la stampa; però, pensava,
con la televisione, Internet, blog, radio, i
giornali a che diavolo servono ancora se
non riescono a dire nulla di più? Zazzaroni
ha quindi iniziato con la tv, con la Rai, con
Quelli che il Calcio, con i Mondiali del 2002,
con Radio Deejay e ultimamente anche con
il programma Ballando sotto le stelle, dove
però, proprio perché si divertiva molto, Zazza
aveva capito che c’era qualcosa che non
andava. E a Dieci lui c’è arrivato un po’ per
caso e un po’ perché poteva davvero fare
quello che voleva con un nuovo quotidiano,
con una redazione fatta senza neanche leggere
un curriculum, con ragazzi – come si
dice in questi casi – alle prime armi ma
con i quali, comunque, già nei primi giorni
è riuscito a stampare quattrocentocinquantamila
copie al giorno e con un giornale –
anche se questo Zazza non lo dice – degno
di nota per il semplice fatto che si schiera
in prima linea nella “desevergninizzazione”
delle pagine sportive italiane e che,
cioè, si allontana il più possibile da quella
tipologia di stile giornalistico che ha successo
solo se racconta il come ci piace essere
disperati e sfigati (strategia narrativa
che – come si è accorto da ormai un anno
Beppe Severgnini – non trova grande spazio
quando la squadra in questione a Milano
inizia a diventare acronimo di “Il Nostro
Tricolore E’ Rubato”). Ma lo zazzaronismo,
in Italia e nel mondo dello sport, è un fenomeno
piuttosto a sé, perché è un giornalismo
urlato a bassa voce, un maruiziomoschismo
senza bombe, senza fumo, senza
sciarpe, senza notizie finte, ma con molte
analisi credibili e interessanti. Lo zazzaronismo
è un brand che riesce a mettere insieme
Roberto Baggio (di cui ha scritto una
lunga biografia), Marco Pantani (di cui ha
scritto un altro libro assieme a David Cassani
e Pier Bergonzi) e la riga al centro (sulla
quale Zazza potrebbe scrivere un saggio).
E così è il suo nuovo giornale che sembra
un po’ un Guerin Sportivo quotidiano ma
che – per dire – a differenza degli altri giornali,
dedica ogni giorno una sezione fissa al
Volley e una all’Nba e dove – ad esempio –
gli articoli sono tutti scritti piuttosto bene
(lunedì su un totale di quarantasette pagine
non c’era neppure un pezzo che cominciasse
con aperte virgolette); e pazienza poi per
titoli come “Il diavolo veste preda”, o “Ro-
Manchester”, resta comunque il fatto che
con le immagini, i grafici, le note e gli appunticini,
il giornale viene voglia davvero
di leggerlo tutto e di non buttarlo via, sempre
poi che il lunedì la tua squadra non sia
proprio il Diavolo che veste preda.
Claudio Cerasa
16/03/07

lunedì 12 marzo 2007

Il Foglio. "Guarda il Panorama"

Il settimanale cambia, non cede
ai giochi di parola con Dico,
si fa blog e non ostenta Ronaldo

Roma. Nelle trecentoventisei pagine del nuovo Panorama di Pietro Calabrese, la parola “Dico” compare soltanto a pagina trentasei e a pagina sessantanove; compare quindi (nei titoli) soltanto due volte, senza che ci sia neppure un “Dico d’India”, un “Dico de Paperis”, un “Tra moglie e marito non metterci il Dico” e cioè senza che ci sia nessun tentativo di voler per forza strizzare l’occhio al lettore (vecchio) del giornale (nuovo) per dirgli: visto come siamo cambiati, visto come siamo diventati originali? Resistere alla tentazione del gioco di parole con i “Dico” non era per niente facile. Così come non era neppure semplice scegliere una copertina così, con la pistola, la rosa, i proiettili e gli occhi azzuri del talebano, i rapimenti, la droga e i kamikaze della “Sporca Guerra”. Senza nessun richiamo, nessun sommario, nessun titoletto e nessun colpo di gomito al lettore, cioè senza nessun tentativo di segnalare a ogni costo tutti gli approfondimenti, le inchieste, l’ambasciatore francese o Britney Spears. La scelta sembra essere questa: prendere una notizia, un grande tema e puntare, almeno in copertina, solo su quello. E’ un investimento, ma in pochi a dire il vero attualmente lo fanno. Ed è per questo, che ieri nella prima copertina del nuovo Panorama non c’era nemmeno un richiamo all’intervista a Ronaldo.
Con il restyling di Panorama, che tra l’altro a ottobre compirà venticinque anni, il lettore del settimanale più venduto d’Italia avrebbe potuto trovarsi di fronte a parecchi rischi. Avrebbe potuto trovarsi di fronte a un giornale vecchio che provava disperatamente a essere nuovo, a un giornale nuovo che non riusciva a non essere ancora un po’ vecchio, o a un giornale nuovo troppo diverso da quello vecchio. A prima vista le cose non sembrano però andate così e dopo aver superato la prova “Dico”, l’impressione che si ha è che Panorama non sia né ringiovanito né tirato a lucido né tantomeno rivoluzionato. Semplicemente sembra essere molto migliorato e sembra essere diventato anche un po’ più ordinato rispetto a prima (e questo grazie anche alla definizione di tre precise macroaree, come: “Il nostro tempo”, “Approfondimenti” e “Il piacere di vivere”). E in questo senso la scelta di puntare sulle nuove tecnologie (oltre che sulla nuova sezione degli approfondimenti) e quindi la scelta di creare un filo tra le pagine cartacee e quelle di panorama.it (ora più simile al modello della Bbc piuttosto che a quelli un po’ fotocopia di Repubblica e Corriere) potrebbe davvero aver successo. Perché, da una parte, c’è la nuova grafica (curata da Lorenzo Giuffredi e Daniele Zendroni), un po’ multimediale ma per fortuna ancora simile a una pagina di un giornale; dall’altra parte, Panorama sembra voler puntare davvero sul mondo dei blog e su quello dei blogger, sia facendo diventare un po’ blogger i giornalisti sia recensendo i miglior blog della settimana sia facendo scrivere (assieme ai giornalisti) proprio gli stessi blogger. Ovviamente, come ogni restyling, si tratta di una scommessa, ma in questo modo Panorama, oltre che a non spaventare i vecchi lettori, ha la possibilità di conquistarne di nuovi e magari anche un po’ più giovani di prima. Almeno per il momento, il nuovo Panorama sembra essere diventato un po’ più pop senza essere però troppo popolare; e soprattutto senza aver bisogno di piazzare in copertina la foto di Ronaldo.
Claudio Cerasa
10/03/07

Il Foglio. "Il romantico, lo scapigliato, Pulicio e la coppaitalianità del tifoso granata"

Destino, Agroppi, gemelli, Maratona, Radice, rimonte, sorpasso, arbitri, Vieri, favola, recuperi, buche, Ferrante, tifo, gloria, derby, vittorie, spareggi, finanze, ritorno e – naturalmente – rigori e pali. C’è solo una squadra e c’è un solo tipo di tifoso che può capire che cosa significhi perdere anche quando si vince, che può capire che cosa significhi perdere quando ormai tutto sembra vinto davvero, e che può capire che cosa significhi essere costretti a scannarsi su uno stadio (la polemica è tra il sindaco di Torino Chiamparino e il presidente del Torino Cairo: il sindaco se la prende con Cairo perché il nuovo presidente non ha progetti e il presidente se la prende col sindaco perché il Comune non fa nulla per il Toro) proprio nell’anno in cui tu sei ritornato in serie A, due anni dopo essere praticamente morto (“Il funerale avrà luogo non appena Cimminelli troverà i soldi per pagarlo. Si attende a minuti una fideiussione del pianeta Papilla: il presidente Romero rimane ottimista”, scrive Massimo Gramellini, vicedirettore della Stampa, nel libro “Granata da legare”, Priuli & Verlucca editore). Soltanto il tifoso dell’Inter può capire che cosa vuol dire arrivare a giocare un campionato dopo averlo praticamente già vinto sotto l’ombrellone, dopo aver sopportato davvero tutto, i Gilberto, i Centofanti, i Pistone, i Pancev, e dopo aver sopportato presidenti come Romero (non a caso sosia di Moratti) che non riusciva a dire il nome di Pulici senza aggiungere una “o” dopo la “c” e la “i” (l’effetto era Pulicio), vedendo fallire la società un anno prima di compiere i cent’anni e ritrovandosi, ora, con due allenatori in otto mesi, un presidente che litiga con un sindaco, un sindaco che litiga con una squadra e con una città che per la prima volta nella storia è solo granata, ma riesce a fare peggio di un’altra squadra a strisce che quest’anno non gioca neppure in serie A. Solo un tifoso interista può capire i recuperi, gli spareggi, i derby, le finanze, i sorpassi, i Ferrante, i rigori, i pali e i Vieri (Vieri e Ferrante tra l’altro dopo essere stati al Toro sono stati ovviamente anche all’Inter). Perché “tifare Toro è tifare per non dormire, per soffrire”, per sopportare i programmi sportivi che parlano solo di te e che non riescono neppure a essere troppo crudeli perché, figuriamoci, del tifoso dell’Inter e del Toro vorresti pure parlarne male? E soprattutto, se proprio ne devi parlare male, a quale tifoso ti riferisci davvero? Perché c’è il granata vittimista che poi è quello che non sopporta nulla, che si stava meglio quando si stava peggio e che pure quando si stava peggio effettivamente non è che si stesse poi così bene. Quello che comunque è convinto che la Juve ci sta mangiando, che la Fiat ci vuole fottere, che se Lentini se ne andrà bruceremo la città. Poi però ci sono i tifosi romantici, appunto come Gramellini, e quelli un po’ più scapigliati, come il suo collega Mattia Feltri. “La differenza è piuttosto semplice. Il tifoso romantico è il tifoso che ci tiene al primo bacio che lo vuole perfetto, che vede il Toro come un vero e proprio destino, che sa però che il pallone sul palo non finisce mai in rete e che però vuole vincere comunque sempre e che sogna, e lo sogna davvero, di portarsi a casa un derby con la Juventus per uno a zero con un tiro che finisce sul palo e poi va in porta, segnato al novantesimo e magari con un rigore che non c’era. E’ un tifoso alla Madame de Staël e solitamente non va da Michele Santoro”. Poi però c’è il tifoso scapigliato quello che solitamente scrive e lavora e frequenta il tifoso romantico, quello che vuole la partita ideale, ama Rosina, all’Inter amerebbe Recoba e non Zanetti, e non Cambiasso, e non Paul Ince, e non Patrick Vieira. Quello che il derby lo vuole vincere per sei a zero, che lo vuole in una serata perfetta, con la cena, l’aperitivo e poi alla fine non un bacio, non un rigore al novantesimo, ma una scopata perfetta. Uno che ovviamente se ne fotte delle coppe Italia (di cui il massimo esponente in quanto a coppaitalianità è, subito dopo il Toro, proprio Roberto Mancini che ne ha vinte parecchie da giocatore e parecchie da allenatore, tutte molto prestigiose ovviamente). Anche se poi il tifoso scapigliato, un po’ come il suo collega romantico, sa che “quelli come noi la spuntano soltanto nelle favole e per chi tifa Toro le favole sono finite da un pezzo”.
Claudio Cerasa
10/03/07

giovedì 8 marzo 2007

Panorama. "Hollywood si è collegata a Internet".

Un anno dopo quel video girato con una web-cam, uno skateboard, un paio di amici, un computer e una chat che in quindici minuti e trentadue secondi ha cambiato per sempre il mercato dei video amatoriali, un anno dopo l’incredibile successo del film “MySpace: The Movie”, il ventunenne David Lehre – dopo essere stato corteggiato anche da Mtv e dalla Comedy Central Channel – è stato acquistato dalla Fox di Rupert Murdoch per realizzare un film, inventarsi un reality e rendere ancora più vistoso il grande legame che - negli ultimi due anni - si è andato a creare tra il mondo di Internet e quello di Hollywood. Lo stesso legame che ha portato la News Corp di Murdoch ad acquistare, giusto due anni fa, il sito Internet MySpace.com. Lo stesso legame che ha dato una certa importanza al mercato dei “web searcher” e cioè al mercato di tutti quei talent scout che cercano in rete i talenti della tv del futuro. Con David Lehre è andata così. Dopo il suo “My Space : The Movie” (un film racconta in maniera piuttosto ironica tutte le perversioni del mondo che gira intorno alle chat, agli appuntamenti al buio e agli stessi blog e che in soli tre giorni è stato scaricato da oltre un milione di utenti), Lehre ha attirato su di sé l’attenzione delle grandi major fino a trovare la sua grande occasione alla Fox, che, giusto pochi giorni fa, ha chiamato David e gli ha offerto 300.000 dollari per presentare un format di reality show (che – sono parole di David – "sarà un grande mix tra sketch, musica, video, show, video, Internet, e american comedy"), adattare il suo video per la tv e inventarsi un nuovo film tutto suo, entro quest’estate.

“Non ho mai visto in vita mia uno come David. David arriva in una location, si ferma e dopo dieci minuti di riprese ci guarda a tutti e fa: ‘bene, per me abbiamo finito’, e poi sale in macchina”, racconta il produttore Micheal Binkow (che nel suo curriculum vanta programmi di successo come “Play for a Billion”, “30 Seconds To Fame”, “The 1/2 Hour News Hour”), l’uomo che la Fox ha incaricato per seguire (ma non troppo da vicino) il ventunenne di Michigan e che farà da tramite tra il ragazzo, piuttosto vivace, il suo agente Mr. Vener (lo stesso agente di Justin Timberlake ed Eminem) e la Fox. Prima di David Lehre, i casi più famosi di passaggio dalla rete alla tv (o al cinema) sono stati quelli di piccoli fenomeni del video come Robert Ryang, inventore del “mash-up” ovvero una geniale tecnica di rimescolamento dei trailer di film famosi, corteggiato ora niente meno che dalla Warner Bros, o come Micheal Burns e Geoff Ramsey, diventati famosi sulla rete con un sito che si chiama Drunk-gamers.com (un portale che raccoglieva i video di ragazzi ubriachi e che aveva come naturale scopo sia quello di poter trovare video divertenti sia quello di poter beccare, come ammesso dagli stessi autori, qualche ragazza non troppo vestita) e arrivati ora a creare una serie tv di successo (un po’ videogioco un po’ cartoon) come “Red vs Blue”. Loro sono stati i primi, ora tocca allo skateboard di David Lehre.

Claudio Cerasa

08/03/07

Articoli Panorama

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mercoledì 7 marzo 2007

Il Foglio. "Il Gancio del peso. L’oro agli europei, Atene, Pechino, i Mondiali, il glaucoma e i lanci di Assunta che sembrano pugni"

"No". Campo, seduta, palestra, palestra, campo, pedana. Il gesso sotto la mandibola, la testa sempre inclinata, uno, due, tre, quattro passi, il peso va via, così ogni giorno. Il successo sono i millimetri, ogni mese uno in più. Ma quel giorno nulla, non c’erano i millimetri, c’era solo l’occhio. “No”. Assunta Legnante aveva ventisei anni e aveva già vinto tutto quello che poteva vincere. Con quel braccio e con quel peso non poteva che andare così. Aveva i suoi obiettivi, gli Europei, i Mondiali e i Campionati italiani. Assunta vinceva sempre, il braccio andava sempre meglio, lei aveva perso dieci chili, la caviglia non le faceva più male, il ginocchio neanche, il doping – ormai – era roba vecchia e la gamba, anche quella, era passata. Le mancavano gli Europei (quelli indoor) e le mancava una medaglia, quella d’oro. Tre anni dopo quell’agosto del 2004 sono arrivate anche quelle: domenica scorsa a Birmingham, finale del lancio del peso, diciotto metri e novantadue centimetri, quasi record italiano e centodiciotto chili di tricolore.
I record da battere, per Assunta, sono sempre quelli suoi. Anche nel 2004 era così. Una settimana prima delle Olimpiadi, una settimana prima della pedana con i cinque cerchi, con le gambe ormai a posto. Non era mai stata così concentrata e non era mai stata così sicura. C’era l’occhio, è vero. Ma quelli erano solo fatti suoi. Lei saliva sul suo ring, andava in pedana e l’impressione – così la chiama lei – era sempre quella giusta. La settimana filava alla grande, come sempre. Lei ci scherzava, diceva di essere così, un’atleta di peso, che fa pesare le sue vittorie, con colpi di peso, lanci di peso. Ci scherzava, ma al Coni non scherzavano. Assunta era sicura di farcela semplicemente perché era la migliore. Lei voleva andare alle Olimpiadi di Atene e doveva essere così. Perché il braccio, lei, lo sentiva meglio del solito. Si chiedeva come mai le bielorusse e le tedesche non riuscissero mai a prenderla. Loro la guardavano e non capivano come era possibile non prendere mai una così. La sua settimana era sempre la stessa: campo, seduta, palestra, palestra, campo, pedana. Ogni giorno un millimetro in più. Sembra impossibile e un po’ lo era, ma Assunta ci provava e ci prova ancora. Oggi con il peso, ieri con il giavellotto e prima ancora con il disco. Mai – o quasi mai – un euro, solo passione, campetti senza erba, un po’ di terriccio e gli amici che ti incontrano e ti dicono, scusa che sport fai? Tu rispondi “peso”, e gli altri: “Ho detto che sport fai”.

Il record, la stagione, l’ex doping
Nel peso si va avanti così. Si va avanti pensando al Mondiale, all’Europeo e ovviamente all’Olimpiade. Perché se non sei lì, scusi lei chi è? Che sport è questo? Dov’è la palla? Dov’è la squadra? Lì ci sei tu e se perdi, perdi soltanto tu. Ma se non vinci non vai avanti, se non hai soldi e se non hai un po’ di successo resti lì a casa. Anche quest’anno era così. Le tedesche e le bielorusse non vincevano allora, tre anni fa, ma non vincevano neanche quest’anno. Assunta non capiva e anche ora fa finta di non capire. Era lei il problema delle altre. Era lei, con quel braccio un po’ grassottelo, che vola via insieme al peso. Ogni lancio quasi come un gancio.
Il ventitré gennaio Assunta con diciannove metri e zero uno aveva realizzato la miglior prestazione mondiale della stagione. Con poca tecnica, poca eleganza e poca grazia. Il record italiano lo aveva fatto pochi giorni prima di Atene, nel 2004, diciotto metri e novantadue centimetri, ventotto centimetri in meno di Birmingham. C’era però chi le diceva: sei una dopata. Nel 2002 era stata fermata per qualche mese, era appena diventata campionessa italiana degli assoluti, ma in quel periodo non andava granché, si era scusata con l’allenatore e si era scusata anche con la Nazionale. In una delle ultime gare aveva fatto tre lanci, uno nullo, due pessimi. Era a pezzi, ma non solo per il doping. Il doping si chiamava “sinefrina”, una sostanza che ora dice lei, si trova anche nei succhi d’arancia e che ora, dice Assunta, non è più nemmeno doping. Però allora lo era. Lei si ferma, continua ad allenarsi ma non poteva gareggiare. Lei ci credeva davvero, pensava ad Atene e alle Olimpiadi. Non per vincerle, ma per esserci, almeno per esistere. Tre giorni prima di partire per le Olimpiadi di Atene arriva al Coni per le visite mediche, le guardano quel maledetto occhio, passa qualche ora e le dicono: “No”. Niente Olimpiadi. “Per noi non sei a posto”. Assunta ha un glaucoma all’occhio sinistro, non potrebbe partecipare a nessuna gara, secondo il Coni, e a quelle Olimpiadi effettivamente non la fecero partecipare. Era l’italiana più forte ma rimase a casa. Tre anni dopo: centodiciotto chili, più di cento gare, la retina sempre a rischio ma per il momento solo vittorie, lanci e medaglie. Il doping è passato, i controlli ora sono più duri e lei ha continuato a migliorare. Ha continuato anche a mangiare, ma ogni mese un millimetro in più. Tra le sue colleghe ogni mese ne viene beccata una e non per Sinefrina. Lei dice che il doping è quello delle altre, le altre dicono che il doping non esiste. I record però li batte Assunta, con una caviglia spezzata, l’occhio così, il glaucoma. Ma oltre i venti metri è difficile andare. Quella è roba per altri, per fenomeni, per gente fuori dal normale. Assunta migliora i suoi record perché – dice – i suoi record sono record veri, non truccati. “Oltre i venti metri c’è qualcosa che non va”. Lei continua a migliorarsi, ora vuole provare con Pechino, con le Olimpiadi del 2008. Ma il record del mondo è troppo in là: sono i ventidue metri e sessantatré di Natalya Lisovskaya; il prossimo sette giugno saranno vent’anni che nessuno riesce neppure a sfiorarlo.
Claudio Cerasa
7/3/07

giovedì 1 marzo 2007

Il Foglio. "Il fattore M".

Prendiamo ad esempio il Big Mac, quello con il formaggio giallo che scende giù, il panino dorato, il sesamo sul cappellino, la lattuga, l’hamburger, il cetriolo verde, sei gocce di ketchup, quello che in Spagna non si dovrebbe mangiare perché troppo big e perché troppo fat e quello che in Inghilterra, ora – secondo il principe Carlo – dovrebbe essere vietato, messo al bando e proibito, insieme a tutti quei fast food con una “M” gialla su fondo rosso. Prendiamo ad esempio il Big Mac e prendiamo ad esempio il McDonald’s, quello che farebbe diventare calvi, impotenti, diabetici, quello che sfrutta i suoi dipendenti, che ha la mucca pazza, il pollo rincoglionito, le patate tossiche, il gelato fatto con le ali di pollo, l’olio delle patatine soffritto in salamoia e quello che sarebbe la più grande causa dell’obesità infantile, come detto martedì dal principe Carlo in visita negli Emirati Arabi (dove non è arrivato pagando un jet da centocinquantamila sterline, come ha fatto nel corso della sua ultima visita negli Stati Uniti, e dopo aver detto che qui si deve risparmiare). Charles ha detto proprio così: che la prima causa dell’obesità inglese è il McDonald’s. E questo nonostante gli stessi figli di Carlo siano stati visti piuttosto spesso mangiare con gusto dentro un McDonald’s, soprattutto il piccolo Harry ora arruolato per l’Iraq (probabilmente per colpa di McDonald’s). Prendiamo, dunque, il Big Mac. Calorie: duecentoventinove. Zucchero: quattro virgola diciassette grammi. Sale: zero punto novantatré grammi. Grassi: undici punto dodici grammi. Grassi saturi: quattro virgola diciassette grammi.
Prendiamo, come fatto ieri dal Daily Mail, un altro cornetto, uno a caso, uno prodotto in maniera impeccabile da un’azienda eco-bio-slow-cool che si chiama Duchy Originals: calorie ducentosessantaquattro, zucchero due grammi, grassi tredici virgola sei, grassi saturi cinque virgola cinque, sale uno virgola venticinque. Proprio così, un Big Mac del Mac è meno grasso di un cornetto prodotto dalla Duchy, ovvero l’azienda a capo della quale siede un principe inglese che di nome si chiama Charles.
Ora, si può dire davvero tutto del Mac, delle patatine che effettivamente non sono così abbondanti come quelle delle foto, degli hamburger troppo grandi, dei bagni troppo piccoli, degli scontrini troppo lunghi, degli hamburger troppo economici, del pavimento troppo pulito, dei camerieri troppo ordinati (e che a differenza dei paninari di strada tendono a non grattarsi mai le orecchie prima di servire un Big Mac), dei coperchi dei gelati troppo larghi (e su questi è già intervenuta, con successo, la società britannica per la protezione dei ricci che ha vinto una causa contro McDonald’s e ha imposto nel Regno Unito di mettere sui gelati i cosiddetti” coperchi salvariccio”), del fatto che un panino deve essere servito, al massimo, entro dieci minuti. Si può anche pensare al Mac e si può invocare la “la degenerazione della globalizzazione”, “l’estenuante lotta al capitalismo”, e si può accusare McDonald’s (già fatto anche questo) di essere così spietata da pensare ogni tanto anche un po’ ai soldi. Ma va? Ma dire che “McDonald’s dovrebbe essere messo al bando, per evitare la piaga dell’obesità infantile” sarebbe come voler dire chiudiamo i campi da calcio così nessuno corre il rischio di spaccarsi un ginocchio. Chi gioca sa che ci si può far male e chi mangia sa che può anche ingrassare; e si può ingrassare con un Big Mac, si può ingrassare con un gelato e si può ingrassare anche con un’insalatina scondita senza sale, olio, aceto e con un po’ di pane senza sale per favore. Il principe Carlo, non a caso amico di Carlo Petrini fondatore di Slow Food, dovrebbe sapere che il diabete non è direttamente collegabile con l’obesità, dovrebbe sapere che l’obesità non è altro che uno di quei “cofattori” – si chiamano così – che possono essere una delle cause che portano ad alcune malattie. Ma criticare McDonald’s, proporre di chiuderlo per prevenire l’obesità infantile (che invece negli ultimi sette anni è diminuita, altro che aumentata), chiedere tutto questo è sbagliato. Perché è ovvio: mangiare per troppo tempo le stesse cose non può che far male, ma in media chi va in un fast food ci va una volta ogni quindici giorni e poi può mangiare anche un’insalata, un panino senza salse, senza cetrioli e senza formaggi, può prendere l’acqua invece che la Coca Cola e poi, ovviamente, è sempre libero di non entrarci proprio in un Mac. Anche se poi i panini sono i più buoni, i più economici e i più puliti di tutti. Ma il punto è che quando si mettono insieme le parole “problemi” e “cibo”, quando si parla di mucca pazza, di polli impazziti, quando si parla di qualsiasi problema legato al food si pensa subito alla “M” del Mac semplicemente perché il Mac è il simbolo di uno dei cibi più famosi del mondo. E quindi succede che al Mac ci vai lo stesso (magari di nascosto), ti siedi, ti fai una foto con Ronald e poi, preoccupato per la mucca pazza, ti avvicini al banco e dici per favore, oggi non voglio neanche il pollo.
Claudio Cerasa
1/3/07

Il Foglio. La rivoluzione dell’All Blacks bianco che non vuole ali

Uno, due, tre. Terza linea, di fronte la meta, mischia, spalle basse, le clavicole spezzate, la palla in mezzo, i pugni nello stomaco, i calci sulle palle, le orecchie maciullate, il pallone lì, fermo in mezzo alle gambe. La terza linea esce fuori, a poco a poco, non se ne accorge nessuno, è solo un attimo, lui è già lontano, lancio lungo, palla all’ala, a destra c’è l’out, di fronte la meta, in mezzo c’è Mauro, centottantatre centimetri, cento chili. Arriva lui e non si passa più. Arriva lui e ogni volta, ti guarda un attimo, capisce dove stai andando, conosce le tue finte, conosce i tuoi dribbling. Ed è fermo. Sta lì e aspetta gli altri e ha il tempo di capire tutto, di guardare prima la mischia e poi di guardare te. Mauro Bergamasco non si volta mai perché la terza linea ti guarda negli occhi e poi capisce. E si chiede: chi ha più paura? Chi la prende prima? Chi la fa la meta? Chi si spacca prima la testa? Mauro Bergamasco ha paura, come tutti. Anche se sei un rugbista, anche se sei la terza linea più forte d’Italia, una delle più forti del mondo, anche se ti sei già spaccato tutto, anche se hai già visto tuo fratello Mirco spaccarsi le clavicole tre volte, tuo padre Arturo spaccarsi tutto un paio di volte. Qui non si scherza. Nel rugby tutti hanno paura di spezzarsi una gamba, di sfasciarsi la testa, di maciullarsi le orecchie e di spaccarsi un femore. Hanno tutti paura, ed è per questo che il placcaggio perfetto, la meta perfetta, lo scatto perfetto, il lancio perfetto non nasce mai dalla calma. Vince chi arriva prima, vince chi ne prende di meno e chi ne fa di più. Vince chi ha più paura e chi fa più paura agli altri. Gli All Blacks quando entrano in campo, cosa cantano? Cantano un passo in su, un altro passo in su, il sole splende, batti i piedi più forte che puoi, cantano: “Ka mate! Ka mate!/ Ka Ora! Ka Ora!/ Ka mate! Ka mate!/ Ka Ora! Ka Ora!” E poi: “Nana nei i tiki/ mai Whakawhiti/ te ra A upa...ne! A upa...ne!/ A upane kaupane whiti te ra!/ Hi!!! Cantano, io muoio, io muoio, io vivo, io vivo. Hanno paura loro ma fanno paura agli altri.
Di qui non si passa. Con Mauro, lì dietro non si passa quasi mai. Era contro la Scozia anche sei anni fa, come sabato scorso a Edimburgo. Di quà, sfondo blu, croce bianca al centro. Di là verde, bianco, rosso. A sinistra Mauro, a destra la palla, di fronte la meta, al centro la mischia, seimila tifosi italiani, la città un po’ italiana e poi il Murrayfield, lo stesso stadio dove gli scozzesi non perdono quasi mai. Quell’anno, nel 2001, la Scozia era la squadra più forte di tutti, più forti pure degli All Blacks. Lo erano anche quest’anno, poi è arrivato Bergamasco. Di qui non si passa. Di qui non passano neanche gli All Blacks, o almeno ci si prova.
Sono passati diciannove secondi, siamo a Edimburgo, lo scozzese Godman si ferma: guarda a destra, poi a sinistra, guarda avanti, lancio lungo. Nel rugby si chiama apertura. Davanti c’è Mauro, ventisette anni, padovano, cinquantadue caps, nazionale, un po’ francese, un po’ italiano, diciassette placcaggi in un solo pomeriggio, ruba palla, dieci metri e palla in meta. In trecento secondi la partita era già finita, ventuno punti l’Italia, zero punti la Scozia, il Murrayfield continuava ad applaudire, anche se la Scozia la palla non l’aveva ancora vista. Sei anni prima stesso stadio, stesse squadre. Scozia-Italia, la Scozia aveva vinto, ma Mauro quel giorno, con una meta incredibile, entrò nella storia. Proprio come sabato scorso. Mauro esce fuori, si sposa a sinistra, corre lungo l’out e per un attimo giocò all’ala, ma meglio non ricordarglielo. Era il 2001, Mauro Bergamasco realizzò una delle sei mete più belle del Sei Nazioni, la Bbc gli dedicò uno speciale inserendolo tra i “Six Nations’ Greatest Ever Tries Competition”. Lui come Rory Underwood (1993, Inghilterra), come Philippe Saint-Andrè, (1991 Francia), Brian O’Driscoll, (2000 Irlanda), Jim Calder, (1982, Scozia), Phil Bennett, (Galles, 1977). Trenta metri, palla sull’ala, scatto, progressione, dieci, venti, trenta metri e poi meta. Meta, come sabato scorso. E ora tutti che dicono come è bello il rugby, mi sento come un rugbista, complimenti al rugbista, bisogna prendere esempio dal rugbista, bisogna prendere esempio da quegli stadi, da quella serietà, da Lo Cicero e da Mauro Bergamasco. E quindi chiama Ciampi, chiama Gattuso, chiama la Melandri, chiama Tiziano Ferro e anche Prodi “si sente molto rugbista”. Ma il problema è che si tifa rugby per un risultato, non per lo sport. Si tifa rugby quando arriva la medaglia, quando arriva il momento di andare vestiti di bianco ad alzare una coppa, quando si arriva davanti alla telecamera e si dice, che bravi questi rugbisti, io lo avevo sempre detto, non vi ricordate? Si tifa solo per un punteggio, al massimo per i ricciolini di Bergamasco, per i pettorali di Lo Cicero, per la grande storia del rugby che però va bene ma solo quando tutto il resto va male. Va bene in prima pagina solo se chissenefrega del calcio, della Formula Uno, del Tennis, del ciclismo. Perché i rugbisti, come Mauro Bergamasco, – ma in Francia per esempio non è affatto così –, finiscono sui giornali per dire, guardate un po’ quanto vanno di moda i rugbisti che non si mettono con le veline e che sono gentili, bravi e anche belli. Ma questo capita solo dopo partite storiche come quelle di Edimburgo (l’Italia non aveva mai vinto una gara del Sei Nazioni in trasferta). I fenomeni, però, esistono anche quando gli altri non vincono. Esistono anche quando l’Italia non ne vince una, prende le sberle dalla Francia, dall’Inghilterra e le perde tutte, ma si diverte sempre.
Mauro Bergamasco ama il rugby anche per questo, anche se poi ogni tanto anche lui pensa alle isole Fiji. Si ricorda delle Fiji, Mauro, perché tre anni fa arrivarono a Monza e gli raccontarono che nelle Fiji quando la Nazionale vince una partita di rugby si proclama un giorno di festa nazionale. Gli raccontarono che nel 1987 il tenente colonnello Sitveni Rabuka occupò il Parlamento con un colpo di stato, ma venne ugualmente apprezzato dai suoi concittadini perché per sette anni, in fondo Rabuka, aveva giocato a rugby ad alto livello. Qui no. Si tifa rugby per un campione, per un trionfo, per uno come Mauro Bergamasco, per uno come Andrea Lo Cicero, per uno come Diego Dominguez. Se si vince in Scozia siamo i migliori, se non si vince non si esiste più.

A Roma, a Parigi, al Flaminio
Quella volta con gli All Blacks a Roma c’era anche lui, aveva giocato in Francia, abitava già a Parigi, a cinque minuti dallo stadio Jean-Bouin, a cinquecento metri da Bois de Boulogne. Il francese lo ha imparato in due mesi, a Parigi insieme al fratello Mirco ora ha aperto un blog: un po’ francese e un po’ italiano, non si capisce nulla. A Parigi, confessa Mauro, non si faceva granché: ogni giorno lo stesso programma, lunedì si recupera, poi piscina, cyclette, pesi, video della partita, allenamenti, palestra, allenamento il mercoledì e il giovedì, il venerdì fisioterapia, il sabato in campo, la domenica a riposo. E non era davvero granché, come ritmo. Dopo la Francia Mirco e Mauro hanno fatto anche un calendario. Lo hanno presentato nel megastore parigino dello Stade Français, al megastore arrivarono trecento ragazze, c’era anche qualche mamma, ci si siede al tavolino, Mirco e Mauro sono molto belli e dopo novanta secondi, avevano già sedici numeri di telefono e cento calendari autografati, anche a qualche mamma.
Gli All Blacks erano arrivati a Roma due sere prima del 13 novembre 2004. Il giovedì sera giravano per via Veneto, chi era lì quella sera racconta che alle due di notte erano completamente ubriachi. Cinque bottiglie di birra a testa, suppli, arancini, ristorante napoletano. Mauro, invece, era andato a dormire alle 23.30. Anche lui era un All Blacks, però ancora non glielo aveva detto nessuno. Due giorni dopo si va in campo, maglia numero sette, mano aperta, gomito stretto sul petto, pallone sotto l’avanbraccio. C’è chi dice che Mauro assomigli a William Webb Ellis. Ellis correva così, il braccio teso quando ancora non si poteva portare la palla in avanti sotto il braccio. Lui però decise che non era giusto, prese la palla, andò dritto e andò in meta. Lo decise lui, cambiò le regole così perché fino a quel giorno si segnava con le punizioni e la palla in mano la si poteva portare solo se si andava indietro. William se ne fregò, prese la palla e andò in meta. Sulla sua lapide a Londra si legge: “This stone commemorates the expolit of William Webb Ellis, who with a fine disregard for the rules of football as played in his time first took the ball in his arm and ran with it, thus originatinc the distnictive feature of the rugby game”. E cioè, colui che con fine disprezzo delle regole del footbal così come veniva giocato ai suoi tempi per primo prese una palla nelle sue braccia e corse via con questa.

“Il Lomu italiano”
Bergamasco in fondo è simile a William. Ha rivoluzionato la terza linea, con uno scatto, una meta e il placcaggio. Di mete in Nazionale ne ha realizzate dieci in tutto. Mauro è un fenomeno, lo era anche prima, ma sabato se ne sono accorti anche gli altri. Perché Mauro ha vinto lì dove il rubgy un po’ è stato inventato. Nel rugby si dice caps, si dice match, si dice, number, si dice out, si dice in, si dice flanker. Nel rugby si parla inglese, al massimo un po’ di scozzese e Mauro Bergamasco ha vinto proprio a casa del rugby. C’è arrivato con i number, con gli in, gli out, con i match e con i caps (i caps, nel rugby sono le presenze in Nazionale, un tempo erano dei berrettini che venivano consegnati dopo ogni incontro a chi aveva disputato la partita, ma i caps valgono soltanto per le partite contro le nazionali vere, non valgono per le amichevoli contro il Pontedera).
Lui cinquantacinque caps, il fratello Mirco (con cui gioca tutt’ora in Francia) trentotto, papà Arturo quattro caps tra il 1973 e il 1978. Perché anche il papà di Mauro e Mirco giocava. E Mauro ricorda spesso quel giorno. Lui aveva sei anni, il papà arrivò a casa e gli disse che in famiglia bastava così, di rugbisti in famiglia ne bastava uno, di costole orecchie maciullate ce ne era a sufficienza, ora ragazzi pensate all’atletica, agli attrezzi, basta con il rugby. Mauro aveva provato con il nuoto e pure con l’atletica. Però niente calcio. Poi a tredici anni arriva una squadra, lui aveva continuato a giocare a rugby, papà lo sapeva ma faceva finta di non vedere. La squadra si chiamava Terrac Padova, giocava esterno, poi mediano di mischia. La maglietta era tutta nera. Poi Mauro diventò una terza linea, ma c’era chi lo voleva da un’altra parte. Con l’ex allenatore dell’Italia, John Kirwan andò così. Kirwan aveva detto che lui, Mauro, era il Lomu bianco. Lomu è stato il giocatore di rugby più forte degli ultimi dieci anni, era il duro degli All Blacks, l’haka non partiva se non iniziava lui, con la lingua di fuori, la testa scura, completamente pelato e un ciuffo al centro, bruttissimo, fortissimo. Poi Lomu entrò in dialisi per una malformazione ai reni, fu operato, ora è tornato. E’ sempre Black, ma non più All. Lomu, quando giocava, era ala sinistra. Kirwan voleva Bergamasco lì sull’ala ma Mauro non voleva. Giocò qualche partita poi disse no grazie, ritornò in Francia, iniziò a firmare molti autografi. Senza di lui l’Italia non vinceva più. Kirwan se ne andò via, Mauro tornò in Nazionale. L’Italia non iniziò a vincere, ma almeno iniziò a prenderne un po’ di meno. Nel 2004 con gli All Blacks c’era ancora Kirwan e c’era anche Bergmasco. Era una delle prime partite senza Diego Dominguez e nel rugby dire Diego Dominguez è come usare un’unica parola per dire, tutti insieme, Baggio, Rivera, Facchetti e Totti. Con gli All Blacks, a Roma, al Flaminio, in tribuna c’era Lomu, accanto Woodward, Ct campione ddel mondo. Arriva l’haka, i primi punti, le mete, sugli spalti si balla, ci sono i campioni, poi c’è anche Bergamasco. Non finì come a Edimburgo, l’Italia perse 10 a 59 ma a fine partita Dominguez ricordò che Mauro era il suo erede e poi Graham, l’allenatore che con gli All Blacks aveva vinto tutto, si alzò e disse: “Quel Bergamasco potrebbe essere uno di noi”. Era il 13 novembre, l’Italia fece una sola meta. Ma anche quella fu storica. Indovinate chi la fece?
Claudio Cerasa
1/3/07