Nessun anonimo, nessun Rambo, nessun aggressore. Così è crollato il castello di sabbia napoletano
Napoli. La storia della mamma circondata da sette poliziotti allertati da una telefonata anonima e arrivati con manette e pistole in ospedale per interrogare, senza mandato, una donna sotto anestesia che aveva regolarmente abortito pochi minuti prima un feto malformato in una sala operatoria, è una storia falsa; una storia che non è mai esistita; una storia che però per due giorni è stata raccontata dai più importanti giornali italiani con il battito pulp di un film di Quentin Tarantino. Imboscate, sgommate, blitz, denunce anonime, donne aggredite. Invece no: tutto quello che vi hanno detto non era vero.
Mentre ieri Franco Giordano, segretario di Rifondazione, raccontava di una donna “aggredita in corsia”, e mentre a Napoli, Roma, Milano e Palermo, due giorni fa, centinaia di donne in piazza avevano chiesto ai poliziotti di non fare “i Rambo negli ambulatori”, gli stessi giornali che avevano montato i fotogrammi di un film che non era mai stato girato hanno spiegato ai loro lettori, coraggiosamente e con eleganza, perché quelle scene proiettate su carta in realtà non sono mai esistite. La verità di Napoli è una donna che espelle un bimbo di ventuno settimane dentro un water al secondo piano del Policlinico Federico II, nel reparto di ostetricia, senza che nessun poliziotto l’abbia mai aggredita in un corridoio; senza che nessun Rambo l’abbia mai interrogata sotto anestesia; senza che in centrale sia mai arrivata alcuna denuncia anonima. Così ieri, nelle pagine due e tre (che pubblichiamo oggi nel primo inserto), Corriere e Repubblica hanno fatto capire perché quell’idea di “diavolo collettivo” di cui Francesco Merlo aveva scritto su Rep. è una cosa completamente diversa da “un diavolo arrogante che presume di incarnare la morale pubblica” che avrebbe “spinto giudice e poliziotti a trattare un’intera struttura ospedaliera come un covo sordido di mammane abortiste”. E’ un’altra cosa, invece: perché l’idea di diavolo collettivo è piuttosto quella che si ascolta dalla voce dell’infermiere che lunedì sera aveva chiamato la questura di Napoli, dal Policlinico Federico II, con nome, cognome e numero di telefono; per spiegare – e naturalmente denunciare – che in quell’ospedale una donna era uscita dal bagno con il sangue che ancora le scorreva, con i ferri e il feto in mezzo alle gambe, con trenta pazienti che, lì accanto, gridavano terrororizzati e con due infermieri che le avevano tagliato con le forbici il cordone ombelicale, dopo aver scoperto che quella donna “aveva abortito nel cesso”. E l’aggressione dei poliziotti? “Erano gentilissimi, non è stato un blitz”, racconta l’infermiere. E l’intimidazione? “Veramente ho atteso che la donna rientrasse in stanza, e quando le ho chiesto se potevo rivolgerle qualche domanda lei stava vedendo la tv in camera”, spiegherà la poliziotta. E la “malformazione”, la “grave malattia congenita? “Un non grave, e diffuso, disordine genetico”, dicono oggi i dottori. Dunque non c’è nessuna “giustizia che si è mossa in base a una qualsiasi convinzione religiosa”, come scritto da Rep.: perché un signore con nome e cognome ha raccontato in diretta ai carabinieri di una donna che ha partorito un feto morto in gabinetto, e perché i carabinieri in borghese, con abiti civili, con segnali acustici disattiviati e con un mandato (telefonico) del magistrato hanno chiesto alla donna che cosa era successo. Non c’è, naturalmente, nessun complotto, nessuna montatura e nessuna distorsione volontaria dei fatti. Poco importa che martedì scorso chiunque abbia avuto tempo di parlare con un ginecologo dell’ospedale di Napoli ha ascoltato la stessa storia raccontata dall’infermiere del Policlinico, perché il punto qui è un altro. Perché la costruzione pulp del castello di sabbia napoletano non è frutto di un complotto mediatico, è un tic, un riflesso incondizionato del giornalista collettivo di una verità che deve essere dimostrata a tutti i costi, perché, si pensa, è impossibile che le cose siano andate diversamente, che quella donna non abbia abortito normalmente, che “quella non meglio specificata vita” non fosse malformata e che a Napoli sia stato ucciso un bimbo di ventuno settimane perché malato. Invece oggi il blitz è stato assolto, la riduzione opinioninistica della cronaca è diventata un fatto e se le parole del procuratore di Napoli, Giovandomenico Lepore sono diventate verità (“un banalissimo caso di una denuncia che andava controllato”, ma qui “si è voluto creare una strumentalizzazione”) il merito è proprio di chi, per due giorni, quel castello fatto di imboscate, sgommate, denunce anonime e donne aggredite lo aveva visto ingigantirsi senza dire e senza scrivere nulla, e che ieri, invece, ha avuto il coraggio di smontare. Quindi chapeau.
lunedì 18 febbraio 2008
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