venerdì 30 novembre 2007

Il Foglio. "Nuovi Compagni di scuola"

Occhio a quello che sta succedendo tra gli studenti. Dopo le ultime elezioni, tra università e superiori c’è qualcosa che si muove, che non è di sinistra e che potrebbe mettere in imbarazzo pure il loft di W. Ecco perché

Roma. Walter Veltroni e Silvio Berlusconi dovrebbero dare una sbirciatina a quello che sta succedendo nelle scuole e nelle università italiane, visto che tra quei ragazzi di quattordici, di sedici, di diciotto e di vent’anni – che fino a ieri avevano messo in allarme sindaci e ministri per lo più in quota studenti che si picchiano nudi, al telefono e in diretta su YouTube – si trovano un paio di numeri che meriterebbero un po’ di attenzione, almeno quanto le asticelle che si abbassano e poi si rialzano dei sistemi elettorali. La notizia è che tra i seggi delle scuole italiane la sinistra non è mai stata in difficoltà come in questi giorni. Soprattutto in alcune sue città chiave. Ieri pomeriggio, nelle sedi dei movimenti giovanili di destra, di centro e di sinistra, sono arrivati i primi dati delle elezioni studentesche delle scuole superiori. Dati che fotografano, in piccolo, uno scenario che negli ultimi mesi potrebbe essersi nascosto dietro le tendine di quella camera oscura pronta a mettere a fuoco da un giorno all’altro il vero volto della maggioranza di governo. Parlare di trionfo o di sconfitta è sempre un po’ azzardato per realtà studentesche che da circa vent’anni hanno nel proprio codice genetico una rappresentanza complessiva mai legata davvero né a partiti di destra né di sinistra. Un dato però è molto chiaro: la gauche fa molti passi indietro, la destra fa molti passi avanti; e al contrario di quanto scritto dall’intellettuale francese Eric Brunet nel saggio “Il tabù della destra”, nelle scuole italiane la droit oggi vince dove non aveva mai vinto prima e oggi si conferma dove prima non si era mai confermata. Con alcuni risultati clamorosi, soprattutto per il modo in cui gli studenti di tutt’Italia hanno disegnato il nuovo quadro politico: oggi nelle Consulte provinciali (gli organi studenteschi più importanti degli istituti superiori) e ieri negli organi di rappresentanza universitaria. Si vince così tra gli studenti: si vince senza tessere plastificate, senza cerimonie congressuali e senza liturgia di memoria botanica; si vince con gli occhi di Chuck Norris (è successo a Milano, al liceo Berchet, dove una lista legata a Cl ha scelto di fare campagna con il volto severo dell’attore di “Walker Texas Ranger”), ma si vince soprattutto senza fascio, senza falce, senza martello, senza sigari del Che e con un bipolarismo con pochi pugni alzati e con poche braccia tese. Perché tra le province italiane che hanno votato negli ultimi giorni per eleggere gli organi di governo studenteschi, la destra ha in pugno un numero di presidenze notevolmente superiore a quello della sinistra: 27 ufficiali, di cui 23 riconducibili ad As, l’Azione studentesca legata ad An. Dall’altra parte, l’Uds (Unione degli studenti di sinistra) mentre ieri pomeriggio contava i suoi 14 presidenti, non può far altro che certificare quello che fino a qualche anno fa era impensabile per il movimento di An: sicuro oggi del suo 81 per cento di voti a Firenze, delle tre province su cinque in Campania, della vittoria a Palermo, a Perugia, a Torino (storico fortino della sinistra studentesca) e anche a Roma: dove la destra non vinceva da quasi dieci anni (anche se nella capitale la sinistra denuncia “violazioni del regolamento” e la destra risponde sostenendo che il voto sia stato ratificato dall’ufficio scolastico).
E il trend, vale per le scuole oggi e per le università ieri; perché anche qui il quadro è piuttosto chiaro: e dopo il boom di Cl lo scorso maggio al Politecnico di Milano (dove con gli schieramenti di destra prese 3.183 voti, mentre la sinistra 780), il massimo organo di rappresentanza universitaria (Cnsu) ha dato una spallata alla vecchia maggioranza: occupando 18 dei 30 seggi del consiglio e facendone perdere tre alla sinistra. E non può dunque sorprendere che nel meccanismo di ricomposizione politica studentesca, anche i sedicenni a cui Veltroni puntava in tempo di primarie (e che negli anni Novanta venivano invitati da Santoro a parlare di revolución studentesca) vogliono ora far rimbombare l’allarme dell’incazzatura di sinistra anche nelle stanze del loft. Per questo minacciano W più o meno così: “Il Pd nelle scuole non ci entrerà mai”.
Claudio Cerasa
30/11/07

mercoledì 28 novembre 2007

Il Foglio. "Bicamera con vista". Maroni parla in tedesco del Cav bipartitico e ci spiega che cosa dirà domani a W sulla legge elettorale

Roma. Roberto Maroni domani mattina incontrerà al quinto piano del palazzo dei gruppi parlamentari il segretario del Partito democratico Walter Veltroni. Lo farà un giorno prima di Silvio Berlusconi, un giorno dopo Pier Ferdinando Casini e tre giorni dopo Gianfranco Fini. L’agenda dell’ex ministro del Welfare è però molto simile a quella del Cav. Così tanto che il colloquio leghista di domani sarà un passaggio niente male per capire davvero dove andranno piantati i paletti del dialogo tra il Cav. e W. Roberto Maroni, capogruppo della Lega a Montecitorio, dice al Foglio che “uno spirito bicamerale di Berlusconi che rispetti gli accordi di Gemonio sarebbe da elogiare”. Poi precisa che “l’unico argomento su cui si potrà discutere con Veltroni sarà però solo la legge elettorale. Punto”. Di riforme non se ne parla, almeno per ora. Proprio la stessa cosa che venerdì il Cav. dira a W. Da ieri mattina, però, Maroni ha in testa una certezza in più; un numero, il numero quattro: ovvero la quota a cui verrà appoggiata l’asticella del sistema elettorale di cui Berlusconi, Bossi, Calderoli e Maroni hanno parlato lunedì sera, ad Arcore. Quattro per cento. Significa, come spiegato ieri mattina da Paolo Bonaiuti (portavoce del Cav.), che con uno sbarramento di questo tipo la Lega entrerà “nel processo di riforma elettorale”. Ma c’è dell’altro. Perché dopo l’intervista freddina concessa da Bossi sabato a Repubblica (“Berlusconi in piazza non mi è piaciuto”, “Troppa demagogia”), la Lega comincia a raccogliere dal Cav. le garanzie che chiedeva da tempo: “Le asticelle vanno abbassate, non alzate”, ha spiegato ieri Bonaiuti. Come dire: nel dialogo sul sistema elettorale la Lega non corre pericoli. E anche per questo Maroni sarebbe contento di condividere in futuro la struttura di partito su cui ragiona il Cav. Funzionerà così.
Nel modello di grande partito popolare che il Cav. ha in mente da tempo, l’abbraccio tra la Lega e il Pdl dovrebbe essere simile a quello teutonico tra Cdu e Csu: i cui eletti, in Parlamento si trovano insieme in unico gruppo (Cdu/Csu) che pompa voti e seggi nel cuore grancoalizionista di Angela Merkel. “In effetti se dovessimo pensare a un modello perfetto con Berlusconi questo sarebbe l’ideale. Detto ciò – spiega Maroni – il sistema elettorale di cui parlerò con Veltroni (ma davvero esiste una proposta Veltroni?) è quello concordato a Gemonio con la Cdl: un sistema con uno sbarramento che tenga conto del forte radicamento territoriale”. Quindi proporzionale di sbarramento con indicazione del candidato premier. “Veltroni finora ha fatto parecchia filosofia sul sistema elettorale. Noi vogliamo però conoscere anche le virgole di questa proposta e a Veltroni chiederemo cosa ha da dire su governabilità e rappresentanza massima. Anche se alla Lega nessuno ha mai ricevuto nulla, neppure una bozza di Vassallum”. E Boniauti? “La sua proposta è molto interessante. Ed è un’idea di cui non avevamo parlato neppure lunedì. Ad Arcore, infatti, Bossi ha cercato di spiegare a Berlusconi che governare contro il mondo intero è più da superman che da Forza Italia; e l’unico punto su cui avevamo trovato un’intesa era il ‘no’ al referendum”. E’ il vero obiettivo di Veltroni, secondo Maroni: “Non credo che i due si siano già accordati sulla legge elettorale. Sono certo che Veltroni, più che al Vassallum, punti al referendum, visto che sembra fatto apposta per un partito come il suo. Attenzione però: il dialogo sulla legge elettorale non è un gioco. Lo spazio per determinare una direzione rispetto a un’altra c’è ancora e i vantaggi, in questa partita, alla Lega non mancano certo”. Maroni li spiega: “Siamo il partito di cui Berlusconi si fida di più, siamo un buon punto di appoggio per An e Udc, ma siamo anche una realtà a cui l’Unione guarda con grande interesse. Berlusconi deve ricordare che la caratteristica di essere territoriali impone a partiti come il nostro alleanze con schieramenti di destra e di sinistra. E che sì, siamo autonomi nella fedeltà, ma siamo anche pronti ad andarcene per i fatti nostri”.
Maroni è convinto che domani W non sarà in grado di sedurre la Lega su nessuno dei temi sottolineati con la matita blu sull’agenda padana; crede che “di riforme costituzionali si tornerà a discutere in Parlamento”, guarda con un po’ di preoccupazione in meno il nuovo partito del popolo, ma se pensa al giorno in cui la Consulta potrebbe mettere diesel nel motore referendario (15 gennaio), Maroni fa una pausa e si affida al proverbio. “Se passa il referendum la soluzione è semplice: ognuno per sé e Dio per tutti”.
Claudio Cerasa

martedì 27 novembre 2007

Il Foglio. "Northern Rock ‘n’ Roll".

La banca inglese finita al tappeto per i subprime trova un salvatore. E’ Branson, il re della Virgin, delle mongolfiere e del bungee jumping. Tra aerei e Sex Pistols fa una cosa quasi inaudita da noi: mette i quattrini

Londra. L’ultima volta che aveva promesso di non farlo più, Richard Branson aveva quarantasette anni, aveva rischiato di morire due volte e aveva già trasformato il suo impero musicale della Virgin in un’azienda che dai dischi dei Sex Pistols arriva oggi fino agli sportelli della Northern Rock. E ogni volta, sir Branson, il grande colpo lo anticipa così: salendo in cielo con la mongolfiera, ieri; scendendo giù con il bungee jumping, oggi. E’ andata così negli anni Novanta, quando Branson, dopo aver fondato la sua casa discografica, annunciava i suoi affari con pomeriggi di sport estremo. E’ andata così oggi, con Branson che a 57 anni, dopo essersi lanciato giù da un palazzo di Los Angeles, è diventato il possibile salvatore della Northern Rock: la banca inglese che più di tutte ha rischiato di finire al tappeto dopo la crisi estiva dei subprime e dopo quel crollo del 39 per cento (18 settembre) che costrinse la Bank of England a prestarle 24 miliardi di sterline.
Ieri è stato il giorno della svolta: la banca inglese ha detto “sì” alla sua offerta. Branson controllerà il 55 per cento dell’istituto di credito, con un aumento di capitale previsto di 1,3 miliardi di sterline, e il titolo della Northern ha fatto un balzo del 38 per cento. Ha deciso il nuovo nome della banca (sarà assorbita da una sua società finanziaria, Virgin Money), il nuovo capo esecutivo (sarà Anne Gadhia, attuale vertice di VM) e invece che appoggi o garanzie politiche – come si farebbe da noi per entrare in una banca, per quanto semifallita – l’imprenditore inglese ha offerto agli azionisti della Northern l’unica cosa che le serviva davvero: quattrini.
Soldi che Branson ha cominciato a incassare oltre trent’anni fa, nel 1970, quando in un negozio di sessanta metri quadrati all’incrocio tra Oxford Street e Tottenham Court Road (a Londra) iniziò a vendere dischi per corrispondenza e cominciò a mettere da parte quelle sterline con cui, pochi anni dopo, fece la sua prima mossa, producendo il suo primo disco: Mike Oldfield, “Tubular Bells”, vendette cinque milioni di copie. Fu da quel giorno che decise di investire sul brand Virgin. E’ diventato uno degli inglesi più amati al mondo (qualcuno lo vorrebbe come sindaco di Londra), ha colorato di rosso Virgin treni, aerei, bibite, tv, sport center e soprattutto radio. E’ un tipo molto simpatico, Branson. Si finanzia da solo di solito. Prima di investire in una nuova operazione, lo dice lui, preferisce “vendere piuttosto che ricevere soldi in prestito” (la casa discografica la cedette, piangendo, nel 1992) e c’è chi continua a chiamarlo sia il capitalista hippy (per via dei capelli lunghi e per il suo passato un po’ ribelle, finì anche in carcere per una notte) sia lo Steve Jobs del megastore. Si fa intervistare con i calzini bucati (è successo con il Times), si fa accompagnare dai genitori alle conferenze stampa, vestito da uomo ragno, da cow-boy o da pirata. E’ legato ai labour da una vecchia conoscenza con Blair (si dice sia stato il primo ad arrivare alla festa quando divenne premier), ha conosciuto Brown, ha attaccato più volte Murdoch e il suo impero (“un pericolo per la democrazia”, lo definì un paio di anni fa). Luca Valotta, il direttore generale di Virgin Active Italia, racconta al Foglio che Branson, oltre ad aver creato una specie di merchant bank, “ha anticipato di parecchi anni sia il modello culturale del low cost di Ryan Air sia il modello un po’ friendly senza cravatta e senza camicia di Steve Jobs”. E Jobs, due anni fa per una campagna Apple che cercava l’identificazione con i volti più importanti del XX seolo, accanto al Mahatma Ganhdi, ad Albert Einstein e Martin Luther King scelse proprio la faccia un po’ a forma di brand di Richard Branson.
Claudio Cerasa
27/11/07

domenica 25 novembre 2007

Il Foglio. "Le riforme viste dal taxi"

Ricordate il pacchetto delle liberalizzazioni? Sembrava l’anticamera di una rivoluzione per farmacie, mutui, treni, aerei. Cinquecento giorni dopo, il tassametro conferma che la rivoluzione è partita ma non è arrivata. E il tassinaro spiega perché

Fiumicino. Tredici novembre. Cinquecento
giorni dalle liberalizzazioni.
Cinquecento giorni dal decreto
che cambierà “la vita degli italiani”
(Romano Prodi), che diventerà un “terremoto”
per noi tutti (Francesco Rutelli),
che favorirà sia la “concorrenza
che la competitività” (Livia Turco) e
che rivoluzionerà professioni, negozi,
trasporti, farmacie, barbieri, benzinai,
parrucchieri, ferrovie, aerei, banche,
mutui, carburanti, imprese, commerci,
professioni, avvocati, farmacisti e naturalmente
tassisti. Tassisti. Più concorrenza,
più servizi, prezzi più bassi.
Semplice. Ore ventidue e cinquanta,
aeroporto Leonardo da Vinci, ventitré
chilometri da Roma: due vigili urbani,
sei trolley portati a mano, una valigetta
ventiquattrore, un volo Milano-Roma
(centoventitré euro, dieci minuti di
ritardo), una corsia verniciata di giallo,
due cartelli con scritta “Taxi”, quindici
passeggeri in fila, sette tassinari
abusivi (“cinquanta euro Roma Fiumicino-
Roma centro”), zero “Taxi” in corsia
e sedici minuti di attesa. Sedici minuti;
poi il primo: compagnia Samarcanda,
06.5511. Luigi, trentacinque anni,
capelli neri tipo Danilo Coppola,
felpa verde, Citroen C3, tredici anni di
licenza, 1.350 euro al mese e tassametro
bloccato. Tragitto: aeroporto Fiumicino-
Piazza Mazzini, Roma; fuori
dalle mura Aureliane, zona dove la tariffa
fissa semplicemente non si usa,
non è prevista. Il costo. Ieri, cinquecento
giorni fa, prima del “terremoto”
e prima della rivoluzione delle professioni,
della concorrenza e della competitività,
il costo era trentadue euro.
E oggi? E oggi le liberalizzazioni? E le
rivoluzioni annunciate? E la rivoluzione
delle farmacie, dei treni, dei taxi?
Che succede? Sono percepite? Ci sono.
Sì, oppure no?
Radio. Musica dei Black Sabbath, voce
di Ozzy Osbourne, tassametro spento,
tariffa fissa anche se fissa non dovrebbe
essere. Si parte. Sono le ventitré e sei
minuti, è il tredici novembre.
“Certo, li leggo i giornali: sapevo
quello che volevano da noi; sapevano
che volevano aumentare le macchine,
che volevano aumentare il numero delle
vetture in circolazione, che volevano
accumulare, o cumulare, come si dice?
Sì, ecco: ci volevano ‘liberalizzare’, volevano
darci il satellitare, volevano
metterci la doppia targa, volevano lasciarci
tutti per strada. Me lo ricordo.
Me lo ricordo cosa ci dicevano. ‘Ottimizzare
i turni’, ‘aumentare il numero di
vetture in circolazione’, ‘rilasciare permessi’,
‘localizzare autovetture’, ‘qualità
del servizio’. E invece no. E invece il
sindaco nostro c’ha fatto il regalo bello
bello. C’è venuto incontro, sì: ha capito
che dovevamo trattare tutti e che di liberalizzare,
o come si dice, non se ne
faceva nulla. Sì, è vero: ci sono 1.500 licenze
nuove, tassista più tassista meno;
ma non è cambiato nulla, perché doveva
già cambiare tutto da prima, e perché
quelle licenze erano previste già da
un po’. Quanto. Mah, da quattro, da cinque.
Da cinque anni, più o meno”. Anno
duemilauno, l’assessore alla Mobilità
a Roma si chiama Simone Gargano,
il Comune annuncia proprio 1.500 licenze
in più: arriveranno sei anni dopo;
le liberalizzazioni, con quelle licenze,
non c’entrano proprio nulla. “E noi certo
che lo sapevamo: certo che ci sono un
po’ di macchine in più, oggi: ma alla fine
siamo noi che abbiamo vinto. Perché?
Perché avevamo chiesto di aumentare
le tariffe, avevamo chiesto il 25
per cento in più, il Comune ci voleva
dare solo 12 per cento ma ora, tra 25 e
12 la media, su per giù, quant’è? Diciotto.
Diciotto per cento di tariffa in più.
Questa sarà la nostra vittoria. E si va
avanti. Perché il cinque dicembre siamo
tutti in piazza: e se proprio vogliono
mettere qualche macchina in più in giro
che aumentassero anche le tariffe e
che aumentassero anche i prezzi; semplice,
no?”. Semplice. Pochi taxi in più
e prezzi più alti. A Roma, ma anche a
Milano. I dati sono questi. Si parte dal
taxi e poi si arriva alla “rivoluzione”
annunciata ma non esattamente percepita.
Perché. Perché a Milano, per i
taxi, le tariffe sono aumentate del 12,9
per cento in un anno: e dal centro di
Milano, per raggiungere Malpensa, oggi
ci vogliono settanta euro; da Malpensa
per raggiungere la Fiera ci vogliono
cinquantacinque euro; da Linate alla
Fiera sono quaranta euro e, infine, da
Malpensa a Linate gli euro sono ottantacinque.
E a Roma? A Roma sono 1.450
le licenze in più; e in tutto, oggi, ne girano
7.450, di taxi. Più taxi, sì: ma a prezzi
più alti. Quindi esattamente il contrario
di quel “più libertà, più scelta e prezzi
più bassi e più opportunità di lavoro”,
di cui parlava Bersani, ministro per lo
Sviluppo, lo scorso luglio. Diceva così,
qualche mese fa, chi a Roma conosce
bene il problema e chi, per anni, ha lavorato
sia con Francesco Rutelli che
con Walter Veltroni: “Qui si parla di
turni, non di rivoluzione e non di liberalizzazione.
Perché qui viene tutto stabilito
così: con un’ordinanza, con una
decisione dall’alto; e questo non significa
liberalizzare; significa imporre
qualcosa; significa che ciascuno può fare
il turno che vuole: e questo, purtroppo,
vale per il taxi come per il resto.
Perché il taxi sarebbe la cosa più semplice
da rivoluzionare. E se vogliamo
entrare nel dettaglio, a Roma, così come
a Milano, l’unica cosa che la legge
può modificare è questa: è che il titolare
può mettere alla guida della sua
macchina un dipendente, ma solo nel
caso in cui ci sia un turno aggiuntivo;
qui però, per i taxi, si tratta semplicemente
di piccole aggiunte fatte ai turni
esistenti; turni che, tra l’altro, quasi sicuramente
verranno gestiti dai titolari
attuali. E cosa avrebbero liberalizzato
dunque?”. Così è andata. E i taxi sono
solo un esempio di rivoluzionaria liberalizzazione
annunciata e non percepita.
Del prezzi più alti e meno concorrenza.
E per di più, almeno a Roma,
l’aumento era stato già previsto, quasi
sei anni fa; così come era stato previsto
che più licenze sarebbero arrivate solo
con i prezzi un po’ più alti. Suona un po’
male, no? Certo, qualche vettura in più
c’è davvero: ma il rapporto tra numero
di vetture e numero di abitanti rimane
questo: 2,1 taxi per ogni mille romani e
1,6 taxi per ogni mille milanesi. E a
Londra? 8,3. E a Barcellona? 9,9. Liberalizzare,
si diceva. Più servizi, più concorrenza,
più libertà, più scelta, prezzi
più bassi, più opportunità di lavoro.
“Non si torna indietro”, spiegava Francesco
Rutelli a metà del 2006. E’ andata
davvero così? E’ stata percepita davvero
la “rivoluzione”?
Raccordo anulare, ventitré e dodici
minuti tassametro off, Rolling Stones,
“Exile On Main Street”: oggi tariffa fissa
40 euro, ieri tariffa non fissa, dieci
euro. Il taxi. Le liberalizzazioni. Riprende
Luigi. “Perché? Perché accanirsi
così su di noi, perché accanirsi
sul taxi? E il resto? E gli aeroporti, le
stazioni, le strade, i telefonini? Perché
tu scendi dal treno, accendi il telefonino,
prenoti un aereo, chiudi un conto
in banca, fai benzina e ti senti così: ti
senti come se un medico ti avesse promesso
un elisir di vita eterna e poi nella
boccettina ti ritrovi un po’ di cianuro.
Sì, ci sarebbe la storia del telefonino.
Certo, è solo un esempio ed è vero,
hanno tolto il costo della ricarica. Ma
poi? Ma poi succede che ti arriva un
sms sul cellulare. Succede che ti tagliano
i costi di ricarica, e poi? Poi così,
all’improvviso, il gestore ti informa
che ‘aumenteranno le tariffe’. Aumenteranno
le tariffe? E tu che fai? Cambi
gestore? Chiami il numero verde? Cerchi
un altro telefono? Fai causa al gestore?
No. Ti attacchi, è naturale”. Telefonini,
dunque. Dallo scorso cinque
marzo Tim, Wind, Vodafone e Tre sono
state costrette a eliminare il costo fisso
della ricarica. Il risparmio? Da uno
a cinque euro per ogni erogazione.
Con un ma. Il ma è che con “un preavviso
di trenta giorni” le compagnie
possono “attuare” una “modifica contrattuale
concedendo al cliente il solo
diritto di recesso”. Detto e naturalmente
fatto. Gli aumenti, tra tariffe,
collegamenti ai portali mobili, scatto
alla risposta, vanno dal dieci al venti
per cento. Impossibile prevederlo? Così
così. Ventotto gennaio del 2007, dichiarazione
del presidente dell’Antitrust
Antonio Catricalà: “Mi auguro
che le tariffe telefoniche, che un po’
saliranno, non aumentino così tanto da
sminuire il vantaggio”. Un po’ saliranno,
diceva Catricalà. E un po’, va detto,
erano davvero scesi i costi: del 14 per
cento secondo i dati Istat di giugno.
Poi, però, i costi sono saliti ancora. Ed
è andata così per i telefoni, così per i
taxi, così un po’ anche per le farmacie.
E il trucco, in fondo, si trova anche qui.
Perché i farmaci, finendo sui banchi
dei supermercati (“vendita dei medicinali
da banco al di fuori dalle farmacie”,
si legge nel decreto Bersani) potrebbero
portare a un risparmio totale
di 150 milioni di euro all’anno e a un
abbattimento dei costi del 20 per cento
circa. Ma quanti sono gli esercizi
commerciali dove si trovano i farmaci,
davvero? Millecentoquarantotto in
tutt’Italia, come scritto nell’ultimo rapporto
pubblicato a settembre dal ministero
dello Sviluppo economico. Meglio
di niente, ma non granché. Il problema
però si trova anche qui. Come
ricordato qualche mese fa in una lettera
a Repubblica dal deputato della
Rosa nel Pugno Sergio D’Elia, uno dei
punti più importanti in questa liberalizzazione
era ed è quella che si riferiva
ai farmaci “di fascia C”, cioè ai farmaci,
si chiamano così, “generici”. Doveva
funzionare in questo modo: i nomi
commerciali dei prodotti dovevano
sparire dalle ricette e i medici avrebbero
dovuto indicare, sulla ricetta, non
il farmaco ma il suo principio attivo; e
in questo modo i farmaci sarebbero
stati scelti non tanto per il nome, quanto
per il prezzo. Ecco, così non è andata,
sulle ricette troveremo ancora i nomi
dei soli farmaci, e la manifestazione
organizzata dai farmacisti lo scorso
lunedì – contro la liberalizzazione – è
stata dunque annullata. “Davvero un
paese che non riesce a liberalizzare la
distribuzione del farmaco, sarà in grado
di separare Snam da Eni o di privatizzare
le fondazioni bancarie”, si
chiede Alberto Mingardi dell’istituto
ultraliberista Bruno Leoni.
Raccordo anulare, uscita numero
uno, Aurelia-Città del Vaticano. Venti
euro ieri, quaranta oggi. Un tassista non
liberalizzato e le liberalizzazioni che in
fondo in fondo tanto liberalizzate non lo
sono state proprio. Sono le ventitré e
quindici minuti. “Non so, ma quando
guardi i giornali a volte non capisci. Ma
come è possibile che, in quanto?, tre,
quattro, cinque anni, lì sulla Manica
hanno fatto un buco dove passa un treno
che ti porta da Londra a Parigi in
due ore mentre qui, da dieci anni, si
parla di quella roba lì; della Tav, dei treni
lenti, dei ritardi, dei prezzi che salgono
e di quei cazzo di no Tav che non si
capisce che vogliono, lì in Piemonte. E
uno apre qui i giornali e che vede? Vede
i treni che arrivano in ritardo, vede i
treni che costano di più, vede i ponti
che non si fanno, vede gli intercity che
vanno più lenti dei taxi e vede i telefonini
che dovevano costare di meno e
che ora, invece, semplicemente costano
di più. E lo vedi, tu: perché parti dall’aeroporto,
arrivi alla stazione, viaggi in autostrada,
parli al telefonino e non te ne
frega nulla né di partiti, né di fusioni,
né di niente. Il partito lo voti una volta
ogni cinque anni, il telefonino lo usi
una volta ogni due ore, la macchina la
prendi una volta al giorno, il treno lo usi
una volta al mese. Cos’è più importante?
Cosa mi costa di più? Cosa mi interessa
di più? Parlare di un partito nuovo
o arrivare in due ore a Londra?”.
Due ore, cinque virgola nove miliardi di
sterline investite, 299 chilometri orari di
media. E qui invece la Tav. “L’obiettivo
è stato raggiunto”, spiegava qualche
giorno fa il ministro Antonio Di Pietro,
parlando di treni, di Tav e dei 671 milioni
stanziati dall’Unione Europea per finanziare
il progetto della Torino-Lione;
già presentato undici anni fa dal governo
di centrosinistra e che, se si farà, si
farà non oggi, non domani, ma tra quattro
anni: quindici anni per una ferrovia.
Semplice. Quando invece, nel pacchetto
Bersani, tra le tante cose, tu leggevi
anche questo: “Apertura al mercato del
settore ferroviario”, “separazione fra
autorità regolatrice e gestore della rete”,
“efficiente gestione della stessa rete”,
“allocazione non discriminatoria
della capacità di rete e dei terminali”.
Efficiente gestione della rete, dunque.
E poi, anche qui: i costi. Un esempio.
Dal prossimo nove dicembre le tariffe
sulle tratte regionali dei treni italiani
aumenteranno del dieci per cento. Il
quotidiano la Stampa ha fatto questi
calcoli: da Bologna a Bolzano, in prima
classe, si passerà dai 16,80 euro di oggi
ai 27,95 di domani. In seconda classe dai
12,90 di ieri si passerà ai 18,80 di domani.
Dieci per cento di aumenti oggi, il
dieci per cento in più già dallo scorso
gennaio e il cinque per cento di aumento
previsti tra il 2009 e il 2011: quando in
Germania i treni probabilmente faranno
concorrenza agli aerei e quando qui,
a Torino, si parlerà ancora di buchi nelle
montagne e quando l’Economist, come
fatto tre mesi fa, parlerà ancora di
una “new era of international rail travel”
dove Svizzera, Belgio, Germania,
Austria, Olanda e Francia si metteranno
lì a tavolino per disegnare il futuro
del trasporto ferroviario del continente
e per progettare un “high speed revolution”
con i treni che “faranno concorrenza
agli aerei” e le ferrovie che, privatizzate,
diventeranno sempre più low
cost: ecco, l’obiettivo – come dice Di Pietro
– sara stato pure “raggiunto”, ma l’Italia,
nella era of revolution, semplicemente
non c’è.
Chilometro numero diciannove, via
Baldo degli Ubaldi, tassametro off, 26
euro ieri, 40 euro oggi. Musica dei Planet
funk, voce di Dan Black. Treni, taxi,
farmacie, telefonini. Il tassametro è
bloccato. Luigi: “Cioè. So du anni che
me pare che ‘r gobbo vede la gobba dell’artri
gobbi, ma nun riesce mai a trovasse
la sua. I problemi sono sempre gli
altri: sono i tassisti i problemi, non i politici;
mai uno, chessò, che dica ‘abbiamo
sbagliato’. Certo, tu ci pensi un attimo
e un po’ ci fai caso; perché chi sale
qui in macchina capita spesso che ti
parla di queste cose e che si, magari a
telefono, magari ad alta voce, magari
con qualcuno a bordo, arriva si chiede
che fine ha fatto Telecom? Che fine ha
fatto Alitalia. Sì. Che hanno fatto?
L’hanno privatizzata? L’hanno vennuta?
E a chi va? E su che aerei viaggiamo?
Di chi sono? E ora: che succede? Scioperano,
non scioperano. Boh. E poi, altra
promessa: e il mutuo? Ecco, il mutuo.
Che storia è questa? ‘Trasportabilità’,
m’avevano detto, giusto? Trasportabilità
gratuita dei mutui, m’avevano
giurato. Bene: a me, per spostarlo, il
mutuo, me l’hanno fatto pagare. Rispondetemi.
Come mai?”.
Ad aprile, nella lenzuolata firmata
da Pierluigi Bersani, si legge anche
questo: “azzeramento dei costi per i
sottoscrittori dei mutui che vogliono
passare da una banca a un’altra per ottenere
migliori condizioni”. Lo scorso
cinque novembre è successo che l’Abi
– l’Associazione bancaria italiana – si è
rifiutata “di affrontare il problema dei
costi”. Ora, la stessa Abi, ha “suggerito
che i costi di portabilità dei mutui dovranno
essere a carico della banca subentrante”.
Si suggerisce. Si rimanda.
E si aspetta ancora un po’, per quella
rivoluzione per quel terremoto che
avrebbe travolto negozi, trasporti, farmacie,
barbieri, benzinai, parrucchieri,
ferrovie, aerei, banche, mutui, carburanti,
imprese, commerci, professioni,
avvocati, farmacisti e naturalmente
tassisti, quella rivoluzione che, come
spiegava Romano Prodi, avrebbe
“cambiato la vita degli italiani” e che
invece, cinquecento giorni dopo, se ne
va in giro con i taxi che costano di più,
con i treni che costano di più, con i farmaci
che un po’ ci sono e un po’ no e
con una tariffa, quella del taxi, che da
Fiumicino a Roma centro, prima della
rivoluzione, costava trentadue; e oggi
invece costa quaranta.
Claudio Cerasa
24/11/07

mercoledì 21 novembre 2007

Il Foglio. "A pensar male. Prodi intravede l’asse tra il Cav. e W, si defila nel bunker, confida nel referendum e ha un piano di difesa".

Roma. Non deve essere facile per uno come Romano Prodi leggere ogni giorno sui giornali la parola “proporzionale”. Non deve essere facile per uno come Prodi che fino a qualche mese fa scandiva ancora il suo “tranquilli, torneremo al maggioritario”, vedere ogni giorno un Veltroni che parla di “sistemi proporzionali senza premi di maggioranza” felice di sedersi a tavola con un Berlusconi, convinto che “una legge proporzionale vada bene”, mentre Massimo D’Alema dice di “non essere contrario a una riforma elettorale basata sull’impianto tedesco” e Fausto Bertinotti, “partigiano del modello tedesco”, ripete che, in fondo in fondo, se proprio ci si deve pensare, se proprio Prodi deve cadere, la soluzione più opportuna sarebbe quella di “un governo istituzionale che faccia la riforma elettorale”. E proprio per questo una strategia, seppur impostata su assetti difensivi, Prodi la sta preparando. E non è solo un discorso di seggi, di sbarramenti o di collegi. Quello che fanno i prodiani è un discorso “culturale”: è la consapevolezza di come il premier e di come i suoi più stretti alleati siano un po’ in imbarazzo ora che sono costretti a imporre una propria quota nell’asse proporzionale tra i poli su quel sistema e su quel dialogo elettorale che così com’è, dice al Foglio il deputato prodiano Franco Monaco, “non farebbe altro che accentuare l’instabilità dei governi, come nella Prima repubblica, e sarebbe poi in contrasto con la democrazia maggioritaria che ha generato l’Ulivo”. Certo, Prodi non è contento: è ritornato ieri dalla Germania, da due giorni evita di parlare di modelli tedeschi, spagnoli o francesi, non dice ancora nulla di nuovo sulle dolci occhiate tra W e il Cav. ma nello staff di W c’è chi non considera un caso che, proprio ieri, stretto ancora una volta in un angolino del suo bunker, il premier abbia detto che “il monopolio mediatico di Berlusconi sia un pericolo per la democrazia”. Si difende, Prodi, sa che la coalizione rischia di finire sotto lo scacco dell’asse tra W e il Cav., ma una tattica, il Prof., ora ce l’ha davvero.
(segue dalla prima pagina) Da un lato c’è chi, come Arturo Parisi, per non perdere contatto con il nuovo asse proporzionale, ragiona sia sulle contraddizioni di Veltroni – alla prima del Pd, W disse: “A me piace il sistema francese” – sia sulle idee del Cav: “Se Berlusconi non vuole essere ricordato come uno degli affossatori del sistema bipolare resista al ritorno all’indietro”. Dall’altro Prodi, convinto che nella difesa del cuore maggioritario dell’Ulivo l’unica parola da dire sia “no”, pensa invece che una soluzione vera, da qui al 15 gennaio (giorno in cui la Consulta dirà se il referendum elettorale è valido oppure no), Berlusconi e Veltroni non la troveranno mai. Ma c’è di più, perché il premier sa che è un rischio troppo grande spendere il proprio nome sulla legge elettorale e per questo è pronto a sabotare l’asse tra W e il Cav. per dilatare il più possibile i tempi degli accordi. Il ragionamento degli uomini di Prodi è questo: se il governo ci mettesse il timbro e se il negoziato dovesse poi essere un fallimento, il peso dell’operazione ricadrebbe tutto su Prodi. Meglio, dunque, fare un passo indietro; meglio rimanere un po’ defilati e far parlare solo W, ricordando però che il premier, anche se non parla, è “sempre informato sul percorso di Veltroni”. Il discorso non persuade quei veltroniani convinti, invece, che Prodi interverrà nella meccanica di tutela bipolare soltanto per dare la possibilità al proprio governo di durare un po’ di più”. Soltanto per questo. “Certo – spiega Franco Monaco – guardare al referendum, più che al proporzionale, sarebbe in realtà un vantaggio sia per Veltroni sia per Berlusconi. Ma c’è una cosa che mi stupisce: Veltroni, ora, dovrebbe capire che puntare sul proporzionale rischia di essere un vero problema per l’unità dello stesso Pd”.
Claudio Cerasa
21/11/07

martedì 20 novembre 2007

Il Foglio. "Le tre carte che Veltroni ha in tasca per costruire un asse con il Cav."

Roma. Due ore nel loft passate con Goffredo Bettini, Dario Franceschini, Anna Finocchiaro e quasi tutto l’esecutivo del Pd e poi, finalmente, Veltroni lo dice: “L’apertura di Berlusconi è assolutamente positiva. Perché prima l’idea era che non si discuteva, non si dialogava e non si parlava. Adesso, invece, i no si sono trasformati in sì; e questo è sicuramente un fatto positivo”. Sì, dunque: ora si tratta. Il giorno dopo la rivoluzione milanese di Silvio Berlusconi (che domenica aveva di fatto sciolto la Cdl, aveva annunciato un nuovo partito e aveva aperto alle riforme portando ai gazebo, contro Romano Prodi, quasi otto milioni di elettori) il segretario del Partito democratico scopre definitivamente le tre carte che metterà sul tavolo, da oggi, per costruire il suo asse insieme con Silvio Berlusconi e insieme con il nuovo partito presentato ieri dal Cav.: “Solo un cambiamento di denominazione”, secondo Veltroni; “positivo”, invece, per il vicepremier Francesco Rutelli, dato che “da una fase nuova come questa potranno venire solo sviluppi positivi e per questo noi ci disponiamo in buona fede e con sincera disponibilità”. Parla anche di altro, Veltroni. Non parla solo di sistema elettorale, ma parla anche di riforme istituzionali, di legge Bassanini e di regolamenti parlamentari. Si parte da qui però: si parte da quella riforma elettorale di cui Berlusconi aveva già accennato ieri in un’intervista alla Stampa, dove il Cav. aveva aperto a quello stesso sistema tedesco e a quello stesso proporzionale di cui avevano già discusso pochi giorni fa, a Montecitorio, Walter Veltroni e il presidente della Camera Fausto Bertinotti e su cui, in tarda serata, si è espresso anche Massimo D’Alema: “Non sono contrario a una riforma elettorale basata sull’impianto tedesco”. Ha riparlato di proporzionale anche ieri, Veltroni, dopo averne parlato venerdì scorso alla fondazione Italianieuropei e dopo averlo detto a Frascati, lo scorso 10 novembre: quando W, per la prima volta, parlò di un “sistema proporzionale, senza premio di maggioranza”. Ed è proprio quella la data che i veltroniani considerano come il giorno chiave, il giorno in cui Veltroni è ufficialmente uscito allo scoperto per costruire il suo asse con il Cav.; è da quel giorno che “Walter ha cominciato a seguire con maggiore attenzione ogni singola dichiarazione, oltre che di Berlusconi, anche di Michela Vittoria Brambilla”, dice chi conosce bene W, perché Veltroni era sicuro che il Cav. stesse preparando, non da solo, qualcosa di clamoroso: qualcosa che aveva anticipato Franco Marini già sabato scorso, quando, intervistato dalla Stampa, il presidente del Senato aveva detto che “Berlusconi è troppo intelligente per restare isolato nel confronto sulle riforme”. Dunque, ora si discute davvero: nell’esecutivo di Veltroni c’è chi parla di una svolta culturale, chi dice che forse per la prima volta il Cav. non viene più trattato “come se fosse Peron” e chi, di ispirazione dalemiana, crede proprio che “Berlusconi sia un genio, perché, con questo partito, in un quarto d’ora ha fatto quello che noi a sinistra abbiamo fatto in tredici anni”.
Non parleranno subito, il Cav. e W, perché mentre in Transatlantico c’è chi l’asse l’aveva già intravisto prima della riunione di ieri (spero che “Veltroni non ceda all’asse con Berlusconi”, aveva detto Massimo Donadi capogruppo Idv alla Camera), nell’esecutivo di Walter sono in molti quelli convinti che sia il Cav., e non Veltroni, a dover fare ora la prima mossa (“Tutto dipende da lui”, dice Federica Mogherini, membro dell’esecutivo del Pd). Certo è che nei prossimi giorni al loft di via dei Cerchi verranno tenute sotto osservazione le parole e i movimenti di Pisanu e di Cicchitto e mentre Bettini attende ancora una risposta da parte di Gianni Letta sulla bozza Vassallum (definita ieri da W non l’unica alternativa ma “una soluzione possibile”), Franceschini, insieme con i costituzionalisti Vassallo e Ceccanti, continuerà a gestire la costruzione mediatica del dialogo tra W e il Cav. e continuerà a parlare, con una certa frequenza, del 15 gennaio: cioè il giorno in cui la Consulta dovrà dire la sua sulla costituzionalità di quel referendum elettorale che Veltroni e Berlusconi non criticano ormai da un bel po’. Che sia solo un caso? Fatto sta che questa sera al Circolo Canottieri Roma il sindaco della Capitale parteciperà a una serata di beneficenza, dove insieme con Giovanna Melandri e Fabio Capello, Veltroni dovrebbe incontrare anche quel Gianni Letta che nell’anticipazione di un suo libro intervista, la scorsa settimana, aveva parlato di “una vasta coalizione per le riforme istituzionali”. Pensava a Forza Italia o al nuovo partito del Cav.?
Claudio Cerasa

giovedì 15 novembre 2007

Il Foglio. Cinquemila tifosi e un funerale. C’erano quasi tutte le curve d’Italia ieri a Roma per l’addio a Gabriele Sandri.Con un chiaro linguaggio,

C’erano quasi tutte le curve d’Italia ieri a Roma per l’addio a Gabriele Sandri. Senza sirene né disordini, con i poliziotti in borghese, ma con un chiaro linguaggio, un’enigmatica pax e una nuova cultura ultras

Roma. Dentro. La voce della mamma, il fiore della polizia, la corona del sindaco, le lacrime della Lazio, gli occhi di Francesco Totti, la voce di Di Pietro, l’abbraccio del sindaco, lo sguardo del prefetto, la telecamera del tifoso, il microfono del fratello, le note della Nannini, le parole del parroco (“cosa avesse fatto per non vivere ancora non si è capito”) e poi le sciarpe bianco e azzurre, giallo e rosse, nero e azzurre, rosso e nere poggiate qui, sopra la bara del ventottenne Gabriele Sandri, il dj romano tifoso della Lazio ucciso domenica mattina in un autogrill, a pochi chilometri da Arezzo, con un proiettile partito dalla pistola di un poliziotto. Dentro, Gabriele. Fuori, invece, la piazza, la divisa, lo striscione, le scarpe New Balance, il bomberino nero, i jeans stretti alla caviglia, il cappellino con l’aquila biancoceleste, i fischi a chi oggi urla contro la polizia e poi la veglia, gli sguardi, il tifo, gli applausi, le bandiere, le bandane, i cori, i colori, il saluto romano e una strada con la sua cultura che batte le mani come mai aveva fatto prima; e non (solo) per ricordare il colore della maglia di un tifoso ma perché, in quell’autogrill, in quella macchina, in quella strada e in quella trasferta al posto di Gabriele Sandri ci sarebbe potuta essere una qualsiasi delle cinquemila persone arrivate ieri nella piazza di fronte alla chiesa San Pio X, a Roma, a Monte Mario, in zona Balduina. E non c’è stato nessuno scontro, nessuna sirena, nessuna macchina della polizia, ieri: solo un centinaio di agenti in borghese, qualche telecamera nascosta tra le finestre, i tifosi della Lazio arrivati prestissimo, un paio di ragazzi con minacciosi caschi da sommossa schierati dietro l’angolo e poi via via tutti gli altri, tutte le altre tifoserie che l’ultima volta che si erano incontrate così, tutte quante, lo avevano fatto nel 1995; quando un tifoso del Milan ne aveva accoltellato uno del Genoa (“Spagna”) e quando, dopo quel pomeriggio, gli ultras si erano segretamente incontrati e avevano firmato, tra loro, una breve ma osservata pax.
Solo che ieri è successo qualcos’altro, perché la cultura della strada, la cultura – a volte un po’ catacombale – dell’ultras la si capisce, in certi casi, anche quando parla sottovoce. Ecco, non era mai successo che ci fossero qui, in pubblico e in piazza tutti insieme, i tifosi del Genoa, della Fiorentina, del Torino, della Reggina, del Cagliari, del Bologna, dell’Avellino, del Catanzaro, del Catania e naturalmente della Roma; non era mai successo che così, davanti a tutti, interisti e milanisti arrivassero simbolicamente a Roma con gli stessi treni; non era mai successo che i tifosi di Bergamo – dell’Atalanta – dopo aver fatto interrompere domenica una gara di campionato, per rispetto verso la storica tifoseria nemica della Lazio, arrivassero solidali a Roma, insieme con i tifosi della Ternana e della Fiorentina. Ma soprattutto non era mai successo che di fronte a tutte le altre tifoserie nemiche a Roma si presentassero con le sciarpe azzurre quei tifosi a cui le forze dell’ordine hanno recentemente proibito l’ingresso negli stadi di Roma e di Palermo e che invece si sono presentati, improvvisamente, ieri mattina dietro piazza della Balduina: mettendo in silenzioso allarme il servizio d’ordine della tifoseria laziale (e il suo uomo forte, detto “Tonno”) arrivando, come da protocollo, in un robusto gruppo da trenta, portando con sé i colori del Napoli, offrendo una corona di fiori al tifoso ucciso e dando il via a un coro che nel linguaggio un po’ da strada e un po’ da ultras è stato ben recepito: “Ga-bri-e-le-u-no-di-no-i”. E non ha nulla a che vedere con quel “codice di violenza locale del posto pieno di lupi dove nessuno può imporci le logiche da lupo”, di cui parlava Francesco Merlo la scorsa settimana su Repubblica. “Questa è una santa alleanza tra ultras, significa zero scontri tra curve, significa meno scontri tra noi, significa alleanze contro le forze dell’ordine. In una parola? Banda contro banda”, diceva ieri chi ben conosce il codice e la cultura ultras, poche ore prima che a Roma i tifosi sfilassero per strada, che il procuratore di Arezzo definisse il comportamento dell’agente omicida “imperdonabile” e che il gip di Roma confermasse l’accusa di terrorismo per due dei fermati dopo gli scontri di domenica a Roma. “Terrorismo”, ripetevano ieri i tifosi in quella piazza a forma di curva, abituati a essere l’uomo in più, il dodicesimo in campo, e raccolti ora per il loro uomo in meno e per la loro possibile nuova pax. E sia pace davvero.
Claudio Cerasa
15/11/07

martedì 6 novembre 2007

Il Foglio. "Li come Liedholm. Sapeva allenare con lo sguardo, con l’accento e con lo stile. Campione che inventava campioni"

Gre, No, Li, e poi Rivera, Ancelotti, Pruzzo, Capello, Baresi, Maldini, Conti e ora Totti. Era naturale, quasi automatico: la squadra saliva, quattro rimanevano indietro, quattro si fermavano al centro e due lì, che aspettavano davanti. Era la Roma, il Milan, la Fiorentina, il Varese, il Monza, il Verona, erano gli ottantacinque anni di Nils Liedholm, il maestro, morto ieri, con cui il Milan vinse lo scudetto della Stella: il decimo, quello con il rosso del diavolo e quello con gli occhi del Barone. Era la maglietta giallo, rosso e Barilla di Bruno Conti, quella della Roma del 1983, del primo anno dopo il Mondiale spagnolo e dell’anno della Coppa Campioni all’Olimpico persa sul dischetto con i diavoli del Liverpool; quella Roma con cui Liedholm vinse lo scudetto e che l’allenatore svedese avrebbe ritrovato nel 1996 con i vent’anni e i capelli corti di Franceso Totti. Era Nils Liedholm, era la zona disegnata senza lavagne, senza gessetti, senza uomo da seguire, era la rivoluzione con quel dribbling che non era mai un peccato, con il fantasista che doveva fare il quarto in difesa e che Liedholm invece no, prima della partita lo fermava, lo prendeva e gli diceva sì, tu giochi al centro, giochi un po’ più avanti. E lo faceva con Di Bartolomei (alla Roma) e lo avrebbe fatto, oggi, anche con Andrea Pirlo, al Milan. “Lo guardavi e tremavi. Poi però sorrideva – dice Roberto Pruzzo, bomber della Roma di Liedholm dal 1980 al 1984 – Ero io che la sera lo riaccompagnavo a casa in macchina: e lui era sincero, ti difendeva sempre, aveva un grande ascendente sulla stampa, si divertiva molto con quel suo accento che sembrava sempre così poco italiano. Era il suo stile, aveva cambiato il calcio con la qualità e senza catenacci. Era anglosassone, scopriva i talenti. Scoprì Falcao, scoprì Cerezo, e ne scoprì tanti, scoprì anche me; ed era bello, perché allenava semplicemente con lo sguardo”.

“Non lo vedevi ma lo sentivi”
Diceva così, diceva ancora forza Roma, forza Milan il “Li” del Gre-No-Li; era arrivato in Italia dalla Svezia, era arrivato al Milan con Gunnar Gren, Gunnar Nordahl, erano loro i Tre; tre come gli olandesi Gullit, Van Basten e Rijkaard, tre come quei capitani del Milan passati accanto al Barone Nils: quindi Rivera, Baresi e Paolo Maldini. Sembrava qualcosa di più però, Nils. “Era impressionante. Lo guardavi e aveva qualcosa di più. Era il grande capitano del Milan, era il fenomeno con quella fascia grande grande, era il campione che inventava campioni, era quello che tu guardavi e lui non parlava, ma ti dava sicurezza; non lo vedevi ma lo sentivi. E tu crescevi, e lui ti spiegava. Dolce, non duro. Sembrava un vescovo. Allenava, insegnava. Nils giocava con noi, scendeva in campo con i giocatori: si allenava, tirava in porta, poi esultava. Eravamo il Milan, eravamo una squadra: allenatore e giocatore. Tutti insieme. Era così anche a Firenze. E lui non era come qualcun altro oggi: non era uno che metteva un terzino a centrocampo, o un’ala in difesa. Lui conosceva i ruoli, e li rispettava. Al massimo li inventava, i ruoli. Perché il libero vero è quello che fu fatto da Liedholm: ed è vero, con lui c’era anche molta libertà: se c’era un dribbling si sorrideva, non ci si arrabiava. E poi mai un errore, mai un problema, mai uno scandalo, lui. Era la zona, quella di Nils, ma sembrava la rivoluzione”, dice al Foglio Nevio Scala, scoperto a Milanello nel maggio del 1963 proprio da Liedholm e suo grande allievo in quegli indimenticabili sei anni passati da Scala come allenatore del Parma.
Il vescovo. Il maestro. Entrava così, con il pallone sotto braccio, con i capelli tirati indietro, con la testa alta, gli occhi giù in basso, le gambe lunghe, il sorriso, la maglia col collo a V. Funzionava così, in campo con Nils. “Sapevano come muoverci, ma dovevamo decidere noi in campo. Perché noi eravamo diventati professionisti per scelta, non per obbligo. E Nils voleva i piedi buoni, i passaggi, le marcature non fisse, il possesso palla. Ma soprattutto, in campo, voleva allenatori”, scrive Gianni Rivera nell’introduzione del libro “Nils Liedholm e la memoria lieve del calcio”. Perché Liedholm ha attraversato la prima e la seconda repubblica del pallone rimanendo sempre l’allenatore più antico: quello che ha inventato un calcio quasi impossibile, con quindici tocchi a centrocampo, con i passaggi fitti fittti e con un calcio con cui – da allenatore – ha vinto in fondo solo uno scudetto a Milano e uno a Roma. Ma è questo il calcio poi ereditato da Arrigo Sacchi, da Capello, da Anceleotti. Il calcio veloce, quasi impossibile di Zeman, il calcio con la squadra che saliva, i quattro indietro, i quattro al centro e quei due lì davanti e con quella rivoluzione così antica che anche ora che è scomparso, Nils continuerà a inventare il pallone del futuro, ancora per un po’.
Claudio Cerasa
6/11/07

domenica 4 novembre 2007

Il Foglio. "Una bugia molto precaria"

Chi ha detto che gli impiegati a termine sono lavoratori usa e getta? E chi ha detto che la flessibilità comporta solo depressione? I dati confermano il contrario. Con la Biagi si lavora di più. Dietro la retorica (e la lagna) sul precariato c’è spesso un grande bluff

“Il governo ci ha regalato lavoro nero
legalizzato”.
Piazza San Giovanni, Roma, manifestazione sabato 20 ottobre, contro il precariato


Sono diventato precario il tre gennaio
del duemilasette, un mese prima di
ricevere la mia prima busta paga stampata
su un foglio bianco in formato A4,
con le caselle orizzontali occupate da
una serie di numeri progressivi con ore
lavorative, giorni retribuiti, posizione
Inail, ferie godute, ritenute, competenze,
detrazioni, imponibili e altre undici
voci – di sicura importanza – ordinate
sotto un piccolo timbro blu dell’Istituto
nazionale per l’assicurazione contro gli
infortuni di lavoro. Sono diventato precario
a ventiquattro anni sette mesi e
due giorni, con uno stipendio né troppo
basso né troppo alto, con un contratto a
tempo determinato né troppo corto né
troppo lungo, che un tempo si chiamava
cococo che oggi invece si chiama cocopro
– o contratto a progetto, se volete – e
che nel corso degli anni, gli ultimi quattro
in particolare, è diventato il simbolo
di una legge firmata nel febbraio del
2003, scritta da Marco Biagi e approvata
dal ministro del Welfare del governo
Berlusconi, Roberto Maroni; una legge
che qualcuno vorrebbe abrogare, qualcun
altro vorrebbe cambiare e qualcuno
altro ancora vorrebbe semplicemente
dimenticare; una legge accolta con vivacità
da Eugenio Scalfari, nel giugno
del 2003 (“crescerà una generazione dura,
egoista, ansiosa, nevrotica e malvissuta”,
scriveva il Fondatore) e diventata
ora equivalente, quasi sinonimo di
frasi come “giovani in difficoltà”, “mercificazione
del lavoro”, “flessibilità da
pezzenti”, “occupazione usa e getta” e
soprattutto “precarietà”. Precarietà,
precarietà, precarietà. No alla precarietà.
No a una vita da precari. No ai nostri
figli precari. No. No. No.
Sono diventato precario dopo tre anni
di università, dopo uno stage di due mesi
in un giornale sportivo, dopo uno stage
di tre mesi in una tv regionale, dopo
due mesi di stage per un sito Internet nazionale
e dopo un anno di stage trascorso
nel giornale per cui scrivo oggi. E lo
sono diventato pochi mesi prima che
Francesco Caruso si convincesse che
Marco Biagi e Tiziano Treu fossero “armatori
degli assassini”, pochi mesi prima
che il governo rischiasse di cadere
proprio sul pacchetto welfare (e sui contratti
di lavoro) e pochi mesi dopo l’ultimo
appello elettorale di Romano Prodi,
del 7 aprile 2006, quando il futuro premier
sosteneva che “la Biagi impedisce
a una generazione di progettare il futuro”
e quando io, sette mesi dopo, diventando
effettivamente “precario” con un
fantastico contratto a termine, avrei scoperto
– come centinaia di migliaia di ragazzi
in giro per l’Italia – che la precarietà
così, così come la si intende, così
come la si vende, non c’è, non esiste, è
una farsa, un mito, un imbroglio, semplicemente
una truffa. Semplicemente una
grandissima balla: una bugia costruita
con l’aiuto di un’equazione un po’ truffaldina
che come per magia ha fatto diventare
la parola “flessibilità” sinonimo
di “precarietà”, “mercificazione”, “occupazione
usa e getta” o “vita da pezzenti”.
Sono sinonimi? Sono davvero la stessa
cosa? No, naturalmente; sono cose molto
diverse: perché quando si parla di
“precarietà” non si parla di uno status
lavorativo, non si parla di uno status giuridico,
si parla più che altro di una percezione,
di una sensazione o di un’idea
di instabilità diffusa; perché lo stesso
contratto, lo stesso identico tipo di foglio
formato A4, con le caselle orizzontali e
con le ore lavorative, i giorni retribuiti,
la posizione Inail, le ferie godute, le ritenute,
le competenze, le detrazioni, gli imponibili,
in Svezia, in Inghilterra, in
America, in Spagna, in Francia è semplicemente
considerato un lavoro e in Italia,
chissà perché, sembra essere quasi
un delitto. E lo capisci così, lo capisci
quando prendi le forbici, apri il tuo contratto,
e poi lo tocchi, lo guardi, lo sottolinei,
lo poggi sul tavolo, lo metti nel cassetto:
e che sia di una settimana, di un
mese, di due mesi, di un anno o poco più,
fa lo stesso; perché, molto banalmente,
l’alternativa sarebbe non averlo proprio;
perché l’alternativa sarebbe stare fuori,
non dentro; perché l’alternativa non sarebbe
“occupato”, sarebbe quella con le
tre paroline davanti: “dis” e poi “occupato”.
E ha ragione il senatore di Forza Italia
Maurizio Sacconi quando dice al Foglio
che “precariato e apprendistato preludono
a un rapporto di lavoro stabile,
prevedono un investimento”. Molto spesso
è proprio così. E’ un’opportunità, è il
poter avere una possibilità quando al
contrario potresti dire soltanto un’altra
cosa: “No”. E questo non vuol dire che
non ci siano situazioni precarie o che
non ci siano lavoratori in difficoltà, è evidente.
Ma dire “a termine”, e poi pensare
“precario” è semplicemente una bugia.
E te ne accorgi quando compri il
giornale, quando compri per esempio
Repubblica, quando guardi la prima pagina,
e ne sfogli una, ne sfogli due e arrivi
a pagina sette; e leggi. Leggi (era il 20
ottobre 2007) che “l’esercito dei precari
è a quota due milioni”, poi guardi in alto,
guardi a destra e trovi un grafico molto
grande con una linea nera che va su,
su, su e da sinistra a destra attraversa come
una diagonale tutto il diagramma, e
poi ti ritrovi un rettangolino piccolo piccolo,
dove leggi qualcosa; e tu capisci tutto,
capisci l’inganno e capisci che si scrive
“esercito di precari” ma si legge, anche
qui, semplicemente “contratti a tempo”.
Il discorso è più o meno questo: ci
sono più contratti e quindi c’è anche più
precariato. Suona un po’ male, no? E
suona un po’ male anche perché se da
un lato c’è chi vorrebbe far credere che
il contratto a termine sia ormai la prassi,
dall’altro c’è anche chi ancora non capisce
che non solo questa non è la prassi
ma che il problema che rende il nostro
mercato del lavoro così fragile rispetto
a quello di molti altri paesi europei
è che i contratti a termine sono –
cioè, siamo – per giunta pochi pochi.
Troppo pochi. Quanti? Vediamo.
Nella fascia di età compresa tra i 15 e
i 24 anni, i contratti a termine (l’anno di
riferimento è il 2006) toccano il 40,3 per
cento dei contratti complessivi. Tanti?
Non esattamente; perché la differenza
con gli altri paesi precari, contenti e meno
brontoloni è davvero impressionante,
come si legge anche tra le righe del libro
di Angela Padrone, “Precari e contenti”
(Marsilio Editore): 9 punti in meno rispetto
alla Francia, 26 (ventisei) punti in
meno rispetto alla Spagna e 16,8 punti
percentuali in meno rispetto alla Germania.
E fosse solo questo il punto. Il
punto, invece, è che i contratti a tempo
determinato rimangono pochi anche se
ci spostiamo sul totale dei lavoratori a
tempo determinato in Italia. Esempio:
sapete quanti sono quelli che chiamano
i “precari” in Italia? Sono quasi il 13 per
cento degli occupati totali, sono poco
meno di quelli che si trovano in Francia,
13,8, e quasi un terzo di quelli che si trovano
in Spagna, 34,4 per cento. E per chi
volesse annoiarsi un po’ è dai dati precisi,
è dalla scomposizione di quel 13 per
cento da cui si comprende come i contratti
puri a tempo determinato siano
una percentuale ridicola nel mercato
del lavoro, purtroppo; perché tra il 2,9
per cento dell’apprendistato, il 4,7 per
cento dei contratti di formazione, lo 0,4
per cento di quelli a inserimento resta
un totale – nientemeno – del 5,7 per cento
di contratti a tempo determinato. Cinque
punto sette: il dato dei precari è
questo, e c’è poco da discutere. E un po’
strano, dunque, che un governo così europeista,
il cui premier è un ex presidente
della Commissione europea e il
cui ministro dell’Economia è un ex
membro del board della Banca centrale
europea, non stia lì a rivendicare un importante
accordo firmato nel 2000 a Lisbona.
Un accordo molto, molto europeo
che – come naturalmente ricorderanno
Romano Prodi e Tommaso Padoa-
Schioppa – aveva fissato l’asticella del
tasso di occupazione a quel 70 per cento
da raggiungere entro il 2010. Ma non solo.
Perché proprio l’accordo di Lisbona,
pubblicato all’inizio della presidenza
Barroso, fu poi revisionato con un successivo
rapporto – il rapporto Kok – fortemente
voluto dall’allora presidente
della Commissione europea: Romano
Prodi, naturalmente; che anche per questo
dovrebbe quindi ricordare che quella
legge Biagi che (come detto il 7 aprile
del 2006 dallo stesso Prodi) “impedisce
a una generazione di progettare il futuro”
è anche quella legge che ha portato
il tasso di occupazione al 58,9 per cento;
quella legge che ha permesso al Consiglio
nazionale dell’economia e del lavoro
di scrivere, nel suo ultimo bollettino
pubblicato a settembre, che “il numero
dei lavoratori temporanei ha ormai raggiunto
livelli quasi il doppio del numero
dei disoccupati”; quella legge che ha
fatto scendere la disoccupazione dall’8,2
per cento del 2005 al 5,7 per cento del
2007. (I dati sono tutti riportati all’interno
degli archivi dell’ADAPT/ Fondazione
Marco Biagi e del Centro Studi Marco
Biagi diretto dal giuslavorista Michele
Tiraboschi, da molti considerato come
uno degli eredi dello stesso Biagi).
Ecco, dire no ai contratti a tempo indeterminato,
o quanto meno volergli
mettere la museruola, significa non capire
che la stabilità non può essere e
non ci può essere garantita per legge;
perché il diritto al lavoro è un conto, il
diritto al lavoro indeterminato è un altro;
e sulla Costituzione non c’è mica
scritto che “la Repubblica riconosce a
tutti i cittadini il diritto al lavoro a tempo
indeterminato”, visto che sarebbe un
po’ come incontrare una ragazza bellissima
e poi guardarla, avvicinarla, osservarla,
presentarsi da lei con un foglio in
mano e chiederle di sposarti prima ancora
di averle dato un bacio, e poi incazzarsi
se quella prende e ti dice di no. Sarebbe
un po’ strano, no? Mica si vorrà
chiedere a una ragazza di fidanzarsi o di
sposarsi solo perché si è uomini potenzialmente,
diciamo, occupabili. Giusto?
“C’è un altro punto però che andrebbe
spiegato meglio – spiega al Foglio il
presidente della Commissione attività
produttive della Camera, Daniele Capezzone,
ideatore del network Decidere
– E’ che la precarietà, così come ce la
raccontano, non esiste. Perché? Perché
da quattro anni siamo l’unico paese che
in Europa registra un costante incremento
dei tassi di occupazione e una significativa
contrazione del lavoro precario,
quello vero. Da quattro anni! Non so
se è chiaro. E questo perché l’obiettivo
del mercato del lavoro è in effetti quello
di includere, includere, includere, e
dare modo alle persone che si trovano ai
margini della società di trovare un’occupazione.
Includere, non escludere. Semplice,
no?”. Funziona così: si lavora di
più, si assume di più. Sarà mica per questo,
sarà mica perché i contratti a tempo
determinato funzionano, funzionano benone
che il sindaco di Bologna, Sergio
Cofferati – che ai tempi della segreteria
della Cgil la parola più elegante che
aveva trovato per definire il Libro Bianco
di Marco Biagi fu “limaccioso” – ha
deciso di applicare all’interno del suo
Comune la “limacciosa” Biagi anche per
i contratti dell’amministrazione pubblica,
di per sé non previsti nel pacchetto
votato nel 2003? Sarà mica per questo
che il politico più alto in grado due sabato
fa a Piazza San Giovanni – Nichi
Vendola – nell’aprile del 2006 si è ritrovato
una sentenza su carta intestata della
Consulta che faceva notare al governatore
della Puglia come non applicare
la legge Biagi e non utilizzare le norme
sull’apprendistato previste dalla legge
30 semplicemente non sia costituzionale?
Chissà, magari è soltanto una coincidenza,
magari no: ma secondo i dati pubblicati
a metà ottobre dall’Eurostat, tra
tutte le regioni d’Europa quella che “più
di tutte penalizza l’inserimento dei giovani
e delle donne nel mercato del lavoro”
è proprio la Puglia del compagno governatore;
che forse, più che continuare
nella sua crociatina contro i contratti a
termine e contro la Biagi, dovrebbe spiegare
alla sua piazza che se il “governo ci
ha regalato lavoro nero legalizzato”,
cioè se il governo (quello precedente,
però) ha fatto scendere il lavoro in nero
a quota quattro milioni, quel governo lo
si dovrebbe semplicemente ringraziare,
e non attaccare. E invece no.
E invece il ministro della Solidarietà
sociale, Paolo Ferrero, continua a ripetere
che in Italia ci sono “trenta milioni
di famiglie precarie” (Repubblica, 30
settembre 2007), i giornali continuano a
titolare con “il precariato dà forza alle
mafie” (Orazio La Rocca, Repubblica,
20 ottobre 2007) e Pecoraro Scanio continua
e continuerà a proporre i suoi
“young day contro il precariato”. E si
capisce, perché il “precariato” è una
parolina che fa sempre comodo; perché
dire “precariato” (cosa diversa dal dire:
“precarietà lavorativa”) è come dire “la
pace è bella”, “la povertà è brutta”, “le
malattie sono cattive”, “la palla è rotonda”,
ed è difficile trovare qualcuno che
ti fischi o qualcuno che ti dica no, la pace
è brutta, la povertà è bella, il precariato
mi piace; ed è molto facile trovare
qualcuno che ti ricopre di applausi se
tu stai lì a ripetere per cinque volte in
un monologo di due ore la parola “precarietà”,
come successo anche a Walter
Veltroni al Lingotto di Torino. Un po’
meno facile è invece dire cose come
queste, dire che “ignorare le richieste
di modernizzazione provenienti dall’Europa
sarebbe in fondo una scelta
egoistica propria di chi pensa a se stesso
e non immagina un futuro migliore
per i propri figli”, come scritto sul Sole
24 ore da Marco Biagi il 19 marzo del
2002, poche ore prima di essere ucciso
dalle Brigate rosse con tre colpi di pistola
alla nuca.
E se il problema fosse un altro? E’
soltanto un caso che politiche come
quelle sul lavoro pensate per chi ha tra
i 20 e i 25 anni funzionino meno bene
per chi di anni ne ha 30 o 35? E’ soltanto
un caso che in regioni come la Basilicata,
il Molise, la Puglia e la Sicilia, nei
vari contratti di formazione lo status di
“giovane” sia stato esteso da 32 a 45 anni,
come scritto da Maurizio Sacconi e
Michele Tiraboschi nel libro, edito da
Mondadori, “Un futuro da precari?”. E’
solo un caso che se tu lavori a 25 anni in
Italia ti dicono: “Ma scusa? Così giovane
e già lavori?”. Probabilmente no, non è
solo un caso. E non è nemmeno troppo
difficile capire il perché, visto che in
Italia il periodo di transizione tra scuola
e lavoro è ben al di sopra della media
europea (undici anni contro sette), visto
che il 22,4 per cento degli iscritti all’università
ha oltre 30 anni, visto che dei 200
mila laureati l’anno (in Italia) soltanto
uno su quattro tra loro trova davvero lavoro,
visto che nel nostro paese il 60 per
cento dei ragazzi tra i 25 e i 30 anni vive
ancora con i genitori (in Francia il 18
per cento, in Inghilterra il 13 per cento)
per il semplice motivo che tre su dieci
ancora studiano e quattro su dieci
“stanno bene così, per conservare la
propria libertà”, come scritto in una
lunga inchiesta riportata sul Sole 24
Ore, quasi due anni fa.
Non è dunque così difficile capire
che più si esce in ritardo dall’università
e meno si è disposti a essere flessibili, e
meno si è disposti a dire di sì a uno stage
o a un apprendistato o magari a un
piccolo contrattino. Ed è anche per questo
che il lavoro temporaneo è percepito
come “cattivo”, “sbagliato”, “ingiusto”;
perché pensi: “Ma come? Ho passato
sette anni all’università e ora mi
vogliono far perdere tempo con contratti
e contrattini del cazzo quando ormai
ho quasi trent’anni?”.
Ora, se proprio si vuol parlare “di
giovani”, se proprio si vuol parlare di
“lavoro”, di “welfare” e di “precariato”
più che ispirarsi a piazze rosse o a
young day, più che continuare a dire cose
come “siamo caduti nella precarietà
perenne” (Romano Prodi), “io so solo
che c’è un malessere profondo” (Franco
Giordano), “i lavoratori si sentono soli”
(Oliviero Diliberto), ecco: forse il modo
migliore sarebbe riprendere il discorso
fatto da Nicolas Sarkozy al Gran Meeting
dei giovani, in Francia. Era il 18
marzo del 2007: eccolo, Sarko. “Io sono
venuto a dirvi che non credo a una politica
dei giovani, ma che credo a una politica
che permette ai giovani di costruirsi
un avvenire che sia all’altezza
delle loro speranze e dei loro sogni. Io
sono venuto a dirvi che non voglio aiutarvi
a restare giovani il più a lungo possibile
ma a diventare degli adulti che
realizzano i sogni della loro giovinezza”.
E poi. “Non si rende servizio ai giovani
quando si fa loro credere che hanno tutti
i diritti, che tutto è loro dovuto, che
non è necessario fare nessuno sforzo”.
Ma è così difficile? E’ così difficile
capire che più contratti a termine significa
semplicemente più possibilità
di avere contratti non a termine? E’
possibile che sia così difficile capire
che essere “precari” sia uno dei modi
migliori per poi non esserlo più, “precari”?
Certo, detta così in effetti potrebbe
sembrare quasi un controsenso.
Ma come? Come fanno ad aumentare
i contratti a tempo indeterminato se
aumentano anche quelli a tempo determinato?
E allora tu ti ricordi di
averle già sentite, ti ricordi di averle
già lette queste parole; e quindi sfogli,
cerchi, riapri i giornali, torni al 2003,
ritrovi Repubblica, ritrovi Scalfari, ritrovi
l’editoriale del 6 giugno del 2003
(“Gli allegri cantori del lavoro flessibile”)
e leggi che con la Biagi “crescerà
una generazione furba e dura, egoista
e ansiosa, nevrotica e malvissuta”, leggi
che il “dilagare di queste figure contrattuali
avranno come conseguenze la
polverizzazione del mercato del lavoro,
lo sfarinamento delle rappresentanze
sindacali e un’ondata di precariato
diffuso a tutti i livelli in tutte le
dimensioni produttive”; quindi ci pensi
un po’, cerchi un po’ di dati e scopri
che, nonostante tutto, tra il 2003 e il
2007, negli anni della “mercificazione
del lavoro”, della “flessibilità da pezzenti”,
dell’“occupazione usa e getta”,
i contratti a tempo indeterminato sono
aumentati del 3,5 per cento e che le assunzioni
previste per il 2007 interesseranno
circa 840 mila persone, di cui il
45,4 per cento saranno impiegati stabilmente,
e il 42,6 invece a scadenza.
Ecco, poi torni di là; poi torni al Fondatore
e leggi ancora quelle parole e
leggi così: “Il ministro del welfare (Maroni)
si è addirittura arrischiato ad affermare
che il ‘decreto sulla flessibilità
provocherà una potente spinta
verso la stipula di contratti a tempo indeterminato,
che è come sostenere che
luglio sia il mese più freddo dell’anno”.
E in effetti quest’estate, a luglio,
non è che facesse proprio caldissimo.
Claudio Cerasa
03/11/07

giovedì 1 novembre 2007

Il Foglio. "Il nuovo Bill Gates odia Bush"

Il nuovo Bill Gates si chiama Eric Schmidt, ha cinquant'anni (come Gates), è uno degli uomini più ricchi del mondo (un po' meno di Gates), è il capo di Google, capo di Apple, democratico, amico di Al Gore, amico di John Kerry, amico di Bill e Hillary Clinton e le prossime elezioni potrebbe deciderle lui.
Era il settembre del 2000 quando sul muro dell'ufficio al numero 1.600 di Amphitheatre Parkway, nella città di Mountain View (California), Sergei Brin e Larry Page, i due fondatori del motore di ricerca più importante del mondo (Google), iniziano a proiettare la biografia di Eric Schmidt. "This is your biography", gli dicono. Le luci erano spente, il proiettore accesso, Larry e Sergei erano seduti ai due lati del tavolo di cristallo e stavano cercando la terza persona per la direzione di Google. Avevano scelto Eric, ma lui ancora non lo sapeva. Il colloquio dura un paio d'ore, i due ragazzi (allora ventiseienni) passano tutto il tempo a criticare, provocatoriamente, le precedenti scelte fatte da Schmidt, nella sua vecchia azienda: la Novell. Eric capisce il gioco: resiste, parla, incassa e sorride. Poi esce dalla sala e ci pensa un attimo. La sua biografia, Eric, non l'aveva mai data a nessuno. Brin e Page l'avevano costruita da soli. L'avevano
trovata su Google.

Sei mesi dopo, Schmidt diventa capo di Google; assieme a Page e Brin. La direzione
di Google è un triumvirato, ogni tipo di decisione viene presa con una maggioranza di almeno due terzi. Arriva Schmidt, ma arrivano anche le prime malizie. Schmidt ha quasi la stessa età di quella che i due fondatori di Google hanno sommando le proprie. E c'era, quindi, qualcuno che vedeva il suo arrivo a Google soltanto come un tentativo per fortificare l'immagine della giovane azienda, appena quotata in Borsa. Ma le cose non stanno così. Google è entrata in Borsa e Schmidt l'ha fatta decollare. E non solo con la sua faccia. Nel 2001, subito dopo aver accettato l'incarico, i suoi ex colleghi dicono a Eric: "Ma scusa. Dove vai? Non lo sai che Internet è finito?".
L'undici settembre era passato da poco. Ma a giugno, Schmidt aveva già annunciato il suo primo trimestre positivo. Da quel giorno in poi, Google, di trimestri negativi non ne ha avuto neppure uno. E per questo Schmidt ora ha anche iniziato a comprare. Lo ha fatto pochi giorni fa, quando per acquistare You Tube ha speso 1,6 miliardi di dollari. Ma lo ha fatto anche qualche mese prima, comprando un grande ingegnere. Si chiama Kai-Fu Lee, era uno dei migliori talenti di Microsoft. Schmidt lo acquistò. Bill Gates e il suo manager più rappresentativo, Steve Ballmer, non la presero bene. Secondo una ricostruzione affidabile, Ballmer accolse la scelta di Kai-Fu Lee in questo modo: "Bastardo. Non dirmi che è lui. Non dirmi che è Schmidt. Oh, cazzo. Certo che è lui. Quel fottuto bastardo. Lo faccio a pezzi, lo faccio a pezzi. Cazzo. Lo faccio a pezzi". Ballmer, ovviamente,non conferma la ricostruzione. Il succo, però, resta quello.

L'ultimo acquisto di Google, You Tube, è stato il colpo più importante fatto da Google in tutta la sua storia. Ma anche il più costoso. You Tube è il più importante contenitore di video on line. Funziona così: chi vuole fa un video, lo scarica sul computer, lo invia a You Tube e You Tube lo mette in rete. Semplice. Google aveva già provato a lanciare un suo servizio di produzione e distribuzione video ed era diventata la terza azienda sulla rete anche in questo settore. Aveva il dieci per cento. Lo stesso aveva fatto Bill Gates, con Microsoft, e Rupert Murdoch (attraverso My Space). Ma a Schmidt non bastava. You Tube in 19 mesi aveva raggiunto risultati incredibili: 100 milioni di visite al giorno, il 45 per cento del traffico di video complessivo. E ora, subito dopo essere stata acquistata da Google, You Yube ha firmato un accordo per la diffusione e la vendita di musica con Universal e Bmg (che sono due tra le più importanti case discografiche del mondo). Con questo nuovo business, per i prossimi anni, sono previsti 400 milioni di dollari di fatturato, che finiranno proprio nelle tasche di Google.

Per capire il tipo di impatto che You Tube ha negli Stati Uniti è sufficiente riportare un esempio. Il testimonial per la prossima campagna delle Nazioni Unite si chiama Lee Rose. E' un'attrice neozelandese diventata famosa in tutto il mondo con un video in cui faceva finta di essere rinchiusa in casa, seduta sul suo letto davanti a una webcam. Con la webcam, Lee Rose registrava dei filmati in cui faceva finta di raccontare la sua vita. I video venivano messi su You Tube. Pochi giorni fa si scopre che Lee Rose era, appunto, un'attrice e che aveva utilizzato You Tube soltanto per promuovere un nuovo format per un programma televisivo. Ma su You Tube ormai milioni di utenti l'avevano già vista. Tra questi anche qualcuno dell'Onu.

La scelta di acquistare You Tube rientra in una doppia strategia. Eric Schmidt non fa proprio nulla per nascondere il suo interesse per la televisione. Quindi, anche per il video. Perché se è vero che il futuro di Google è nella tv, il futuro della televisione sarà certamente su Internet, non sulla vecchia tv. Ed è per questo che il re della tv, Murdoch, ha investito sulla rete (con My Space). E' per questo che Google prima ha firmato un contratto con la nuova televisione realizzata dall'ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore (la Current tv) e poi ha acquistato anche You Tube. Ed è per la stessa ragione che anche Apple, ora, punta sulla tv. Grazie a Steve Jobs (amministratore delegato di Apple), ma soprattutto grazie ancora a Eric Schmidt, che dallo scorso 28 settembre è entrato a far parte del consiglio di amministrazione di Apple; dove ha trovato, come membro del comitato direttivo, proprio Al Gore (consulente, tra l'altro, anche di Google). Da quando Schmidt è arrivato, Apple ha iniziato a puntare proprio sulla televisione on line (la iTv). Con un suo nuovo programma presentato la prima settimana di settembre, Apple dovrebbe
iniziare a distribuire video e musica e vendere film su un piccolo dispositivo
portatile.

Ma Eric Schmidt non è soltanto un grande manager. Schmidt, a differenza di Bill Gates, è anche un'incredibile pedina nella politica americana. Per due ragioni. Primo: per le amicizie con i politici (democratici) americani e per il controllo delle notizie che Schmidt esercita con la rete. Con Google (attraverso un programma che si chiama Google News in grado di selezionare in tempo reale le notizie considerate più importanti e più attuali) e ora anche con You Tube. Nel 2004, con Google, Schmidt aveva versato il 98 per cento dei finanziamenti elettorali (circa 200 mila dollari)ai compagni democratici, raggiungendo il massimo delle donazioni possibili sia per John Kerry sia per Howard Dean. Quattro anni prima, insieme a sua moglie – anche lei grande finanziatrice dei democratici – aveva organizzato una delle
più importanti serate di raccolta fondi per Al Gore. Proprio nella casa dei coniugi Schmidt. Raccolsero diecimila dollari a persona, era il 2000. Ora Google è una delle cinque aziende che sono finanziate dal "Blue fund", un fondo azionario che investe soltanto ed esclusivamente in aziende i cui manager siano grandi finanziatori dei "Blues", dei democratici americani. Quindi Google, Starbucks, Gab, Costco e naturalmente anche Apple.


Ma la politica di Schmidt non si articola solo con i finanziamenti. Google fa politica anche con Google. E con la censura. Nel giro di pochi mesi tra le pagine
di Google sono stati cancellati alcuni siti conservatori (come New Media Journal,
Mich News, PHX News, Jawa Report), sono stati censurati molti blog antislamici, sono stati rifiutati annunci a pagamento per la sponsorizzazione di libri o saggi anti Clinton e non sono state accettate inserzioni (a pagamento, anche queste) di un sito conservatore (Right-March.com), critico nei confronti della democratica californiana Nancy Pelosi. Non solo. Schmidt ha recentemente versato un milione di dollari per finanziare il sito di estrema sinistra MoveOn.org.
Ed è anche per questo che Amnesty International ha già accusato Google di "complicità con le nazioni che vogliono impedire ai propri cittadini l'accesso alle informazioni on line". La ragione è molto semplice. Google gioca con due
parole inglesi con cui sta cercando sempre più di controllare cosa sia giusto far
apparire sulla rete e cosa invece no: gioca con le "hate speech". Hate speech significa discorsi di odio, parole non giuste, forme di espressione sbagliate che
da sole possono giustificare l'eliminazione delle pagine (e dei siti sgraditi) da
Google. Se una notizia o una pagina non si trova significa che non esiste. Ma l'oggettività degli hate speech, in realtà, non c'è. E' un'oggettività analizzata con una lente di ingrandimento che ha la forma della D dei democratici.

Schmidt, essendo anche il più anziano del triumvirato di Google, gioca molto con l'equivoco della soggettività oggettiva. Poche settimane fa, siamo ai primi di ottobre, Schmidt è stato ospite della convention dei conservatori inglesi.
Era a Londra, ha incontrato anche Tony Blair. Schmidt diceva così: "Uno dei miei messaggi ai politici è di pensare di avere ognuno dei propri elettori costantemente on line, che avviano un controllo vero o falso. Noi a Google potremmo essere in grado di offrire un'opportunità per averla a portata di mano". Tradotto: Internet è uno strumento pervasivo, passivo; ci sono tante informazioni, ce ne sono tante sbagliate e tante non giuste. La società cambia, noi cambiamo assieme alla società. Voi non potete seguirci a questi ritmi e quindi, tranquilli, ci pensiamo noi. Ve le diamo noi le informazioni giuste.

Ma la verità di Google è una verità viziata. Chi si collega sa (o almeno inconsciamente pensa) che Internet è democratico e quindi crede che ciò che si trova
su Google non abbia filtri. Non è così. E lo stesso discorso vale per You Tube, che da alcuni mesi ha iniziato a calibrare la sua censura su alcune precise tipologie di video politici. L'episodio più grave arriva il 4 ottobre. La giornalista onservatrice
Michelle Malkin aveva girato un video chiamato: "First, they came" ispirato ai cartoni animati su Maometto. Lo mette su You Tube. Nel video la giornalista mostra anche alcune vittime del fondamentalismo islamico. Alle 2.27 del 28 ottobre, la Malkin riceve una e-mail. E' il servizio di You tube. Il video è stato bloccato, a causa "contenuti inappropriati", come si legge nel testo della email ricevuta dalla giornalista.
La stessa cosa succede con un altro video ("It is in the Koran"), mentre un altro
caso di censura politica è stato registrato su un filmato (del regista David
Zucker) che prendeva in giro Bill Clinton per il modo in cui l'ex presidente degli
Stati Uniti non fece granché per fermare l'armamento atomico nordcoreano.
L'ultimo caso di censura è, però, del giorno successivo all'acquisto di Google.
E' il 12 ottobre. Su You Tube viene messo un video in cui Harry Reid, democratico del Nevada, prendeva per il collo un reporter dell'Associated Press. Il video, anche questo, è stato censurato.

Ma per capire cosa è davvero l'influenza di Internet (e di Google) nella diffusione delle informazioni, è sufficiente dare un'occhiata a qualche dato: Internet, soprattutto per gli under 26, negli Stati Uniti è la seconda via d'accesso a ogni tipo di news. Rispetto alle ultime elezioni di mid-term (quelle del 2002), gli americani che oggi si informano quotidianamente su Internet sono diventati 26 milioni. Il doppio rispetto a quattro anni fa. Cioè, quasi un quinto di
tutti gli americani che si collegano ogni giorno sulla rete. La metà di queste ricerche viene fatta su Google. Le grandi aziende se ne sono accorte. Internet stavolta non è più una bolla. Tira, ma non si sgonfia. Il risultato è che dei 283 miliardi di dollari investiti in pubblicità ogni anno, 29 miliardi finiscono su Internet e quasi 300 milioni arrivano nelle tasche di Eric Schmidt.

Il dipendente numero uno di Google si chiamava Craig Silverstein. Nel 1999 (sono passati soltanto sette anni), subito dopo la creazione del più importante motore di ricerca del mondo, diceva così: "Vorrei vedere i motori di ricerca diventare come i computer di Star Trek. Tu parli con loro e loro capiscono quello che vuoi".

Tutte le manovre realizzate da Schmidt sono in linea sia con queste parole sia con quelle di un documentario (da molti considerato profetico) girato da Robin Sloan e Matt Thompson qualche mese fa. Il documentario si chiama Epic e spiega in che modo, nel giro di otto anni, i giornali e le televisioni verranno sostituiti da una struttura informativa dal nome "Googlezon", frutto di un'ipotetica fusione tra Google e il più importante sito di vendite on line di libri: Amazon.
Google – spiegano i due studiosi – in questo modo sarà insieme giornale, televisione
e anche editore. Scoprirà quali sono gli interessi e le abitudini di consumo dei suoi utenti semplicemente grazie alle informazioni personali disseminate sulla rete. Studiando le biografie dei consumatori, esattamente come Page e Brin hanno studiato, cinque anni fa, la biografia di Schmidt, senza che nessuno gliel'avesse mai fornita direttamente.

Ma il successo di Eric Schmidt (attualmente centoventinovesimo uomo più ricco del mondo) è stato anche il primo vero successo in ambito informatico di una delle università più importanti degli Stati Uniti, Berkeley. Schmidt si è laureato qui, ma la maggior parte degli ingegneri delle più importanti aziende informatiche americane
si è laureata a Stanford. Ed è per questo che uno studente laureato a Stanford spesso arriva a ricoprire incarichi molto più importanti rispetto ai laureati di Berkeley. Almeno per quanto riguarda l'ambito informatico. Fino a sei anni fa tra le aule delle due università girava questa battuta: se un alunno di Berkeley si rivolge a un collega di Stanford non lo chiama "collega", lo chiama "capo". Ora, però, uno
dei capi più importanti del mondo è a Google e si chiama Eric Schmidt. A Berkeley non gli pare vero. E proprio per questo sta provando a far di tutto per valorizzare l'azienda in mano al primo studente di Berkeley che non deve chiamare capo uno studente di Stanford. E infatti, pochi giorni fa, per la prima volta un'importante università americana ha deciso di mettere in rete i contenuti video delle proprie lezioni su Google: Berkeley, naturalmente.

Ma c'è un altro dato da segnalare. Google sta collezionando una quantità incredibile di dati e di informazioni personali. Nei primi mesi del 2006 Schmidt ha fatto spendere alla sua azienda 345 milioni di dollari per ampliare proprio la capacità di archiviare informazioni. Schmidt lo aveva detto circa un anno fa: "Non sappiamo più dove mettere i dati". Perché tutti questi dati? La risposta è semplice: basti pensare, più che a quello che si può fare con Google, a quello che con Google non si può fare. Praticamente nulla. Mancavano i video e li hanno comprati. Mancava il mercato di vendita di prodotti on line e Schmidt si è accordato con eBay.

E proprio con eBay e quindi con Skype (che fa parte di eBay), Schmidt punta a conquistare un altro settore. Skype è il più importante servizio di telefonia
on line (il Voip). Con Skype, Schmidt potrebbe portare avanti un progetto incredibile. Partendo da San Francisco, Google, è arrivata a ricoprire Philadelphia e Chicago con una rete metropolitana di wi-fi molto lunga. Il wi-fi è un tipo di connessione che permette ai computer di collegarsi a Internet senza fili. Il progetto Schmidt lo ha portato avanti assieme a uno dei più importanti fornitori di collegamenti Internet americani, Earthlink. Google e Skype ci hanno già investito 21,7 milioni di dollari. L'obiettivo è creare un milione di punti di accesso wi-fi entro il 2010. In tutto il mondo. Questo che cosa significa? Significa che tra pochi anni potremmo avere un computer-iPod con funzioni da telefonino (costruito da Apple) che riceve le trasmissioni fatte su You Tube, che si collega alla rete attraverso una connessione fornita da Google, che per chiamare utilizza la tecnologia della telefonia del Voip (quindi di Skype) e che riceve notizie in tempo reale con il servizio di news del più grande motore di ricerca al mondo: Google. Notizie filtrate, censurate e spesso anche deviate. Come? Basta un ultimo esempio. Provate a scrivere su Google la parola "failure", fallimento. Primo risultato? Il sito della
Casa Bianca, con George W. Bush. Secondo esempio. Provate a scrivere (con la modalità di "mi sento fortunato"), la parola "fallimento" in italiano. E poi la
parola "basso di statura". Sempre su Google. Il risultato è lo stesso: il sito del presidente del Consiglio italiano, fino a sei mesi fa di proprietà di Silvio Berlusconi ma che ora, purtroppo per Google, è diventato proprio quello di Romano Prodi.
Claudio Cerasa
30/10/06