sabato 30 giugno 2007

Lo sport sistem di W.

Il Foglio. "Lo sport system di W."

Così Walter Veltroni ha creato la sua rete di consenso ginnico, senza barche a vela,
senza pedalate bolognesi, senza scudetti. E senza rispondere a quella domanda

Ciuf. Prende palla, Walter. Si allarga sulla lunetta, sorride ai fotografi, piega le gambe, si guarda a destra e poi si guarda a sinistra, avvicina le mani e le tiene separate così, circa di un palmo, forse due, si guarda ancora attorno, piega ancora un po’ le gambe, porta le mani all’altezza del naso, guarda i fotografi, i fotografi sono pronti, accanto a lui ci sono un po’ tutti, c’è Garri, c’è Tonolli, c’è tutta la formidabile squadra della Virtus Roma e c’è soprattutto il presidente, Claudio Toti. Prende palla, Walter e poi via. Ciuf, canestro e ottimo tiro, sindaco Veltroni. E’ il 25 novembre del 2004, siamo a via San Gregorio al Celio, Roma, centro storico, di là il circo Massimo, a destra il Colosseo, a sinistra le Terme di Caracalla, quelle del cocktail party della Festa dell’Unità, quelle che quest’anno Veltroni visiterà per la prima volta da candidato segretario del Partito democratico, quelle dove, giusto un paio di anni fa, Veltroni avrebbe voluto portare il basket Nba e quelle accanto alle quali, pochi anni fa, Veltroni si ritrovò insieme alla squadra di basket della capitale, la sua squadra di basket, per inaugurare un campetto con due canestri, una piccola tribuna, un po’ di gesso giù per terra. Non un campo da pallacanestro, ma un playground, come lo chiama lui. Dovevano essere cento campi, un po’ qua e un po’ là, un po’ in centro, un po’ in periferia, un po’ di sport per tutti, a destra e a sinistra. Qualche campo, poi, a Roma arrivò davvero, ma fu quel giorno che il sindaco firmò uno dei più significativi accordi, simbolici si capisce, con una delle famiglie – quella dei Toti – che da lì a pochi mesi sarebbe diventata la squadra di riferimento dell’universo veltroniano a cavallo tra politica, economia e finanza: forse il più concreto tra i commoventi universi di Walter Veltroni. E andando a rileggere un paio di paginette scritte da W. qualche settimana fa, quelle scritte nel libro di Marco Meacci, proprio sul Pd, dove Veltroni dice: “Se c’è una parola che dovrà animare il processo che condurrà alla nascita del Pd e che poi dovrà anche guidare il cammino, il modo di funzionare e compiere le sue scelte politiche fondamentali, questa parola è sintesi”, andando a rileggere quelle pagine, chissà che la miglior sintesi tra taccuini, emozioni, canestri, politica, economia e finanza non sia tutta in quella parolina lì: lo sport, ovviamente.
Parliamo del basket, parliamo della Virtus e parliamo – ma non solo di questo – di Claudio, Pierluigi e Stefano Toti, una delle famiglie che negli ultimi anni è diventata il collante tra il mondo del Campidoglio e il mondo playground di Roma, nel senso del basket, nel senso del calcio, nel senso della pallavolo, nel senso del nuoto e nel senso del canottaggio. Perché Veltroni ha costruito la sua rete di consenso, di fascino e di seduzione, così, proprio con lo sport. L’aveva fatto già da direttore dell’Unità, con le famose figurine panini, e ha continuato a farlo nel suo settennato romano, insieme con i grandi nomi che a Roma, via via, tra feste del cinema, tra notti bianche al buio e tra tartine con Francesco o aperitivi con Ilary, si sono intrecciati con il mondo dello sport: tra palazzetti, mozzarelle in Campidoglio, colazioni con Paolo Di Canio, cerimonie con Totti e poi, ancora, comitati promotori, cene all’Auditorium, consigli d’amministrazione, Trigoria, Formello e circoli Canottieri. Perché è pur vero che, da quando Walter Veltroni è sindaco, a Roma nessuno hai mai vinto nulla (a parte qualche coppetta), è pur vero che negli anni di Francesco Rutelli a Roma uno scudetto non lo si negava a nessuno. E’ pur vero che in quell’anno, per dire, vinse il campionato la Roma, poco prima lo vinse la Lazio, e vinsero tutte le selezioni giovanili giallorosse, vinse la pallavolo, vinse il rugby, vinse l’hockey e avrebbe vinto pure la pesca subacquea, il tiro al piattello o il ping pong, se solo avessero avuto un campionato tutto loro; ma del rapporto di Francesco Rutelli con lo sport romano e con quegli incredibili intrecci politico finanziari che gli girano un po’ intorno, è rimasto davvero poco poco. Ecco, con Walter Veltroni le cose sono andate in maniera un po’ diversa. Perché da quando a Roma c’è Veltroni e da quando Veltroni è entrato un po’ a gamba tesa nella vita sportiva della città, cioè da quando Veltroni è diventato, con una modifica statutaria ad hoc, presidente onorario della Lega Basket e da quando, a Roma, gli allenatori della Roma o della Lazio, oltre che a essere allenatori di Roma e Lazio, è preferibile che siano anche allenatori “non sgraditi al sindaco”, da quando Veltroni ha scoperto come inserire nella sua bella politica una palla in rete o un canestro a Caracalla, il funambolismo politico di cui parla Andrea Romano in “Compagni di scuola” e quel “blocco di solidità imbarazzante” che Massimo D’Alema riconosce a Veltroni, da quando a Roma mister doppiaviù è diventato amministratore unico dello sport, i risultati sono davvero interessanti, quasi commoventi. Perché c’è chi ha una squadra di calcio tutta sua, c’è chi sulla propria mensolina ha un paio di coppe dei Campioni, c’è chi suggerisce su fogliettini gialli quale sia il miglior tridente da schierare, c’è chi scende in campo e si ritrova una Milanello, c’è chi si fa fotografare con una coppa con le orecchie grande grande accanto all’ateniese scritta “winner”, e c’è invece chi ha una città ma non ha una squadra, chi prova, con difficoltà, a sintetizzare la sua leadership nel basket, nel calcio, nell’hockey, nel nuoto e nel canottaggio e chi tenta di far sua una città intera con una mazza, un canestro, una palla da basket; naturalmente senza scontentare e senza offendere nessuno (neanche chi porta in giro per Roma la sua Ikarus, come è successo la scorsa settimana a Castel Sant’Angelo), senza aver bisogno di occuparsi di sport dicendo che, tranquilli, “ho chiesto il permesso a Prodi” e senza aver bisogno di un bicicletta bolognese per scambiarsi bigliettini con Casini.
Perché, magari in pochi lo ricordano, ma il Veltroni già segretario dei Ds, già vicepremier di Romano Prodi, già numero uno della Fgci (a quei tempi, ai tempi di quelle giovanili del Pci che, proprio perché in quota Walter, qualcuno ancora oggi chiama “Figc”, cioè federazione italiana giuoco calcio, a quei tempi, con la Fgci, dalle parti di Albano Laziale, Walter giocava a centrocampo insieme con D’Alema e contro il gruppo, cileno e un po’ imbranato, degli Inti Illimani), Veltroni, magari in pochi lo ricordano, è anche lo stesso Veltroni che ai tempi del primo governo Prodi, quando ancora raccontava quanto sentisse dentro di sé l’importanza di essere un vero super straordinario juventino, oltre alla delega ai Beni culturali, aveva anche un’altra delega: quella allo sport, naturalmente. E anche se con risultati non proprio esaltanti, non è certo un caso che la stessa delega attualmente sia in mano a una ministra più o meno veltroniana, Giovanna Melandri: una di quelle che, giusto un anno fa, di questi tempi, avrebbe voluto cacciare quel mascalzone di Marcello Lippi, ovvero l’allenatore campione del Mondo in carica, festeggiato, omaggiato e accompagnato lo scorso 10 luglio per le strade di Roma indovinate da chi?
Ma nella rappresentazione da grande statista dello sport quale un po’ Walter Veltroni è diventato, anche se W. è uno dei politici italiani che, almeno fisicamente, più si allontana da qualsiasi tipo di raffigurazione ginnica (in pantaloncini, grazie al cielo, Veltroni non lo si ricorda e se proprio ci si vuol fare un po’ di violenza e lo si vuole immaginare scattante a Villa Ada, più che con la maglietta del New York Police Department, lo si potrebbe immaginare con una magliettina grigia con un cuore rosso e la faccia di Winnie the Pooh), detto questo, Veltroni è certamente l’unico politico di centrosinistra che potrebbe provare a competere con il Cav. in questo settore, l’unico che potrebbe permettersi di accarezzare il suo elettorato nelle tv locali romane (storica fu una sua apparizione da statista, senza cravatta, nella famosissima Signora in Giallorosso, provate a immaginare, chessò, Romano Prodi a quelli che il Calcio, Bersani alla Domenica Sportiva, o Fassino intervistato da un www.lazialità.it), ed è l’unico, Walter, che non ha bisogno di tratteggiare attorno a sé l’immagine da sportivo consumato a bordo di un veliero o in sella a una bicicletta. Anche perché Veltroni sa perfettamente che da quando, politicamente parlando, il maggior esponente della pedalata in montagna è diventato Romano Prodi, non c’è più nessuno tra Palazzo Chigi e Montecitorio che ha il coraggio di farsi fotografare seduto sopra a un sellino; cosa che invece farebbero volentieri Francesco Rutelli, Enrico Letta e, sorpresa, anche Dario Franceschini, che – poco prima che Prodi diventasse il politico di riferimento della scampagnata biciclettara e romagnala – lui, che da ferrarese sa che a Ferrara, in Comune, oltre alle auto blu ci sono anche le bici blu, da quel giorno, da quelle prime foto prodiane in bicicletta, ecco, da quel giorno Dario non si fa più beccare.
L’immagine un po’ da diplomatico della palla Veltroni l’ha costruita anche così. L’ha costruita anche se, da vicepremier, diceva che la politica deve rimanere fuori dallo sport e l’ha costruita dopo che, grazie alla sua delega allo sport, Veltroni aveva trasformato (con una legge) le società di calcio in società di lucro, e l’ha costruita nello spogliatoio del palazzetto dello sport, al primo piano del circolo canottieri Aniene o nella sala delle Bandiere del Campidoglio, dove Veltroni è diventato famoso per assistere davvero a qualsiasi tipo di presentazione di quei meravigliosi tornei condominiali di tiro al piattello. Ma soprattutto, Walter, l’ha costruita sul balcone del suo colle preferito, quello che dà sui fori imperiali, quello da cui, quando si affaccia, fa finta di essere sorpreso da tutte quelle macchinette fotografiche che proprio lui non si aspettava davvero, quello da cui si è affacciato con l’amico George, con l’amico Silvio, con l’amico Gabriele, con l’amico Roberto, con l’amico Leonardo, con l’amico Robert, con l’amico Kofi e con l’amico Bill. Quel balcone dove Veltroni, ma lui proprio non se l’aspettava, si è fatto fotografare assieme ai due allenatori di Roma e Lazio, Luciano Spalletti e Delio Rossi, assieme a Claudio Toti, assieme a Francesco Totti, Roberto Mancini e Angelo Peruzzi. Ed è qui, su questo balcone, che Veltroni ha cercato di convincere chi lo ascoltava, che Roma è davvero la capitale di ogni sport, che Roma è la capitale delle corse dei cavalli, del nuoto pinnato, delle bocce, del baseball, magari del kurling e certamente anche del nascondino. E’ qui che Veltroni ha messo nero su bianco i suoi “comitati promotori”, le cui nomine – davvero bipartisan – raccontano meglio di ogni libro o di ogni ritratto del povero Filippo Cecarelli (che di questo passo, con un ritratto al giorno, sarà costretto a dimostrare che Veltroni fa politica anche con le gare di dorso delle pantegane giù nel Tevere), come, quando e perché, il sindaco d’Italia ha tirato fuori dal suo mazzo a doppiavù le carte più importanti del suo universo democratico. E lo ha fatto, Veltroni, o almeno, ci ha provato, con le Olimpiadi, lo ha fatto con i Mondiali di nuoto, continuerà a farlo con il canottaggio e lo farà ancora per qualche anno con la pallavolo. E allo stesso modo di come, per dirne una, nel consiglio di amministrazione dell’auditorium si trovano, tutti insieme, Luigi Abete, Cesare Romiti, Francesco Gaetano Caltagirone, Gianni Letta, Innocenzo Cipolletta, Andrea Mondello e Giovanni Malagò, così, nel comitato organizzatore dei mondiali di Nuoto 2009 si trova, ancora, Giovanni Malagò, Alessandro Benetton, Luca Cordero di Montezemolo, Andrea Mondello (presidente della camera di commercio romana), Paolo Barelli (Forza Italia) e Paolo Cuccia (già vicepresidente di Capitalia). E lo stesso vale per il comitato per i Mondiali di pallavolo, quelli del 2010, dove Veltroni ha messo insieme Carlo Salvatori (ex presidente Unicredit ed ex numero due di Mediobanca e attuale amministratore delegato di Unipol), Gilberto Benetton (che insieme con Gemina ha recentemente comprato la società a cui fa capo Aeroporti di Roma), Massimo Moratti, Gianni Letta e Marco Staderini (uno dei due consiglieri di centrodestra della Rai). E lo stesso Veltroni ha provato a piazzare il suo grande colpo, o la sua bomba da tre come dice lui, quando, pochi mesi fa, ha chiesto a Gianni Letta di presiedere un altro comitato, quello per le Olimpiadi del 2016 (anche se poi Letta ha rifiutato l’invito). E’ così che Veltroni ha creato la sua rete sotterranea, ed è una rete di potere che ha dato buone soddisfazioni a chi, negli anni veltroniani, ha visto crescere il proprio impero (i Toti, proprio in questi anni, hanno costruito con il gruppo Lamaro nella zona della Fiera di Roma, dell’ex galleria Colonna e del centro commerciale più grande d’Europa, quello di Roma est).
E proprio con questa rete di potere, Veltroni ha iniziato a mettere in fila uno per uno tutti quelli che un tempo si chiamavano palazzinari, quelli che ora, grazie a Walter, sono rinati come immobiliaristi, e quelli che Massimo D’Alema chiamava con quelle due paroline un po’ cacofoniche, new and comer: due paroline che Veltroni non avrebbe mai utilizzato. Piuttosto, Walter, li avrebbe chiamati nouvelle constructeur. E proprio grazie a questa formidabile rete che si arrampica un po’ tra le banche, i palazzi, lo sport e le bandiere, che Walter è riuscito nell’impresa, davvero notevole, di essere tifoso di Lazio, Roma, Juve, Lodigiani, Virtus, Lamaro ed è diventato così rispettato che, per dire, se dovesse diventare sindaco di Bergamo, non avrebbe alcun problema nel dimostrare di essere tifosissimo della Juventus proprio per la sua fede giallorossa e biancazzurra, grazie alla quale non potrebbe far altro che essere primo tifoso di Atalanta e Albinoleffe. E’ grazie a questo intreccio che Walter ha provato a conquistare Gianni Letta (e tra l’altro, se vogliamo dirla tutta, non risulta agli atti che Veltroni non sia milanista), ed è qui che Veltroni ha iniziato a riservare un paio di tesserine con i numeri immediatamente successvi alla tessera numero uno rispolverata in questi giorni tra i cassetti di Largo Fochetti. Ma è anche in questa rete che, anche un po’ per colpa di Walter, si sono scatenate delle piccole guerre di gelosia cittadina. Per esempio, la storia è recente, con Caltagirone, non proprio eccitato dal fatto che i Toti vincano gli appalti più importanti. Per esempio, e la storia è meno nota, tra il potentissimo Mezzaroma e gli stessi Toti, dato che Mezzaroma, padrone della squadra di Volley della capitale, ogni fine settimana è costretto a far giocare il suo team in un palazzetto dello sport che costa, ogni domenica, 8.000 euro di affitto e che il buon Mezzaroma è costretto a pagare sul conto corrente di chi ha in gestione quel palazzeto: naturalmente la famiglia Toti (famiglia sempre più forte, e non solo in Italia. Negli ultimi mesi i Toti hanno preso gran parte del controllo di Gemina, sono entrati in Rcs con il cinque per cento, in Capitalia con il due per cento anche se, dopo l’addio di Matteo Arpe, i rapporti con Cesare Geronzi sono ancora da irrobustire). E in tutte le redazioni sportive romane, dove una fotonotizia al sindaco con faccione e canotta da basket con “Veltroni numero uno” non la si nega mai, sono ricordati con tenerezza tutti gli interventi fatti da Veltroni per salutare l’esordio di Aleandro Rosi, per far sapere di essere vicino al primo gol di Okaka Chuka, per manifestare la sua gioia per la prima rete del Bracciano pallanuoto e per complimentarsi del primo tocco di Bodiroga (nella sede del Romanista, fino a qualche settimana fa, le agenzie di auguri veltroniani erano una sorta di romanzo a puntate appeso sui muri. Poi, clamorosamente, qualcuno, democraticamente di notte le ha buttate tutte quante).
Ma in tutto questo, la macchina da battaglia veltroniana non ha nulla a che vedere con l’indiavolata aggressività vincente del Cavaliere. Veltroni non sarebbe mai in grado di vincere tifando solo per una squadra o avendo in mano solo una squadra o solo una barca a vela. Ma in un certo senso fa comunque impressione, l’impero di W. E non è tutta mitologia. Te ne accorgi, dell’impero – anche mediatico, evidentemente – quando scopri che dopo il famoso saluto romano di Paolo Di Canio, quel giorno Veltroni fu uno dei pochi a condannare, ancor prima del gesto, i petardi tra le curve; te ne accorgi quando scopri che Di Canio, sempre lui, pochi giorni dopo il saluto romano, fu invitato al Campidoglio per incontrare i reduci da Auschwitz; te ne accorgi dalle interviste che Veltroni rilascia al matrimonio dell’amico Totti, dalla festa per il compagno Peruzzi, dalle vie che il sindaco d’Italia ha dedicato agli sportivi di cuore romano: da Agostino Di Bartolomei (ex capitano della Roma), a Luciano Re Cecconi (l’angelo biondo della Lazio), fino a Davide Ancilotto (grande giocatore della Virtus); te ne accorgi dalle incredibili cronache dello scorso marzo da Los Angeles, dove il sindaco di Roma fu protagonista di un memorabile tour tra i campi da basket al di là e al di qua di Las Vegas, quando W. – seguito da una democratica quanto invidiatissima cerchia di giornalisti romani d’assalto – fu raccontato in una serie di indimenticabili cronache, da cui Veltroni ne uscì fuori con un profilo a metà tra Giulio Cesare, Micheal Jordan e Oronzo Canà. Te ne accorgi, della rete di W, quando sui campi dove Veltroni ha conquistato il consenso senza scendere in campo ma soprattutto senza tifare nessuno, in quegli stessi campi che d’estate si svuotano di palloni, canestri e reticelle, quegli stessi stadi si riempiono di gente come Bono, che ringrazia Walter, e di gente come Madonna che viene a Roma also for Uolter. Perché, è vero, Veltroni negli ultimi tempi sta un po’ pasticciando, ha portato avanti un progetto di polisportiva che doveva essere romanista e che diventerà invece romana, una polisportiva molto confusa che non sta bene quasi a nessuno, che Walter vorrebbe fare, che probabilmente non farà e che a Gianni Rivera, ex golden boy milanista e delegato del sindaco per lo sport, ricorda un’altra polisportiva, molto famosa, che voleva mettere dentro un po’ tutto, calcio, hockey e rugby: ricorda la Mediolanum sport degli anni Ottanta di Silvio Berlusconi, una polisportiva da cui il Cav. è partito, e da cui piacerebbe ripartire pure W. Anche se, tra palazzetti, canoe, canestri, comitati, circoli e mozzarelline, per un sindaco che ha fatto politica doppiando in un cartone animato un simpatico pollastrello sindaco di Chicken Little, uno come lui, se davvero vuole essere il primo segretario del primo partito unico di centrosinistra in Italia, potrebbe, o meglio, dovrebbe provare a rispondere a una domanda facile facile: sindaco Veltroni, ma lei di che diavolo di squadra è?
Claudio Cerasa
30/06/07

martedì 26 giugno 2007

Il Foglio. Capezzone ci spiega la law e l’order del suo network liberale

Il 4 luglio l’ex segretario radicale presenta il movimento “un po’ Google e un po’ Thompson”. Tra rotture e suture riformiste

Roma. Il movimento, o meglio, il network che Daniele Capezzone ha in mente ormai da parecchie settimane (lo stesso anticipato quasi un mese fa dal Foglio), sarà presentato dall’ex segretario radicale nello stesso giorno in cui in America si festeggia l’Independence Day, nello stesso giorno in cui in Italia cominceranno le celebrazioni per il bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, nello stesso giorno in cui negli Stati Uniti il repubblicano Fred Thompson comunicherà ufficialmente la sua candidatura alla Casa Bianca ed esattamente una settimana dopo il discorso democratico che Walter Veltroni (“A cui faccio gli auguri”, dice Capezzone) terrà al Lingotto di Torino, domani. La rete capezzoniana – che avrà un suo simbolo, un suo colore, una sua segreteria e un bel po’ di iscritti – sarà presentata il prossimo 4 luglio (o a Roma o più probabilmente a Milano), nascerà in un momento in cui l’ex segretario radicale sembra essere piuttosto vicino alle idee di Luca Cordero di Montezemolo, crescerà in una fase politica, come dice Capezzone, in cui “non ha senso avere velleità terzopoliste” e prenderà forma (il rodaggio dovrebbe durare un annetto) cercando di ispirarsi a tutto ciò che di buono si può ritrovare in Sarkozy, in tutto quel che di “fantastico” ha fatto Tony Blair, all’esperienza “rivoluzionaria” di Anders Borg, il ministro delle Finanze svedese di 36 anni, alla politica “un po’ trascurata” di Aznar e al modello del ticket repubblicano di Rudolph Giuliani e di Fred Thompson (l’attore della serie televisiva Law & Order), che il presidente della commissione Attività produttive della Camera confessa di seguire con attenzione. Sulla composizione della sua rete e sulle dieci riforme a cui punta il suo network (“meglio ancora, direi un aggregatore, una specie di grande Google politico”) l’ex segretario radicale preferisce fare ancora un po’ il misterioso, anche se, tra le righe, citando al passato prossimo la parentesi “Volenterosi” (“E’ stata un’esperienza davvero straordinaria”) Capezzone spiega al Foglio che cosa intende quando parla del suo progetto di network liberale. “Partendo dal presupposto che quella attuale è una delle peggiori legislature della storia italiana, credo che per far capire quali sono le riforme che, colpevolmente, non sono ancora state fatte negli ultimi anni, dobbiamo ripartire con le parole che non molti anni fa ripeteva Claudio Martelli: ‘Vanno riconosciuti i meriti e non solo i bisogni dell’individuo’. Questo significa che su argomenti come pensioni, sanità, pubblico impiego e finanza locale non si può continuare a perdere tempo e significa che su questi argomenti non può prevalere la capacità di veto e di blocco della sinistra massimalista”.
Dice ancora Capezzone, intravisto la scorsa settimana al congresso dei giovani socialisti e a quello del Pli, e prossimo ospite di una tavola rotonda con Pietro Ichino, domani a Milano: “Siamo in un momento politico davvero imbarazzante e per cui è importante strutturare con intelligenza il prossimo Dpef ed è importante riuscire a far capire che soltanto tenendo duro sullo scalone sarà possibile avere più welfare e sarà possibile uscire dalla banlieue in cui si è cacciato il governo. E’ per questo che quando parlo della nostra ‘offerta pubblica di alleanza’ mi riferisco a un contenitore che partirà dall’esperienza dei Volenterosi (con i quali Capezzone aveva promesso di presentare un Dpef alternativo, ndr) e metterà insieme il concetto di rottura con quello di sutura riformista. Perché con tutti questi minuetti politici, è vero, errare è umano ma, a questo punto, perseverare sarebbe decisamente un po’ troppo prodiano”.
Claudio Cerasa
26/6/07

Roma e il New York Times


venerdì 22 giugno 2007

Il Foglio. "Paperon de’ Veltroni" "CDB ha la numero 1. Ecco quali sono le altre tessere della rete imprenditoriale del sindaco del Pd"

Tra le ambasciate gira voce che nella merchant bank capitolina qualcuno che parla inglese c’è

Roma. Le tessere numero due, numero tre, numero quattro, numero cinque, numero sei e numero sette del futuro Partito democratico di Walter Veltroni sono state riservate dall’attuale sindaco di Roma a sette precisi imprenditori in due giorni precisi e in due posti precisi. Nei sette anni di premierato cittadino dell’ormai sempre più probabile futuro segretario del Partito democratico, Veltroni è riuscito a cucire una rete economico-finanziaria che scende dal Campidoglio, si sposta al Circolo Canottieri Aniene, sfiora il teatro dell’Opera, passa di fronte all’Auditorium, sale le scale di Largo Fochetti, si ferma di fronte all’ambasciata americana e tocca un numero incredibile di personaggi da molti considerati le vere stelle fisse dell’universo veltroniano. Un universo, che è vero, va da Pasolini fino a Francesco Totti, da Berlinguer a Gabriele Muccino, ma che trova un collante nei rapporti che il sindaco di Roma ha costruito negli ultimi quattro anni con il mondo della finanza e con quello dell’economia, e che Veltroni ha voluto scoprire sul tavolo in due momenti precisi: il 12 ottobre dello scorso anno e il 27 settembre del 2003, giorni in cui il sindaco di Roma ha organizzato due tra i più importanti eventi degli ultimi anni della Capitale (la prima Notte Bianca, 2003, e la prima Festa del Cinema, 2006) e giorni in cui Veltroni ha fatto capire tra sponsor, partnership, consulenze, consigli di amministrazione e comitati esecutivi, su chi avrebbe deciso di puntare, magari anche per il prossimo futuro. E quei nomi riassumono esattamente quella che i nemici chiamano rete e quello che Walter invece ama chiamare “circolo”. E’ per questo che dire Roma e dire Veltroni significa dire naturalmente Carlo De Benedetti (in questi giorni sempre più tessera numero uno del Pd), ma significa dire anche Luigi Abete, Claudio Toti, Matteo Arpe, Andrea Mondello, Giovanni Malagò, Fabiano Fabiani – a cui sarebbero riservate le prime tessere – e significa dire anche Domenico Bonifaci, Alessandro Profumo, Luca Cordero di Montezemolo, Gianni Letta e, almeno fino a qualche settimana fa, Francesco Gaetano Caltagirone, prima che qualcuno iniziasse a scoprire che dentro i cassetti del circolo veltroniano le tessere più importanti erano già state distribuite da un pezzo.
Chi conosce Veltroni sa che nel suo lavorio sotterraneo ciò che più colpisce è il modo in cui l’ex segretario ds ha sempre cercato di non scegliere un unico interlocutore (a parte naturalmente quello all’ultimo piano di Largo Fochetti). Perché Veltroni ha rapporti buoni con Abete (presidente Bnl e numero uno dell’Unione industriali capitolina), perché Veltroni risponde sempre – in questi giorni un po’ meno – ai messaggini di Mondello (presidente della Camera di Commercio di Roma), perché Veltroni già si coccola i nuovi padroni degli aeroporti romani (cioè i Benetton), perché Veltroni è lo stesso sindaco grazie al quale i palazzinari ora si chiamano immobiliaristi ed è lo stesso sindaco a cui si riferiva Profumo quando, un anno fa, diceva che “il paese esce da molti anni difficili, ora serve un sogno”. E’ proprio per questo non può sorprendere che Veltroni sia lo stesso sindaco che ha dedicato una via a Marco Biagi, lo stesso mai intercettatto con Ricucci o Consorte e lo stesso supercandidato al Pd che riesce a essere romanista senza nulla voler togliere alla Lazio, non escludendo l’amore per la Juve e non dimenticandosi della sua Virtus (Veltroni è diventato presidente onorario della Lega Basket anche grazie all’amicizia con la potente famiglia Toti, padrona della Virtus Roma e pedina preziosa nelle mosse di Gemina e di Capitalia. Pare che sia proprio per colpa del rapporto con i Toti che Caltagirone, da un mese, ha rotto con Veltroni). Ma anche qui il grande pregio di Veltroni, alla lunga, rischia di trasformarsi nel suo più grande limite, e lo si capisce anche dai pranzi organizzati in Campidoglio (notoriamente Veltroni mangia tre mozzarelline, due pizzette bruciate e terribili panini con il salame), durante i quali Veltroni continua a far capire che non vuole scegliere, dice di voler puntare sulla “pluralità” e su quel “senso di appartenenza” che deve trovarsi a cavallo tra destra, sinistra, costruttori, banchieri e, attenzione, anche ambasciatori. Perché una delle mosse su cui lavora Veltroni è proprio il suo rapporto con i diplomatici stranieri e con gli imprenditori a loro legati. Chissà se è un caso che, tra le ambasciate romane, ci sia chi dice che Roma, nel senso del Campidoglio, è diventata l’unica vera merchant bank dove finalmente un po’ di inglese c’è qualcuno che lo parla.
Claudio Cerasa
22/06/07

martedì 19 giugno 2007

Il Foglio. "La parola Tav cancellata dall’agenda Tavazzi del governo Prodi"

Domani la commissione intergovernativa proporrà l’ennesima svolta sull’alta velocità. Di questo passo “non si farà mai”

Roma. Cinque giorni dopo la paradossale tavolata politica di Palazzo Chigi dove, in tre ore di trattative, il governo è riuscito ad articolare il suo pensiero sulla Tav senza dire una parola né sul come né sul quando né sul perché si farà l’alta velocità, cinque giorni dopo, la Tav già non esiste più. Mentre in Svizzera si festeggia l’inaugurazione del tunnel ferroviario più lungo del mondo, mentre in Italia le Ferrovie dello stato provano a spiegare che le Ferrovie dello stato non c’entrano nulla con il disastro dei treni in Sardegna (giovedì scorso, sulla linea che collega Nuoro e Orosei, sono morte tre persone e in tre anni i morti sulle ferrovie italiane sono saliti a venti), l’unica certezza, al momento, è che da domani pomeriggio i due copresidenti della Commissione intergovernativa della Torino-Lione spiegheranno ai ministri francesi e a quelli italiani che usare la parola Tav, da ora in poi, non ha più alcun senso. Perché il percorso ipotizzato (ma a Palazzo Chigi nessuno ha mai parlato di tracciati e nessuno ha mai messo in tavola né un progetto né tantomeno una cartina) non ha nulla a che vedere con il vecchio progetto (quello di cui si discute dal 1990, cioè quello di cui si discuteva già prima, molto prima, dell’ultima legislatura di centrodestra) e perché, spiegheranno i copresidenti, l’unico tracciato che potrebbe evitare all’Italia l’esclusione dal Corridoio 5 e l’unica idea ad alta velocità su cui lavorano governo, sindaci, no Tav e probabilmente anche no Vat, non c’entrano nulla con i fantastici tracciati dei Tgv francesi, con gli Ice tedeschi o con i Ktx coreani. E’ semplicemente un’altra cosa, si ricomincia semplicemente da capo e anche se il 23 luglio il governo riuscirà a farsi assegnare dall’Unione europea i finanziamenti per la Torino-Lione, con un percorso come quello della val Sangone, c’è chi pensa che, forse, di alta velocità in Italia non se ne parlerà mai. “La prima criticità è il sottoutilizzo dell’opera – spiega al Foglio l’ingegner Andrea Debernardi – I costi saranno superiori ai benefici sia nel caso del progetto originario sia nella versione cosiddetta destra Dora. E anche se con il nuovo tracciato verra bypassato il rischio amianto, presto si parlerà di un nuovo problema, ovvero quello dell’uranio che si troverà nel nuovo tunnel di base, anche se la mega galleria dovesse sbucare più a monte di Venaus”. E proprio per questo, spiegano Marco Ponti, del Politecnico di Milano, e Francesco Ramella, dell’Istituto Bruno Leoni di Torino, “la Tav, in val Susa o in val Sangone, non si farà mai, perché mancano i soldi e perché manca un progetto e perché manca, ancora oggi, un vero e proprio tracciato”.
Ma per comprendere il vero giallo sulla Tav, che in pochi mesi ha cambiato tre nomi e che prima di chiamarsi Tav già si chiamava Tac (treni ad alta capacità), per capire perché il ministro per gli Affari regionali, Linda Lanzillotta, ha davvero grosse difficoltà a dimostrare che in questi giorni sulla Tav “è stato fatto un passo avanti importante anche se non definitivo”, cosi come le ha il sindaco di Torino Sergio Chiamparino quando dice che “questo è il primo passo avanti che ha permesso di riavvicinare le varie parti e di rasserenare il clima”, per capire tutto questo, basterebbe ascoltare le parole dei veri vincitori del reality sulla Tav, ovvero i no Tav; gli stessi no Tav che anche oggi pomeriggio parteciperanno all’ennesimo “incontro decisivo” a Bussoleno, gli stessi no Tav che godono di un forte credito con Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani (vedi i successi delle ultime elezioni amministrative, e prima di perdere aderenza con una delle ultime basi rimaste fedeli, la sinistra di governo ci penserà molto bene), gli stessi no Tav, poi, convinti che in Italia siano sufficienti i treni Eurostar, i treni Ok, i treni Biz, i treni Plus e i treni Intercity, e gli stessi no Tav che si ritrovano nelle parole del presidente della comunità Bassa val di Susa, Antonio Ferrentino, che, il giorno dopo l’incredibile tavolata di Palazzo Chigi, ha raccontato a Liberazione il trionfo della base no Tav, capace di far cambiare al governo tre nomi in un anno e capace di far fare a Prodi, sull’alta velocità, un passo indietro laddove il governo non è ancora riuscito a farne neppure uno in avanti.
Claudio Cerasa
19/06/07

giovedì 14 giugno 2007

Il Foglio. "Agenda Tavazzi"

Con l’eterno rinvio al tavolo politico il governo decide di non decidere sull’alta velocità

Roma. L’ultima puntata dell’incredibile fiction sulla Tav e quindi sui tunnel, sull’amianto, sulla Val di Susa, sul corridoio 5 e sull’alta velocità, si è chiusa ieri pomeriggio a Palazzo Chigi grazie a un ennesimo “tavolo cruciale” in un’ennesima “giornata chiave” e con un ennesimo “accordo decisivo” che si trova esattamente a metà strada tra le posizioni dei No Tav, tra quelle dei sindaci, tra quelle del ministro Antonio Di Pietro, tra quelle del governo e tra quelle di Beppe Grillo, l’animatore dei dissidenti dell’alta velocità che da tempo riassume l’inutilità della Tav spiegando che non servirebbe a nulla spostare una mozzarella a trecento km all’ora. Il risultato è che sulla Tav, ancora una volta, i passi avanti sono praticamente inesistenti e in due ore e mezza di parole, a parte programmare l’ennesimo nuovo incontro decisivo, il governo ha ribadito che la Tav si farà, si farà probabilmente con il percorso (in gran parte interrato) della Val Sangone, senza spiegare né come, né dove, né perché.
Nelle dodici cartelle offerte ieri pomeriggio a Romano Prodi, a Enrico Letta, ai ministri Di Pietro, Pecoraro Scanio, Bianchi, Amato e Bonino, alla presidente del Piemonte Mercedes Bresso, al sindaco di Torino Sergio Chiamparino e ai sindaci delle due zone da cui dovrebbe passare la Tav (cioè the Susa Valley e the Sangone Valley, come le chiama il New York Times), il presidente dell’osservatorio Mario Virano (commissario nominato dal governo sul “romanzo” Tav) ha semplicemente presentato “un progetto di massima” che, più che chiudere il caso Tav, rimanda semplicemente il problema alla prossima conferenza intergovernativa. Perché dopo due ore e mezza di riunione, l’unico vero dato di fatto è che il commissario Virano ha portato sul tavolo di Palazzo Chigi una serie di elaborati che si trasformeranno (forse) in progetti entro il 23 luglio (termine massimo per i finanziamenti all’Unione Europea, ed Enrico Letta ha ribadito che quei finanziamenti il governo li chiederà); sempre che il 20 giugno, poi, i partner delle ferrovie francesi diano il via libera al pasticciatissimo modello italiano. E se da una parte Enrico Letta esulta, Chiamparino dice di essere soddisfatto, la Bresso promette un nuovo tracciato e Prodi, un po’ confuso, dice “che si va avanti per avere elementi per dare una risposta al Parlamento Europeo”, se Di Pietro quasi litiga con Pecorario Scanio, prima del tavolo di ieri, ascoltando le parole di Paolo Cento, era davvero possibile capire perché al fronte “sì Tav” di Di Pietro (che sul caso è disposto a giocarsi le dimissioni) se ne contrappone ancora uno “no Tav” pronto a infilarsi tra le ruote del governo; è per questo che il sottosegretario all’Economia ha parlato di “un’opera che non si può imporre”, di “consenso delle comunità locali”, di “un prezzo molto alto per il governo” e ha aggiunto che “se il tema arriva in Parlamento io mi schiererò con la Val di Susa”. Non esattamente il genere di discorso che avrebbe voluto sentire chi, come la Margherita, su questo tema ha cercato anche ieri di dettare l’agenda al governo dato e con il suo quotidiano, Europa, consigliava di muoversi “con alta velocità” e di prendere una decisione, una volta per tutte. Ma il risultato di ieri non vale praticamente nulla. Il governo non ha detto quando si farà la Tav, non ha presentato un progetto vero (quello di ieri è più che altro un elaborato), non ha spiegato perché le mozzarelle devono andare a 300 all’ora, ha fissato ancora una volta una data e ha dato ragione a chi ieri pomeriggio suggeriva che Prodi non avrebbe fatto fughe in avanti, che le accelerazioni appartengono al vecchio governo e che di Torino-Lione ancora una volta non se ne parla sul serio, dato che, anche ieri, i tracciati dell’alta velocità non erano neppure all’ordine del giorno. Claudio Cerasa
14/6/07

martedì 12 giugno 2007

Il Foglio. "Così Prodi sulla Tav è finito sotto scacco per colpa di un’opera che semplicemente andava fatta"

Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani mettono nei guai il premier. Mentre in Francia i treni vanno a 575 Km/h, l’unico cantiere che apre il governo è un “tavolo politico”

Roma. Prodi lo aveva chiamato proprio così: “Non negoziabile”. Aveva parlato della Tav a Caserta, aveva spiegato perché il corridoio europeo era davvero importante, aveva precisato che sulla Torino-Lione non si poteva più perdere tempo e aveva anche assicurato che l’alta velocità sarebbe stato uno dei dodici punti su cui il governo non avrebbe fatto nessuno sconto. Aveva detto così, Prodi. Ma nei cantieri dell’alta velocità, sei mesi dopo le parole alla Reggia di Caserta, la situazione è sempre la stessa, tutto è sempre fermo, il governo è ancora sottoscacco dei ricatti dei partiti di sinistra e non esiste una posizione ufficiale né sull’ipotesi del passante di Torino, né su quello della Val di Susa, nè su quello della Val Sangone. E questo mentre i progetti aumentano, mentre il governo rimanda e continua ad appoggiare un mese un progetto e un mese un altro; con il risultato che mentre in Francia si viaggia a 574 km orari su treni firmati Christian Lacroix, mentre da Parigi in due ore si raggiunge Strasburgo, Francoforte e Stoccarda, mentre i Tgv semplificheranno i viaggi di 37 milioni di europei, faranno abbassare i prezzi dell’Air France e punteranno a far aumentare il 65 per cento del traffico su rotaia entro il 2011, in Italia l’unica straordinaria novità è un “tavolo politico” che domani proverà a mettere d’accordo pacifisti, editorialisti, movimentisti, sindaci, ministri, no Pacs, no Vat, no War, no Bush e no Cav, ma che, comunque sia, anche se dovesse portare a una soluzione, rischia di mettere ugualmente nei pasticci Romano Prodi. E Prodi sa perfettamente che il pericolo che corre è davvero grande. Perché se da un lato Prodi rischia di contraddire se stesso, dall’altro lato Prodi potrebbe creare una pericolosissima frattura all’interno della sua maggioranza. La posizione del premier è delicata. Il presidente del Consiglio ricorderà che, nella legislatura 1996-2001, fu proprio il centrosinistra a presentare lo stesso progetto di alta velocità su cui non riesce a trovare una soluzione, undici anni dopo. Ma non solo. Dopo aver ricoperto la carica di garante per l’alta velocità, Romano Prodi prima creò la stessa società che diede il via libera alla presentazione della prima bozza sulla Tav (la società si chiamava Nomisma), poi, da presidente della Commissione europea, nel 2003 inserì il progetto Tav nell’elenco delle opere inter-europee più importanti, ovviamente dimenticandosi poi di citare la parola Tav nelle successive 281 pagine del programma dell’Unione.
Il vero problema però è un altro. Se davvero domani si dovesse trovare una mediazione (quella più probabile però non è il tracciato proposto ieri dalla Stampa, l’ipotesi che dovrebbe essere presa in considerazione è la soluzione “Val Sangone”, proposta dal deputato di Forza Italia Osvaldo Napoli e c’è da dire che è molto probabile che parte dei finanziamenti per la Torino-Lione si trovino nel Dpef), se davvero il governo riuscisse a presentare la sua bozza entro il 30 luglio, ultimo termine per ottenere i fondi dell’Unione europea, se tutto questo dovesse succedere, come si comporteranno i partiti che da mesi credono che la Tav sia inutile e pericolosa? Come risponderanno a quei movimentisti della Val di Susa che da mesi si fanno inquadrare con i metal detector antiamianto in zone in cui la Tav non passerà mai e che sostengono sia meglio non toccare nulla senza però spiegare bene per quale motivo? (Uno dei punti su cui insiste da mesi il movimento No Tav è quello che riguarda i rischi ambientali, ma un interessante studio publicato dal professore Remi Prud’Homme smentisce un po’ di questa propaganda ambientalista, e oltre a spiegare che con la Tav si guadagnerebbero fino a 4 milioni di ore all’anno, Prud’Homme spiega che con un piano come l’alta velocità si risparmierebbero 10 milioni di euro grazie alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica). Se davvero si dovesse trovare una soluzione, domani, è sicuro Prodi che Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani, dopo aver già perso aderenza con la base dei movimenti No Bush e No war, siano disposti a perdere contatto anche con la base dei movimenti No Tav, quando anche grazie a questo genere di appoggio, in alcuni comuni della Val di Susa, i Verdi sono arrivati al 37 per cento e le liste civiche nate con il movimento No Tav hanno raggiunto il 18 per cento, come successo nel comune di Rivalta? E’ sicuro Romano Prodi che riuscirà contemporaneamente a non contraddirsi e a non farsi mettere sottoscacco della sinistra? Perché poi c’è chi come Antonio Di Pietro sembra aver trovato la sua linea sull’argomento. Una linea molto dura. Di Pietro ricorda che Prodi ha preso la fiducia anche per le sue promesse sulla Tav, ricorda che se il progetto non dovesse passare il governo rischia di andare a casa e non può che aver notato, Di Pietro, che mentre in Francia si viaggia a 575 km, mentre il governo continua a rimandare i lavori, l’unico passo fatto da Prodi sul suo progetto non negoziabile, non è un cantiere, è solo un tavolo politico.
Claudio Cerasa
12/6/07

sabato 9 giugno 2007

Il Foglio. "Altro che network, ora Capezzone ha pronto il suo movimento"

Il lavorio del deputato della Rosa nel pugno. Si parte con un giornale on line, una rete, molti viaggi e un nome per la Cosa lib

Roma. Ci siamo. Dopo un anno di presidenza della Commissione Attività produttive della Camera, dopo cinque mesi di Volenterosi e sette mesi di battibecchi con Marco Pannella e, soprattutto, nove giorni dopo il duro scambio di lettere con il leader radicale, Daniele Capezzone è pronto a lanciare quello che gli invidiosi chiamano partito, quello che lui chiama network, quello che i suoi compagni chiamano movimento e quello che i suoi ex simpatizzanti chiamano, ghignando, un “Italian enterprise institute”. Capezzone è pronto a dare continuità al suo lungo lavorio, grazie al quale l’ex segretario radicale ha provato (in parte riuscendoci) a creare (sono sue parole) un network “liberale, liberista, libertario e radicale” che parte dalla rete, nel senso di Internet, arriva ai think tank, nel senso del Bruno Leoni, e tocca un po’ Confartigianato, Confcommercio e Confindustria, soprattutto nel mondo delle piccole e medie imprese. Capezzone sa che, per fare il salto di qualità, aspettare ancora potrebbe essere un po’ pericoloso. Perché non c’è dubbio che si è mosso in tempo per cercare di dipengersi nel ruolo di avanguardia liberale del governo – all’ultima fiducia si è astenuto – e non c’è dubbio che da tempo dà segnali di “rupture”, significativo un suo intervento alla Camera quando, pochi mesi fa, presentò il proprio manifesto politico: “Servirebbe una rottura nella politica italiana, a sinistra come a destra. E da radicale lavorerò perché ovunque possibile germogli la pianta delicata dell’alternativa liberale”.
Tutto questo è vero, ma è altrettanto vero che nel dare l’idea di prepararsi per un dopo Prodi, Capezzone, senza un suo movimento, potrebbe essere meno efficace. Dove andrebbe a finire? Resisterebbe a sinistra? Per un altro verso, però, Capezzone sa che, ora, la sua popolarità non può non essere sfruttata. Esempio. In un sondaggio Swg pubblicato ieri dal Mondo, tra i possibili leader a capo degli schieramenti futuri, Capezzone è secondo, prima del pur giovanissimo Veltroni, e dietro a Enrico Letta. Con la differenza che Capezzone era l’unico scelto sia per uno schieramento di destra sia di sinistra. Il deputato della Rosa nel pugno sa che deve stare attento a non farsi trovare senza strumenti d’azione dal precipitare della crisi del governo Prodi e sa che nel sottosuolo della politica, oltre a lui, lavora anche Savino Pezzotta, lavora la rete veltroniana di Bettini e i Circoli della Libertà di Michela Vittoria Brambilla.
Il movimento che Capezzone ha in mente è una forza non sgradita agli imprenditori, e dunque al loro presidente Montezemolo, ai lavoratori autonomi e a coloro che pensano che l’Italia abbia soprattutto bisogno di riforme economiche. Si presenterà con un Dpef ombra, alternativo a quello del governo e frutto del lavoro dei Volenterosi e dei riformatori presenti in Parlamento e sulle prima pagine della stampa borghese. Nello spirito e nell’organizzazione, anche se su un altro fronte, potrebbe essere simile a quella rete che sta costruendo MVB. Perché Capezzone non è stato presidente dei giovani di Confcommercio, non ha una tv, non ha circoli, non è roscio, non ha ancora imparato a togliere dalla circolazione quelle foto in cui è sempre serio serio con la camicia enorme e la cravatta troppo stretta, ma ora dirige un giornale on line (LibMagazine), gira l’Italia da mesi, pensa a un viaggio tra i giovani italiani a Londra (in autunno) e presto presenterà un sito (danielecapezzone.it è già registrato). Oltre al network, Capezzone – chi lo dice lo conosce bene – avrebbe finalmente scelto un nome per la sua Cosa. Un nome già conosciuto, già apprezzato e già affermato. Lavori in corso attorno ai “Volenterosi”.
Claudio Cerasa
9/6/07

venerdì 8 giugno 2007

Panorama. "L'oligopolio delle onoranze funebri"

Quando lo scorso ventisei maggio l’Antitrust segnalava ai presidenti di Camera e Senato le gravi distorsioni del mercato nel settore delle onoranze funebri, l’autorità garante di Antonio Catricalà aveva in mente un punto chiave dove far cadere l’attenzione dei parlamentari italiani sullo strano caso del caro-vita del caro-morte. Da circa due anni, l’Antitrust ha scelto di monitorare le sospette attività commerciali sia degli operatori funebri, sia quelle dei gestori delle camere mortuarie. Che cosa succede in questo momento in Italia? Succede che i gestori delle camere mortuarie e in particolare le amministrazioni ospedaliere hanno creato una sorta di monopolio del funerale, affidando il controllo delle camere mortuarie ad alcuni operatori precisi. Operatori che possono essere sia pubblici che privati ma che comunque, trovandosi direttamente all’interno degli ospedali e trovandosi nella condizione di essere scelti direttamente dalle famiglie del defunto, costituiscono uno dei maggiori ostacoli alla concorrenza del settore e uno dei principali motivi per i quali i funerali in Italia costano così tanto. Il motivo è semplice. L’operatore che ha la possibilità di mettersi immediatamente in contatto con la famiglia del defunto, è evidentemente avvantaggiato rispetto a chi non ha contatti direttamente negli ospedali ed è quindi libero di alzare i prezzi a suo piacimento. Il problema è ancora più grave se si pensa che il regime, così si chiama, di esclusività, spesso riguarda anche società comunali. E non possono quindi sorprendere i dati presentati dall’associazione Help Consumatori, secondo i quali in otto tra le più importanti città italiane, la spesa per i funerali è aumentata sempre di più negli ultimi anni, arrivando a toccare a Roma i 2.155 euro di media e a Milano, città più cara d’Italia, i 3.575 euro.
Claudio Cerasa
8/7/07

martedì 5 giugno 2007

Il Foglio, "D’Avanzo offre a Prodi (e a Visco) l’incontestabile verità sul caso Visco"

Tra Pollari, Abu Omar, Speciale e la nuova p2
Repubblica suggerisce la massima e obiettiva versione dei fatti e ricorda che “il peggio deve ancora venire”

Roma. L’incontestabile verità su Vincenzo Visco, su Roberto Speciale e sulla Guardia di finanza della Lombardia, era tutta nelle pagine di Repubblica di ieri, dopo essere stata brevemente accennata da Eugenio Scalfari domenica scorsa e qualche ora prima che il comandante Roberto Speciale rifiutasse l’incarico alla Corte dei Conti offertogli dal governo. E nelle incontestabili pagine 12 e 13 di Repubblica c’era davvero tutto quello che probabilmente lo stesso governo aspettava di conoscere da un po’. C’era un bel primo piano di Abu Omar, c’era la security di Telecom, c’era Tavaroli, c’era il palazzo di Antonveneta, c’era la foto di Pollari, c’era quella di Visco (“la cui limpidezza morale non è in discussione”), c’era Roberto Speciale, c’era – poche pagine prima – un corsivo di Carlo Bonini e c’era soprattutto la firma di Giuseppe D’Avanzo che con un lungo pezzo, spiegava perché, oggettivamente, in Italia esiste “una nuova P2 che ricatta la politica debole”. E questo, ma sicuramente sarà soltanto una coincidenza, capitava nello stesso giorno in cui Furio Colombo sull’Unità firmava un editoriale dove, oltre a spiegare il valore del triangolo Berlusconi-Chávez-Brambilla, l’ex direttore del giornale ds chiariva perché, ora più che mai, “pezzi importanti del piano P2 si sono saldati”. E il pezzo di D’Avanzo è un vero e proprio capolavoro di teorizzazione giornalistica. Eccola, la verità.
Seguendo i consigli del Fondatore, che il giorno prima aveva riassunto tutto il caso Visco dicendo di “voler chiarire gli elementi di fatto con la massima obiettività possibile in questi chiari di luna” ma dimenticando un paio di cosucce piuttosto importanti (per esempio che Visco avrebbe minacciato Speciale, per esempio che quegli avvicendamenti non sono affatto “di prassi” e per esempio che Visco avrebbe voluto scavalcare l’Autorità giudiziaria), si diceva, seguendo i consigli di Scalfari, Giuseppe D’Avanzo offre la versione ufficiale dei fatti. E nelle due pagine di Repubblica torna tutto, davvero. Torna Pollari, torna Telecom, torna “il prepotente riemergere di un ramificato potere occulto”, torna un “agglomerato oscuro” e torna soprattutto, così viene presentata da Repubblica, la grande “inchiesta” di Giuseppe D’Avanzo che, in un pezzo perfetto, riesce a dimostrare – senza aver bisogno di riportare nessun nuovo fatto specifico – perché Visco aveva capito che quel sistema marcio andava spazzato via, perché il generale Speciale faceva parte di “quell’apparato legale clandestino che avrebbe raccolto migliaia di intercettazioni”, perché le intercettazioni che arriveranno nei prossimi giorni saranno inevitabilmente viziate da questo apparato, perché – come scritto da Bonini – Speciale non era altro che “un burocrate furbissimo con un debole per le belle cose (arredi e orologi), la bella gente, i bei luoghi (Capri)” e perché Speciale resta comunque “una testa di legno che governa per conto terzi”. Spiega tutto, D’Avanzo; spiega perché nella storia di Visco c’entra Telecom, c’entra Abu Omar, c’entra Antonveneta e se solo avesse avuto un po’ di spazio in più, D’Avanzo sarebbe riuscito a dimostrare perché Pollari, Abu Omar e Speciale siano in realtà dietro agli ultimi scudetti vinti dalla Juventus. Peccato però che D’Avanzo, nella sua perfetta versione dei fatti, si dimentichi – un po’ come era successo domenica a Scalfari – di parlare di Unipol, di ricordare a Bonini (convinto che la Gdf lombarda non c’entri nulla con il caso) che a luglio era stato proprio Alberto Statera a dire che “gli ufficiali milanesi della Guardia di finanza (…) hanno collaborato all’inchiesta Unipol”; o, magari, D’Avanzo avrebbe potuto spiegarci perché Pierluigi Magnaschi, ex direttore dell’Ansa, dice di essere stato “licenziato dall’Ansa per la notizia su Visco”. E invece nulla. Unipol viene nominata, tra parentesi, soltanto una volta nelle fantastiche pagine di Rep.
E ora cosa succede? Succede che domani il Senato voterà una pericolosissima mozione contro Visco, succede che Russo Spena (di Rifondazione) è preoccupato per i suoi senatori convalescenti, succede che Di Pietro non molla Visco, succede che tra pochi giorni arriveranno le intercettazioni su Unipol-Bnl-Antonveneta (“Il peggio deve ancora venire”, scrive minaccioso D’Avanzo) e, nonostante le critiche di Parisi (il ministro non ha gradito il passaggio in cui D’Avanzo dice che “il governo ha preferito chiudere un accordo di non-aggressione con il network Speciale-Pollari”), succede che, Rep., finalmente, regala una perfetta teorizzazione di quello che sarebbe successo, di quello che il governo farebbe meglio a dire. Succede che Rep., con la grande inchiesta di D’Avanzo, offre quella grande e incontestabile verità che forse anche Visco e Prodi aspettavano di conoscere da un po’. Specie ora che, dopo il voto al Senato, come dice D’Avanzo, “il peggio deve ancora venire”.