sabato 27 gennaio 2007

Il Foglio. "De Angelis, il conduttore “radioattivo” che fa notizia senza veline e senza notizie"

Palla a Liverani, lancio lungo, si avvicina Di Canio,
è il sei gennaio, l’anno è il 2005, Di Canio prende
palla, la tocca, botta al volo, palla in rete, Lazio uno,
Roma zero. Guido De Angelis, in radio, reagì con discrezione,
limitandosi a pronunciare per circa ventidue
secondi la vocale “oooo” dopo la lettera “g” e prima
della lettera “l”, per poi aggiungere, non esattamente
sottovoce, “Paoletto mio, Paoletto mio, te voglio
beneeeeeeeee!”, e poi: “Ah Paolè, ah Paolé ancora
una volta j’hai fatto male, ancora una volta j’hai fatto
male, ancora una volta j’hai fatto male!!!”. Passano pochi
minuti, palla lunga, arriva Rocchi, supera Doni
(portiere della Roma ), tre a zero e De Angelis, composto:
“Aaaaaaaaa, aiuto, aiuto, aiuto, aiuto, aiuto,
apoteosi, aiuto, apoteosi, aiuto, apoteosi, aiuto,
aaaaaaaa”. Segue approfondita intervista con Paolo
Di Canio. La telecronaca è diventata prima un video,
poi una suoneria telefonica.
Guido De Angelis è un conduttore televisivo, ha inventato
un giornale che si chiama Lazialità (ventuno
anni fa), ha inventato un programma che si chiama Lazialità
tv e ha inventato una trasmissione radiofonica
che si chiama “Quelli che hanno portato il calcio a Roma”
e che, pur parlando di Roma, parla solo della Lazio.
Non ha veline, non ha letterine, non ha schedine,
non ha commentatrici, non ha conduttrici, non ha movioliste
e non ha giornaliste scollate sorridenti davanti
alle postazioni Internet pronte a chiedere la linea
ogni quindici minuti per spiegare che effettivamente
non c’era nulla di nuovo da dire, a parte questo dvd da
domani in edicola. Guido De Angelis in trasmissione
– alla radio è un’altra storia – non urla, non grida, non
batte pugni sul tavolo, non invoca moviole in campo,
non chiede mai di essere invitato a commentare la Lazio
a Controcampo e non chiede mai di scrivere di tattica
in prima pagina sulla Gazzetta dello Sport. Guido
De Angelis è l’anti Michele Plastino perché, a differenza
di Michele Plastino, ha fatto la storia del giornalismo
televisivo locale senza aver avuto bisogno di
insegnare a nessuno la storia del giornalismo televisivo
locale e soprattutto senza aver avuto bisogno di diventare
un famoso volto nazionale per trasformarsi in
un eroe della televisione locale. De Angelis non è uno
di quei giornalisti che lavora nella tv privata solo per
provare a tutti i costi ad andar via dalla tv privata. Va
bene la Lazio, e va bene la tv locale, stop, basta così.
De Angelis è il primo giornalista romano ad aver inventato
un giornale specializzato soltanto su una squadra,
cioè la Lazio, ed è anche per questo che uno come
lui non ha neanche bisogno delle immagini per parlare
di calcio, non ha bisogno delle veline per parlare di
tattica e non ha bisogno di inventare “complotti”, “giochi
di potere” e “ manovre di Palazzo” soltanto per poi
dimostrare di essere stato il primo a combattere i grandi
complotti e le grandi manovre di Palazzo. De Angelis,
per capire, nelle sue trasmissioni non ha neppure
bisogno delle notizie per far notizia.
Nella televisione locale, soprattutto quella romana,
funziona solitamente così. Esistono due precise
tipologie di conduttori. Ci sono quelli che hanno iniziato
a lavorare dopo Michele Plastino (che, per chi
non lo sapesse, è il giornalista televisivo di tv private
più famoso di Roma) e quelli che hanno iniziato a
lavorare prima di Michele Plastino, ma dato che Michele
Plastino ha iniziato a lavorare quando praticamente
non c’era ancora nessuno che lavorava nello
sport delle tv private a Roma, nella televisione romana
esistono soltanto giornalisti che hanno iniziato
a lavorare dopo Michele Plastino, giornalisti che
quindi ogni giorno si sentono dire “vedi, devi fare come
Michele Plastino”, “vedi, devi essere brillante come
Michele Plastino”, “vedi, devi avere gli ospiti di
Michele Plastino”, “vedi, devi scrivere sulla Gazzetta
come Michele Plastino” o “devi andare a Controcampo
come Michele Plastino”, o “vedi, devi avere la
stessa distribuzione cromatica dei capelli di Michele
Plastino”. A Guido De Angelis, però, di Plastino
non gliene importa nulla.
Guido De Angelis, a Roma, è amato perché riesce a
non essere scontato anche quando intervista Lotito
(che però non ama), quando intervistava Cragnotti (che
però non amava), quando intervistava Eriksson (che
non amava granché) o quando intervistava il suo amico
Giorgio Chinaglia. De Angelis, a Roma, è amato perché
riesce a essere convincente anche quando spiega
che “per Behrami al Genoa vanno tre milioni più
Ciampi” (il giocatore si chiamava Ciani), anche quando
dice che “Mexes ha applaudito in maniera anonica
l’arbitro” e quando nota che “i laziali sono bianchi paonazzi”.
De Angelis, a Roma, è amato perché è uno dei
pochi giornalisti sportivi che riesce a essere serio pur
non essendo noioso e che riesce a essere piuttosto efficace
anche quando ricorda di essere radioattivo (per
via della radio) e anche quando, con una certa lucidità,
è in grado di tirar fuori confessioni clamorose, tipo
questa: “Allora, Oddi, perché l’arbitro ti espulse?”. Oddi,
cioè Oddo, prima di andare al Milan rispose: “Guido,
sinceramente ne ho menato uno”.
Claudio Cerasa

sabato 20 gennaio 2007

Il Foglio. "La grande balla di lardo"

LA GRANDE BALLA DI LARDO

Ma dove sono in Italia tutti questi ciccioni? Essere magri e scattanti, ovvio, non dispiace a nessuno
Chi l’ha detto che essere extralarge significa essere malati? La grossa e grassa crociata contro la ciccia omicida

“Allora mi vuoi proprio deludere?
Hai deciso cosi? Allora rinuncia e vattene
via, brutto tricheco grasso di
merda, vattene via dal mio ostacolo
del cazzo! Scendi giù da questo ostacolo
del cazzo! Muoviti! Altrimenti ti
strappo via le palle così ti impedisco
di inquinare il resto del mondo! Io
giuro che riuscirò a motivarti, palla di
lardo, a costo di andare ad accorciare
il cazzo a tutti i cannibali del Congo!”.
Dal film “Full Metal Jacket”, scambio
di opinioni tra il sergente Hartman
e il soldato Palla di lardo


Nell’autorevole letteratura dedicata
alla spietata, incontrollabile e irrefrenabile
epidemia dell’obesità, si trovano
con una certa semplicità diversi volumi
pronti a illustrare perché è molto meglio
essere fit piuttosto che essere fat, col
rischio di essere sick proprio perché ormai
fat, non essendo stati così smart da
non essere né sick né fat. Tra i volumi
spesso accompagnati da minuziose immagini
di ciccioni, disgustosi e sofferenti
pronti a mangiare l’ennesimo grasso, tremendo,
obeso panino, si trovano in mezzo
alle parole “grasso” (fat), “malato”
(sick), “in forma” (fit), diversi libri che con
rigore argomentano sul perché una dieta
è sempre meglio farla piuttosto che non
farla. Tra i tanti manuali corredati da parole
tipo “morte”, “malattia”, “cuore”,
“diabete di tipo uno”, “diabete di tipo
due”, “dicono gli esperti”, “come succede
in America, “dice la ricerca”, “cattiva
alimentazione”, “dicono le statistiche”,
“problemi psicologici”, “dieta, dieta, dieta”,
si trovano (Libreria Feltrinelli, Largo
Argentina, Roma) anche pagine di un certo
spessore come “La dieta a colori”, “La
bibbia delle calorie”, “A tavola con il Duce”,
“Guarire con il cibo”, “Perdere peso
e non perdere la testa”, “Il libro del giusto
peso per sempre”, “Un pasto al sole”,
“Dimagrire e restare magri”, “L’olio della
conversione”, “Metti una sera… a cena”,
“Io mangio tu mangi”, “La dieta delle
tre ore”, “Dimagrire in cinque giorni
con la “dieta-miracolo”, “Questa volta ce
la faccio! 203 snack spirituali per chi è a
dieta”, “La dieta mediterranea anzi italiana”,
“A tavola con il diabete”, “In forma
con la dieta astrologica”, “Cibo e destino.
Gli insegnamenti di Namboku Mizuno”,
“La dieta dei vip. Segreti e ricette
per vivere in leggerezza”, “La dieta in un
giorno”, “La dieta ovvia”, “La dieta per
l’anima”, “La dieta col filosofo”, “La dieta
degli angeli” e altri 98 libri che il più
delle volte raccontano come svolgere una
dieta perfetta, o come fare a non essere
così lardosamente obesi. Strano però che
in questa così raffinata letteratura non si
trovi facilmente qualcuno che invece
spieghi che l’obesità non è una malattia,
che le diete spesso sono delle truffe, che
il 95 per cento delle persone a dieta non
perde peso, che le diete uccidono anche
più del grasso e che l’obesità così come
viene intesa non esiste, è falsa ed è un
imbroglio. Davvero strano che non ci sia
qualcuno che tra diete, diete, diete, diete,
malattie, diabete, cuore, fat, fit, sick,
smart, non spieghi che non ha nessun
senso dire che un obeso che si ammala si
ammala perché è obeso. Davvero strano
che non ci sia quasi nessuno che spieghi
come uno dei pochi dati certi sulla ciccia
è che dopo i settant’anni vive molto meglio
chi ha un po’ di grasso in più nel corpo
rispetto a chi non ne ha.
Poco prima che dagli Stati Uniti venisse
suggerita la promozione di una pillola
(ovviamente, come tutte le pillole, rassicurante)
contro l’obesità canina (la preoccupante
percentuale di cani sovrappeso
in America dovrebbe essere tra il 20 e il
30 per cento, dicono gli esperti), l’ultimo
esponente della maggioranza italiana ad
aver parlato di obesità, è stata la senatrice
dei verdi Loredana De Petris, capogruppo
in commissione Agricoltura e alimentazione.
Subito dopo aver letto con
un po’ di apprensione che “le autorità sanitarie
di New York hanno deciso di mettere
al bando i grassi idrogenati da tutti
gli esercizi di ristorazione della città”, ha
proposto, indignata, di “dare un segnale
di cambiamento verso l’alimentazione sana,
già con la legge finanziaria in discussione”.
La De Petris – era il 6 dicembre –
è stata molto dura con il lardo italiano:
“Mentre le città di New York e Chicago
mettono al bando i grassi idrogenati e
mentre ricerche scientifiche condotte in
tutto il mondo ne confermano il ruolo
nell’insorgenza delle patologie alimentari,
in Italia si mantiene un trattamento fiscale
agevolato per questi prodotti, in
contrasto con una elementare politica di
prevenzione”. Un mese prima, alla conferenza
ministeriale europea sulla lotta
contro l’obesità, il sottosegretario al ministero
della Salute, Gian Paolo Patta, dopo
essere venuto anche lui a conoscenza che
uno dei modi più efficaci per combattere
l’obesità è quello di studiare l’interruzione
metabolica della cosiddetta “libellula
pulchella”, ha osservato perché sia giusto
considerare l’obesità come “un’epidemia
globale”. Al punto numero 9 del programma
realizzato dalla World Health Organization
Europe, pur non accennando con
evidente colpevolezza al caso delle libellule,
si leggono cose tipo queste. Si legge
che “le bevande ipercaloriche dovrebbero
essere meno facilmente reperibili e
dovrebbero essere sostituite da prodotti
nuovi con migliori caratteristiche nutrizionali,
per cambiare le abitudini delle
persone”. La World Health Organization
Europe ha poi stimato una percentuale
attuale di obesi nel mondo che varia tra
il 30 e l’80 per cento degli adulti, aggiungendo
che entro il 2010 un bambino su
dieci sarà obeso e che aumenteranno anche
tutte quelle persone in grado di sviluppare
malattie come diabete, ipertensione,
insonnia, disagi psicologici, disagi
sociali. Ovviamente la colpa, oltre che
delle libellule, è del grasso. Prendendo
spunto anche da questi dati, il ministero
della Salute italiano, ha già stanziato sei
milioni di euro per la lotta all’obesità e
ha presentato un progetto che si chiama
“Guadagnare salute”, grazie al quale il
ministero vuole prevenire quei fattori di
rischio che sarebbero la causa dell’80 per
cento delle malattie e delle morti nel nostro
paese. E cioè: l’inattività fisica, la
scorretta alimentazione, l’eccesso di alcol,
e l’abitudine al fumo. Il tutto, si capisce,
per il nostro bene, per la nostra salute,
per la nostra prevenzione, per la nostra
sicurezza, per la nostra salvezza e
per non finire come tutti quei ciccioni sudati
e depressi. Perché, proprio come dice
il professor Paul Zimmet, dell’Università
Monash di Melbourne, probabilmente
ben consapevole della realtà apocalittica
racconta da libri come “Un pasto al
sole”, “il mondo è nella morsa di una
pandemia di obesità che minaccia di sopraffare
le strutture sanitarie di ogni paese
ed è un pericolo per l’umanità quanto
il riscaldamento globale e l’influenza
aviaria”. Proprio così, come l’influenza
aviaria. Ed è proprio seguendo questa linea
catastrofista che possono trovare spazio
proposte come quelle del professor
Giuseppe Maggese, presidente dell’Associazione
dei pediatri, sinceramente convinto
che in Italia “l’unico vero primo
passo nella strategia di prevenzione dell’obesità
è eliminare i distributori di merendine
nelle scuole”, dato che secondo
il ministero della Salute, i quattro milioni
di obesi comportano una spesa sanitaria
tra il 2 e il 7 per cento della spesa sanitaria
totale e dato che in tutto, ogni anno
su un totale di 570 mila morti, ce ne sono
57 mila che muoiono di obesità. Questa
è la situazione in Italia. O almeno,
questo è quello che dice il ministero.
L’invasione della ciccia omicida è documentata
in diversi rapporti Istat. I dati
più aggiornati sono quelli registrati tra
il 1994 e il 1999. Secondo l’Istat, in questo
periodo gli italiani obesi o in sovrappeso
sono aumentati del 25 per cento,
arrivando a essere il 10 per cento della
popolazione complessiva. Sempre secondo
questi dati ogni anno in Italia
“l’eccesso di peso e le malattie conseguenti”
costano al sistema sanitario nazionale
22,8 miliardi di euro, di cui il 64
per cento viene speso in ricoveri ospedalieri.
Ma davvero in Italia ci sono tutti
questi obesi? Davvero in Italia l’obesità
è così pericolosa? Davvero in Italia
si mangia sempre di più, si ingrassa
sempre di più e si muore sempre di più
per colpa della ciccia? Questa è la storia
che ci viene raccontata ogni giorno. Ma
per fortuna le cose non stanno così.
Andiamo con ordine. Quando il ministero
parla dell’irrefrenabile epidemia
di ciccioni con il panino e la Coca Cola,
i dati a cui fa riferimento sono quelli
calcolati con uno standard che si chiama
Bmi (Body Medium Index). Il Bmi si calcola
dividendo il peso per l’altezza al
quadrato ed è lo stesso indice utilizzato
in tutto il mondo. Una persona in sovrappeso
ha un indice di massa corporea
superiore a 25, una persona obesa
ha invece un indice superiore a 30. Molto
semplice. Questo tipo di unità di misura
si chiama anche “peso ideale”, ed
è proprio con i dati sul “peso ideale”
che vengono presentate, non solo in Italia,
quelle ricerche sull’obesità grazie alle
quali si possono leggere teorie come
“L’emicrania è strettamente collegata all’obesità”,
“l’aria condizionata è strettamente
collegata con l’obesità”, e che anche
“il rialzo dei prezzi della benzina è
strettamente collegato con l’obesità”.
Peccato, però, che sia lo stesso ministero
della Sanità a dire in una nota nascosta
nel suo sito che tra le giuste parole da
utilizzare in ambito nutrizionale la parola
“peso ideale” non dovrebbe mai essere
nominata perché – spiega il ministero
– “il peso ideale è all’origine di errori terapeutici
e di turbe psicologiche”. Curioso
poi che proprio l’indice di massa corporea
sia stato arbitrariamente abbassato
del 10 per cento nel 1997, creando
quindi da un giorno a un altro milioni di
nuovi obesi e dando ora al ministero la
possibilità di dire che in Italia il numero
degli obesi è effettivamente aumentato
del 25 per cento rispetto al 1995, cioè rispetto
a quando c’era un modo diverso di
calcolare proprio quell’indice. Curioso
poi che secondo il Bmi oltre a Micheal
Jordan e George Bush, a essere obesi o
sovrappeso sarebbero anche tre campioni
del mondo come Francesco Totti, Gennaro
Gattuso e Angelo Peruzzi. Ovvio che
nessuno vuol dimostrare che essere belli,
magri, fit e smart, sia peggio che essere
schifosamente fat. Ovvio, poi, che mangiare
con un po’ di giudizio e fare un po’
di moto non può che far bene. Ma voler
far credere che essere lardosi significhi
anche essere praticamente malati è solo
un grosso e grasso bluff.
“Non esiste nessuna base medica che
indica l’obesità come un fattore di mortalità
e prevenire l’obesità non significa
prevenire la morte”, racconta al Foglio il
dottor Giovan Battista Gori, direttore dell’Health
Policy Center nel Maryland. Il
dottor Gori continua il suo ragionamento:
“In genere chi è obeso è vero che ha una
certa propensione verso certe malattie,
ma l’obesità è uno dei tantissimi cofattori
che possono portare alle stesse malattie
e non è possibile isolare i singoli dati
statistici. Ovviamente – sorride il professore
– può capitare che un obeso nel corso
della sua vita possa anche morire. Ma
attenzione. Non è scientificamente provato
che con un Bmi superiore ai 30 si sia
più esposti a certe malattie. I dati che abbiamo
sono ancora insufficienti per provare
qualsiasi cosa, ed è per questo che,
in realtà, non saremmo neppure in grado
di prescrivere diete individuali su base
scientifica. Ma, nonostante questo, ci sono
alcuni stati che, invece, hanno l’arroganza
di prescrivere diete o programmi
di nutrizione nazionali. Cosa che è scientificamente
assurda, arrogante e ovviamente
pericolosa, molto più della stessa
obesità. Far diventare l’essere grasso una
malattia significa creare malati da curare,
significa creare un mercato da un miliardo
di obesi dove le persone si fanno
legare lo stomaco, si accorciano gli intestini
e finiscono per morire per le stesse
diete. E questo nonostante si sappia con
certezza che gli obesi muoiono esattamente
come i magri, che la vita media si
è oggettivamente allungata e che uno dei
pochi dati certi è che chi ha un po’ di
grasso in più nel corpo, dopo i settant’anni
vive meglio rispetto a quelle persone
che di grasso ne hanno meno”.
Uno dei dati maggiormente saccheggiato
in Italia, è quello legato a un’indagine
del 1999 condotta dal Journal of the
American Medical Association, secondo
la quale in America ci sarebbero fino a
300 mila morti causate dall’obesità. E’
proprio da questa ricerca in poi che in
Italia sono partiti i primi campanelli
d’allarme sull’epidemia dei ciccioni. Ma
c’è un piccolissimo particolare certamente
non rilevante come quelle ricerche
che spiegano perché la ciccia fa venire
il mal di testa o perché la ciccia fa
aumentare i prezzi della benzina o perché
(29 aprile 2006) la tv in camera aumenta
del 30 per cento il rischio di diventare
obesi. Quella stessa ricerca del
Journal dimenticava di chiarire che coloro
che avevano un indice di massa corporea
uguale a 20 (cioè, un “indice ideale”)
incorrevano nello stesso, attenzione:
proprio nello stesso, rischio di mortalità
di quelli con un indice di 30, e cioè degli
obesi. Quella stessa drammatica ricerca
sull’epidemia dell’obesità dimenticava
di spiegare che gli obesi muoiono esattamente
come i non obesi.
Ma il ministero della Salute, quando
parla di obesità, dimentica forse di ricordare
un paio di cose. Dimentica che le
persone che vivono all’interno di quell’indice
di massa tra 25-30 vivono meglio
di quelle che si trovano tra 18,5 e 24,9. Dimentica
che in uno studio del 1995, l’American
Cancer Society spiega che le
donne in salute che si preoccupano di
perdere peso soffrono del 70 per cento in
più il rischio di ammalarsi rispetto alle
donne che non perdono peso. Ma soprattutto,
il ministero dimentica che il 40 per
cento dei pazienti che si sottopongono a
interventi chirurgici per dimagrire soffre
di complicazioni e che operazioni come il
bypass gastrico portano a un tasso di mortalità
del 2 per cento nel primo mese, e
del 3 per cento nei successivi tre mesi.
Ma la grande truffa dell’obesità è svelata
involontariamente dalla stessa Istat.
Secondo l’istituto nazionale di statistica,
in Italia gli obesi sono circa il 10 per
cento della popolazione e l’obesità è in
aumento rispetto al 1995. Ma l’indagine
multiscopo Istat (2000-2003) racconta uno
scenario completamente diverso. L’indagine
dice, testualmente, che “la percentuale
di persone normopeso sopra i 18
anni risulta sostanzialmente stabile”.
Proprio così. Stabile. 53,5 per cento nel
2000, 54,1 per cento nel 2003. Ma, attenzione,
perché non soltanto gli obesi sono
il 9 per cento, esattamente come il 9 per
cento lo erano nel 2000, ma il numero
delle persone sovrappeso è calato dello
0,3 per cento in quest’arco di tempo, passando
dal 33,9 al 33,6 per cento. Significa
che gli italiani in sovrappeso sono addirittura
diminuiti, altro che epidemia.
Poco tempo dopo aver saputo che la
Disney ha deciso di tagliare i ponti con
la McDonald’s, preoccupata per il devastante
“impatto che gli Happy Meals
hanno sull’obesità infantile”, il 5 gennaio
ancora l’Istat ha presentato un altro
dato che andava completamente a
scontrarsi con le catastrofiche statistiche
sull’obesità. I numeri sono questi:
dal 2001 al 2006 “i consumi agroalimentari
sono calati del 9 per cento”. Andando
nel dettaglio, si consumano meno
carni avicole (-20 per cento), si consuma
meno frutta (-18,5 per cento) e si consumano
meno ortaggi (-16,3 per cento).
Davvero strano che in un paese dove gli
obesi aumentano calino i consumi
agroalimentari. E questo proprio quando,
nello stesso periodo, il prezzo della
maggior parte degli alimenti (come riso,
grano, mais, grasso e zucchero) è sceso
del 60 per cento circa.
Ma uno dei modi più semplici per
considerare l’obesità come se fosse tutta
una malattia è l’operazione che porta
a dire che obeso uguale diabetico e che
porta a dire che la “diabesità” (così la
chiama il ministero) “è la prima epidemia
del terzo milennio”. Pur non volendo
togliere nulla alla sorprendente capacità
retorica con cui Livia Turco e
Giovanna Melandri riescono a spiegare
che gli obesi in Italia sono 4 milioni e
contemporaneamente sono anche il 10
per cento degli italiani (cioè poco meno
di 6 milioni) è davvero strano che negli
stessi anni in cui il tasso di obesità dovrebbe
essersi gonfiato del 45-60 per
cento, l’incidenza del diabete di tipo 2
(cioè il diabete più diffuso) in Italia è
però aumentata solo dello 0,4 per cento.
Il professor Steve Blair, docente di
Epidemiologia e biostatistica all’Università
del South Carolina, ha una sua teoria.
“Il cibo è soltanto uno dei tantissimi fattori
che può portare all’obesità, così come
l’obesità è una delle centinaia di cofattori
che possono portare a una qualsiasi
malattia. Sull’obesità più che bugie,
però, credo ci siano molti misconceptions,
errori di percezione. Non esiste alcuna
relazione tra l’essere sovrappeso e
l’essere malato. Non dimentichiamo che
il 50 per cento delle persone obese è attiva,
in forma e ha una normalissima pressione
del sangue. Io stesso ho pubblicato
dieci anni fa alcuni paper dove dimostravo
che la percentuale di morte di una
persona fit and fat è la stessa identica di
una persona fit con un peso nella norma.
Ed è altrettanto dimostrato che una delle
principali cause di morte per gli obesi
sono proprio le diete”.
Oltre ai ciccioni con il panino, un’altra
immagine molto diffusa è quella legata
ai bambini lardosi e in sovrappeso e
quindi in pericolo. Secondo il commissario
europeo alla Salute, Markos Kyprianou,
in Europa “sono 14 milioni i bambini
in questa situazione e il loro numero
cresce rapidamente di 400 mila unità
l’anno”. Il ministro della Salute, Turco, e
il ministro per le Attività giovanili, Melandri,
hanno così ricordato che in Italia
si registrano percentuali superiori al 30
per cento di bambini sovrappeso o obesi,
tra i sette e gli undici anni. La percezione
del bambino-grasso come bambino-
potenzialmente malato nasce da uno
studio in cui il professor Olshansk (docente
di Epidemiologia dell’Università
dell’Illinois) spiega che, per la prima volta
dal 1900, i bambini vivranno meno dei
genitori, proprio a colpa dell’obesità.
Peccato che ci sia una ricerca chiamata
“Nurses Study” secondo la quale i bimbi
nati tra i 19 e i 24 Bmi hanno la stessa
possibilità di morire rispetto a quelli con
un indice tra il 25,1 e il 31,9. Davvero strano,
poi, che nel 2000 le tabelle di vita degli
Stati Uniti documentassero che l’aspettativa
di vita alla nascita era del 76,9
per cento rispetto al 47 per cento del
1900. E allora, come ci si fa a fidare di ricerche
(come quelle dell’Organizzazione
mondiale della sanità) secondo le quali,
nel 2050, gli Stati Uniti e alcuni paesi del
terzo mondo potrebbero praticamente
avere la stessa irrefrenabile percentuale
di sudatissime palle di lardo?

P.s. L’autore di quest’articolo è alto 184
centimetri, pesa 80 kg, ha un Bmi di 24, non
è fit, non è fat, ma si trova soltanto un punto
al di sotto della soglia di obesità.

Claudio Cerasa

venerdì 12 gennaio 2007

Il Foglio, 30 dicembre. Giovanni, Tommaso, Grozio, Mariana. I filosofi e il tirannicidio

Roma. Uno dei riferimenti più espliciti sul vero significato del tirannicidio, cioè uno dei testi che meglio spiega se sia lecito o meno uccidere un tiranno o un dittatore, lo si ritrova nel “Commento alle sentenze” di san Tommaso d’Aquino. Il professor Aldo Vendemiati, docente di Filosofia morale nella pontificia Università Urbaniana, cita uno dei passi più significativi del testo: “Colui che allo scopo di liberare la patria uccide il tiranno viene lodato e premiato quando il tiranno stesso usurpa il potere con la forza contro il volere dei sudditi, oppure quando i sudditi sono costretti al consenso. E tutto ciò, quando non è possibile il ricorso a un’istanza superiore costituisce una lode per colui che uccide il tiranno”. Il professor Vendemiati spiega il significato di quest’ultimo passaggio. “Se il tiranno è un feudatario si può ricorrere all’imperatore per rimuoverlo. Ma se non esiste un imperatore il tiranno va ucciso”. Un pensiero che va anche oltre a quello descritto dal giusnaturalista Ugo Grozio nel “De jure belli ac pacis”. Grozio sosteneva che “un re che si dichiara apertamente nemico del suo popolo e che abdica così al suo potere, sia da combattere fino alla fine”. Esattamente un passo prima rispetto a quello che Giovanni di Salisbury diceva già nel 1159 nel suo “Policraticus”. Il filosofo inglese, ragionando sul diritto al tirannicido, diceva che “non soltanto è permesso, ma è anche equo e giusto uccidere i tiranni, poiché chi si appropria della spada merita di perire di spada” perché al contrario di un principe, “in quanto immagine della deità, il principe va amato, venerato e rispettato. Il tiranno, in quanto immagine di malvagità, il più delle volte va addirittura ucciso”. E oltre a questo, scriveva ancora Giovanni di Salisbury, “la giustizia si armerà legittimamente contro chi disarma la legge, e il potere pubblico tratterà con durezza quanti cercano di aggirarlo”. Il succo del pensiero giusnaturalista sul tirannicidio lo riassume ancora il professor Vendemiati: “Il principio fondamentale da considerare è quello della legittimità della difesa sociale che per analogia è dunque possibile considerare come se fosse una legitima difesa personale”. E, per questo, il professore cita un altro passo significativo che è il numero settantaquattro della “Gaudium et Spes” del Concilio Vaticano II: “Dove i cittadini sono oppressi da un’autorità pubblica che va al di là delle sue competenze, essi non ricusino di fare quelle cose che sono oggettivamente richieste dal bene comune e sia perciò lecito difendere i propri diritti contro gli abusi dell’autorità”.
In un altro testo molto interessante del 1415, Papa Martino V ribaltava il pensiero sul tirannicidio e per mettere in risalto ciò che è lecito spiega cosa invece lecito non era: “Non è vero che ogni suddito può uccidere lecitamente ogni tiranno e che possa fare questo senza alcuna autorizzazione, perché ciò aprirebbe le porte all’assassinio indiscriminato”. Le parole che però vengono ricordate come tra le più forti sull’argomento, sono quelle del gesuita Juan Mariana, che nel 1599 nel trattato “De rege et regis institutione” sosteneva la necessità di uccidere i tiranni in questo modo: “Riteniamo che si debbano tentare tutti i rimedi per rinsavirlo, prima di giungere a un punto estremo e gravissimo. Ma se ogni speranza fosse ormai tolta e se fossero in pericolo la salute pubblica e la sanità della religione, chi sarà tanto povero di saggezza da non ammettere che sia lecito abbattere il tiranno con il diritto, con le leggi e con le armi?”.
Claudio Cerasa

Il Foglio, 12 Gennaio. Allah nella prateria. Il successo della prima sitcom americana sull’islam, che scherza su tutto tranne che sull’islam

L’operazione simpatia per la prima sit-com islamica d’America, è cominciata giovedì scorso quando nella Yonge and Dundas Squame di Toronto, la Canadian Broadcasting Corporation (la Cbc) ha presentato la serie tv “La Piccola Moschea nella Prateria” cucinando un kebab da 136 chili e facendo sfilare, subito dopo la conferenza stampa, cinque robusti cammelli tunisini. Una delle prime scene di “Little Mosque on the Prairie” è questa. Siamo in Canada, è martedì, sono le 20.30. Amaar, uno dei protagonisti, è un musulmano, si mette in fila all’aeroporto, aspetta, ha un telefonino, lo avvicina all’orecchio, inizia a parlare. La voce è piuttosto alta, parla in inglese, dall’altra parte del telefono c’è la madre. Amaar è un imam ed ha appena scelto di andare nella piccola città di Mercy per essere la nuova guida spirituale della moschea locale. Amaar continua a parlare. “Mamma, basta, è inutile che mi fai sentire in colpa”. Pausa. “Cosa dice? Papà dice che questo è un suicidio? Ebbene, sì questo è un suicidio”. E poi “This is Allah’s plan for me”, questo è un piano di Allah per me, dice Amaar mentre una signora in fila per il check-in se ne va spaventata, sussurrando “Oh, my god”. Amaar arriva al check-in, spegne il telefonino, infila la mano nella giacca, gli si avvicina un poliziotto, gli blocca un braccio ed eroico gli fa: “Stai lontano da quella valigia, tu non andrai in paradiso, almeno per oggi”.

Due milioni di telespettatori al debutto
La Piccola Moschea nella Prateria è la prima sitcom nordamericana a raccontare, in America, cosa significa vivere in una qualsiasi famiglia islamica, in qualsiasi paesino canadese, in un periodo – però – volutamente non qualsiasi, che è ovviamente quello successivo all’11 settembre. L’esordio della sitcom è stato davvero notevole e con 2,1 milioni di telespettatori “Little Mosque” ha realizzato il record assoluto di telespettatori per un debutto di tv in Canada. L’idea della sitcom dovrebbe essere molto semplice, e cioè far successo per la prima volta in America con una serie tv che parla di islam e che scherza con l’islam. Ma le cose non stanno esattamente così. L’operazione simpatia costruita attorno alla sitcom canadese è stata principalmente curata da una delle produttrici della serie, la musulmana Nawaz Zarqa della casa di produzione “Fun-damentalist films”, che nei mesi precedenti alla preparazione della “Little Mosque” ha volutamente giocato sull’ambiguità del suo progetto, parlando di quanto gli islamici siano discriminati, di come gli islamici non sono come sembrano, di quanto i muslim non sono solo quelli che erano sugli aerei l’11 settembre, e che i musulmani non sono solo moschea, preghiera, casa, moschea, preghiera casa. Nawaz Zarqa ha presentato “Little Mosque” come una commedia ironica, leggera, intelligente, colta e non banale, spiegando che anche i musulmani devono ridere dei musulmani e che anche i non musulmani devono ridere dei musulmani. Sembrava davvero perfetto e sembrava che davvero, finalmente, ci fosse qualche musulmano che avesse il coraggio di ridere su di sé, sui terroristi, sul fondamentalismo e sul Corano. Ma la “Little Mosque” non sembra aver granché intenzione di far sorridere sullo stile di vita musulmano. “Little Mosque on the Prairie” – che si rifa nel titolo a “Little House on the Prairie”, cioè “La Casa nella Prateria” – vuol far sorridere con una famiglia musulmana e non su una famiglia musulmana, cosa molto diversa dal volersi prendere in giro. “Little Mosque” sembra più che altro voler spiegar per bene perché nei confronti dei musulmani esista una percezione sbagliata e un po’ qualunquista. E più che prendere in giro se stessi, al massimo, si scherza con la religione degli altri. Esempio. Un papà musulmano è in casa con la figlia. La figlia cerca di farsi bella. Si mette un top, la pancia rimane di fuori, va dal papà, il papà con un inglese arabeggiante la guarda e dice: “Figlia mia, sembri una protestante”. “Una protestante, una prostituta forse?”. “No, una protestante”. E via così.
E non è un caso che la critica più feroce arrivata su “Little Mosque” sia stata quella del presidente del “Muslim Canadian Congress” convinto che sia sbagliato rappresentare i musulmani come tutti casa-preghiera-moschea-casa, cosa che tra l’altro la sitcom non fa. E non è certo un caso che tra i due milioni di telespettatori che martedì sera sono rimasti davanti alla Cbc canadese, ci siano stati tantissimi imam particolarmente soddisfatti per aver visto una serie tv sui musulmani dove l’ironia più violenta sugli stereotipi islamici è un kebab gigante da 136 chili.
Claudio Cerasa

giovedì 4 gennaio 2007

Serra

Poteva dire: «I conti pubblici, evidentemente, non erano poi in uno stato così disastroso». Invece no: Silvio Berlusconi ha sostenuto, da par suo, di avere lasciato al centrosinistra addirittura «dei conti coi fiocchi», facendo sfoggio di quella smagliante impudenza, di quella sensazionale bugiardaggine che manda in brodo di giuggiole milioni di italiani.
«Coi fiocchi», se ci pensate bene, se riferita a un capitolo penoso e ostico come i conti pubblici, non è neanche una bugia. È molto di più, è una contraffazione totale, un ribaltamento di mondi, è la sostituzione della realtà (in blocco) con la fiction. È come se, al ristorante, uno ti scodellasse sul piatto una merda fumante e ti dicesse, con il migliore dei sorrisi, «guardi qui che meraviglia, signore!». Tu non riesci neanche ad arrabbiarti. Neanche a reagire. Neanche a difenderti. Semplicemente rimani sbigottito, poi ti guardi in giro cercando conforto in qualche vicino di tavolo. Ma se il tuo vicino di tavolo è berlusconiano, non sperare che ti dica che quella che hai davanti è una merda. Tra la tua espressione mesta e il sorriso contagioso di Silvio, ha già scelto Silvio. Ammesso che quella sia una merda, è una merda coi fiocchi.