L’encantado, l’all inclusive e il diffidente. Tre modi diversi di vivere all’Havana la libertà caparbiamente garantita da Fidel Castro al suo popolo felice e sconosciuto
A parte il clima, Cuba non riserva altri
ostacoli ai suoi visitatori. Certo,
sono consigliabili un certo spirito “di
adattamento”, un po’ di “creatività”, un
po’ di “buon umore” e un po’ di “sano
senso dell’avventura”. Noi, nelle nostre
guide turistiche, amiamo scrivere che
l’avventura più grande è “volare seguendo
il proprio istinto” e con un po’ di astuzia,
e un certo grado di elasticità, sarete
comunque in grado di rimanere lontani
– oltre che “dall’ostile vicino settentrionale”
– anche dagli esosi pagamenti con
carta di credito e dalle carissime stanze
d’albergo presenti nell’isola del “caparbio”
e sempre “combattivo” Fidel Castro.
Avrete, non ne dubitiamo, certamente
ascoltato in riferimento a questo
“arcipelago di innumerevoli piccoli paradisi”
(come suggerito nelle splendide
pagine di “Melodia Cubana” di Erik Orsenna)
che in fondo, secondo alcuni “osservatori
occidentali”, per Cuba la faccenda
dei “diritti umani” è una questione
che noi definiremmo così: “Spinosa”.
Ma fate attenzione: tra gli “allegri, cortesi,
generosi, calorosi e non inclini all’ira”
cubani, non si verificano “sparizioni” nel
cuore della notte, né pratiche di tortura
istituzionalizzata. Sia chiaro: questa Cuba,
questo “paradiso” (con il suo leader
combattivo), nulla ha a che fare con “il
presidente-fantoccio della mafia”, Batista.
Ed è per questo che per comprendere
fino in fondo “l’atteggiamento di Cuba”
verso la “tutela dei diritti umani”
conviene considerare “il problema” “calandosi
nel contesto”. Sì, nel contesto.
Ecco, lo sapevate? L’ideologia socialista
tende a “privilegiare il senso del dovere
rispetto alle libertà individuali” e privilegia,
perdonate la ripetizione, necessità
fondamentali come “assistenza sanitaria,
istruzione e alloggio gratuiti”, “rispetto
al diritto di possedere un Suv”. Voi tutti
sapete cos’è un Suv, naturalmente. E voi
tutti sapete, in secondo luogo, che dopo
“quarantacinque anni di sabotaggi, spionaggi
e falliti complotti da parte dell’aggressivo
e del sempre più potente vicino
statunitense”, Cuba si è vista costretta “a
promuovere una mentalità analoga alla
solidarietà che unisce gli assediati”. Proprio
così, “assediati”. E’ vero, criticare il
governo è un reato grave – e severamente
punito, lo ammettiamo – che comporta
certamente “difficoltà” nel trovare lavoro
e comporta l’onore di trovarsi di
fronte, oltre a “piccoli soprusi”, a una
sorta di “ostracismo sociale”. E’ vero,
dopo che nell’aprile di due anni fa Cuba
decise di non collaborare in alcun modo
con le Nazioni Unite per “indagare le
violazioni dei diritti umani nell’isola”,
in questo arcipelago di “innumerevoli
piccoli paradisi” – qualche anno dopo
quell’aprile – il “governo” proclamò la
condanna a morte di un gruppo di dirottatori
che si era impadronito di un’imbarcazione
per tentare di raggiungere la
Florida. Ma fate attenzione, non fatevi
cogliere in fallo; perché per considerare
il problema sotto una luce più “chiara”,
basterà “guardare quel che accade al di
là del filo spinato nella base navale di
Guantanamo”, dove “proprio sotto gli occhi
di una comunità internazionale pressoché
impotente, paradossalmente gli
Stati Uniti continuano a perpetrare non
poche violazioni dei diritti umani”; ed è
un particolare di non poco conto valutare
la storia di Cuba come una storia fatta
di “subdoli interventi americani nell’Isola”.
Vale la pena ricordare, se consentite
– gentili visitatori – , che oltre all’operazione
Mangusta e oltre a quella
che, come la chiamate? Disfatta? Sconfitta?
Umiliazione? Sì, avete capito: oltre
allo sbarco alla Baia dei Porci, le diverse
leggi statunitensi succedutesi dopo la
vittoria della revoloción – viva la revolución!
– sono state “altrettanti giri di vite
intesi a rendere via via più grave l’embargo
statunitense, che dura ormai da 45
anni”. E nel nuovo millennio – cari lettori,
gentili turisti – “dimostrando di non
aver imparato nulla dagli errori dei suoi
predecessori”, il governo Bush “ha ricominciato
a far roteare le pistole nel novembre
del 2000”. E promettendo di usare
“mano pesante contro le pretese violazioni
dei diritti umani a Cuba”, “la retorica
di George W. Bush ha assunto toni
velenosi dopo l’11 settembre, quando il
presidente cominciò ad accostare il regime
di Castro a quelli della Corea del
nord e dell’Iraq”; (“Tanto che la linea
politica ‘dell’ostile vicino settentrionale’
è di nuovo simile a quella degli anni
peggiori della Guerra fredda”). “Roteare
le pistole”, proprio così. Ma nonostante
tutto, il “caparbio” Fidel è riuscito –
insieme con “l’imprevedibile” fratello
maggiore, Raul – a far sì che la situazione
sia visibilmente e incomparabilmente
migliorata, tanto che – va riconosciuto
– “la recente mini ripresa economica”
ha svolto un ruolo importante nel “promuovere
la nuova alleanza politica tra
Cuba e il Venezuela”. Magnifico, no?
E’ per questo che, come detto, a parte
il clima, Cuba non riserva “altri ostacoli
ai suoi visitatori”; è per questo, come ci
piace scrivere nelle nostre pagine, che
Cuba (il cui modello “purtroppo non risultò
trasferibile alla realtà boliviana”)
continua a essere uno dei “rari paesi al
mondo dove l’idea di esibire un formale
rispetto di fronte a persone appartenenti
a una classe più elevata è praticamente
inesistente”; cioè: i Suv proprio non ci
sono, ma forse questo lo abbiamo già detto.
E questo tipo di discorso vale ancor di
più oggi, anno 2007, un mese dopo l’ottantunesimo
compleanno del compagno Fidel,
circa un mese prima il quarantesimo
anniversario della morte del comandante
“Che” Guevara (ucciso il 7 ottobre
1967) e quasi cinquanta anni dopo l’inizio
della guerriglia cubana. E dunque, gentili
lettori, gentilissimi visitatori, qualsiasi
tipologia di turista voi siate, partite
con un “atteggiamento aperto”. Lasciate
a casa qualsiasi idea “preconcetta” possiate
avere su Castro, sul “Che” e sul comunismo
e non dimenticatevi mai di
quel che succede “al di là del filo spinato”
con l’“ostile vicino settentrionale” e
l’impotente comunità internazionale.
Benvenuti a Cuba; e grazie di aver
scelto le guide Lonely Planet: i “virgolettati”
sono tutti suoi.
* * *
Turista comandante guerrigliero. Dopo
aver sigillato dentro un panno equo e solidale
l’intera collezione degli introvabili
libri di Gianni Minà (“Politicamente
scorretto”, “Un mondo migliore è possibile”,
“Fidel Castro”, “Il Papa e Fidel”,
“Un continente desaparecido”, che non
ha ancora finito), appoggiandoli in una
coloratissima borsa peruviana insieme
con il dentifricio, la carta igienica, il sapone,
l’aspirina, il filo interdentale, l’insetticida,
la crema emulsione corpo (viso
e super viso), la crema restitutiva mani,
la crema restitutiva labbra e una dozzina
di altre creme idratanti (“Non capisco tesoro,
perché non mi sono abbronzata?”)
– il turista-guerrigliero-comandante-
“Che”-Guevara – che ha letto tutte le sedici
edizioni dei libri sulla Casta – arriva
all’Havana e vuole scoprire la verità. E
la vuole scoprire parlando con i cubani
(“che stanno tutti bene”), con le guide turistiche,
con i tassinari, con i benzinai e
con i camerieri. Tutto bene, qui a Cuba:
a parte il clima, non ci sono ostacoli. Il
turista-guerrigliero-comandante- “Che”-
Guevara è vestito con un cappellino nero
(con stella rossa), indossa un paio di
scarpe con il baffo (un po’ troppo global),
veste con una felpa Carhartt, beve molta
Coca Cola, non ha ancora tatuaggi, ha un
orecchino sulla cartilagine dell’orecchio
sinistro, odia l’America, non voterà Veltroni,
va pazzo per Deaglio, non si perde
un libro di Chomsky, non ama Bertinotti,
non sapeva che Raul (Castro) arrivasse
ad Orbetello in elicottero (per giocare a
golf) e non sapeva che il Pd, nel suo interessante
Pantheon democratico, insieme
con don Milani (in quota Walter), con
Gramsci (in quota Reichlin), con Craxi
(in quota Fassino) avesse selezionato anche
il comandante-guerrigliero-Ernesto-
“Che”-Guevara (in quota festa dell’Unità
Bologna Arena Parco Nord).
Il turista-guerrigliero-comandante-
“Che”-Guevara dice che il “Che” (in quota
Arena Parco Nord) è il vero eroe, il vero
mito, il vero rivoluzionario; ci rimane
un po’ male quando scopre che il “barbudo”
Ernesto, oltre a essere comandante
e oltre a essere guerrigliero, è stato
anche el ministro dell’Industria (proprio
come Prodi), nonché el presidente della
Banca National cubana, (proprio come
Draghi). Il turista guerrigliero dice che
Cuba è un paradiso, dice che è un arcipelago
di meraviglie, dice che i poveri,
qui, hanno molta dignità e dice che però,
all’Havana, i cubani, in fondo hanno tutto:
hanno la scuola (gratis), la sanità (per
tutti) e l’autostop di stato (altro che Italia:
qui se non ti fermi, se non carichi l’autostoppista
rischi di passare guai: l’autostop
è obbligatorio. Capite?); e poi, ancora,
dice che Batista era un mafioso, dice
che Fidel Castro è un coraggioso e dice
che no, non è un tiranno, non è un dittatore,
ed è chiaro che se davvero lo fosse,
non sarebbe ancora lì fermo, caparbio,
da quasi 50 anni; perché i regimi non
vanno toccati, non vanno cacciati e dice
che – semmai – vanno soltanto ascoltati.
Perché il vero “male” non è il coraggioso
Fidel e non è neanche il caparbio
Saddam: il dittatore, il vero terrorista è
il nemico imperialista. Cioè l’America;
non Fidel e neppure Saddam. E per questo,
crede che il “Che” sia un mito per i
suoi diari della motocicletta, per il potere
lasciato quando ormai lo aveva raggiunto
(dopo pochi anni di ministero,
Guevara andò in Congo) e per tutto quello
che ha fatto prima e tutto quello che
ha fatto dopo. Per le idee, le parole, per
le foto, per i libri, non tanto per la battaglia
della revolución. Il turista guerrigliero,
che ha viaggiato molto e che ha
già rivoluzionariamente attraversato un
paio di volte il Vietnam, la Russia, la Polonia,
l’Ungheria, la Cina, la Corea, dice
che a Cuba non c’è alcun problema, nessun
ostacolo, nessuna ostruzione: perché
non c’è proprietà privata, perché non c’è
concorrenza, perché i capitali stranieri
non arrivano e non finanziano, e perché
qui aerei, telefoni e acqua, senza tanti
problemi, rimarrebbero sempre rivoluzionariamente
nazionali; e per questo
qui si troverebbero bene i suoi Di Pietro
(nel senso di Tonino), i suoi Rizzo (nel
senso di Marco) e i suoi Grillo (nel senso
di Beppe); e per questo che qui non c’è
nessun problema, per bacco: da Cuba si
può evadere, da Cuba certo si può anche
scappare e il problema non è Fidel e
non è la revolución, il problema è il denaro
(maledetto denaro); perché se ci
fosse un invito dall’estero e se ci fosse
un passaporto, chiunque potrebbe scappare
o meglio, diciamo bene: chiunque
potrebbe “emigrare”. E perché è vero,
un tempo per scappare – cioè: per emigrare
– c’erano tanti modi: prendevi un
aereo per Mosca, lo prendevi senza
aver bisogno né di un visto né di un invito
e poi, arrivato in Spagna, allo scalo
di Madrid, tu scendevi e poi lì ti fermavi.
E prima, quando ancora il muro a
Berlino era tirato su, si faceva sempre
più o meno così; poi però quello scalo
stranamente è stato eliminato e ora, per
andar via, c’è il motoscafo e c’è l’invito
che deve arrivare dall’estero. E dunque
chiunque può andar via, chiunque può
partire, anche se poi ogni tanto qualcuno
sul motoscafo viene preso e fucilato.
Ma in fondo qui nessuno è mai scappato,
al massimo – ripetete – qui c’è qualcuno
che sarà “emigrato”.
E in fondo è meglio così. Meglio saperlo
che qui, sotto sotto, forse tanto liberi
non lo si è; ma va bene: vuoi mettere
con l’America, con “l’ostile vicino settentrionale”,
dove ti dicono che tu sei libero
e in realtà, poi, non lo sei affatto?
Vuoi mettere la verità con l’illusione?
Vuoi mettere non riservare altri ostacoli
ai tuoi visitatori? Perché Cuba è una
piccola Stalingrado (Iacopo Venier, responsabile
politiche internazionali dei
Comunisti italiani, 2 giugno 2005), perché
non ha mai mollato, non si è mai fermata,
non si è mai rassegnata e perché
in fondo lo diceva anche Henry Truman,
diceva che “He seems to want to do the
right thing for the cuban people”, diceva
che, forse, questa per Cuba era la giusta
strada e che, sotto sotto, magari lo pensava
davvero che Cuba non era un regime
e che Castro non era un dittatore. E
il turista guerrigliero ci crede, ci crede
eccome. Perché se non fosse così allora
spiegateci perché – un anno fa – Cuba è
diventata un magnifico membro della
commissione dell’Onu sui diritti umani;
e diteci se non è vero che le sanzioni, in
fondo, Cuba l’hanno rafforzata, non indebolita;
perché se Cuba fosse occupata,
se Cuba non fosse libera, come potrebbe
un ditattore resistere così? Come potrebbe
essere così amato? E poi: come
farebbe un tiranno a essere esaltato, o
meglio: a essere proprio premiato “for
his exceptional merits and his work in
favor of the Cuban press”? Come farebbe
un tiranno a essere celebrato dalla
Cuban Journalists Union per il suo grande,
rivoluzionario e caparbio lavoro per
la stampa libera? Premio consegnato a
Castro il 14 agosto del 2007, ma già qualche
settimana prima – a febbraio – la Corea
del nord aveva dato spettacolo assegnando
“per il suo progressivo impegno
per l’umanità del paese”, the “International
Kim Il Sung Prize” al caparbio
Kim Jong Il, “presidente perpetuo” della
Corea del nord). E ha ragione Repubblica,
ha ragione Franco Marcoaldi
quando nei suoi brillantissimi e recentissimi
reportage in terra cubana citava
Alejo Carpentier e spiegava che “questo
è il regno dove reale e meraviglioso si
sposano”, il regno dove “tutto è possibile”
e dove, certo, nel 2002 i 609 candidati
all’Assemblea nazionale erano stati
tutti scelti dal regime, dove in prigione
ci sono ancora centinaia di prigionieri
di coscienza (accusati cioè di “disseminare
la propaganda del nemico”); ma in
fondo, siamo seri: Fidel, se non fosse
amato, non sarebbe davvero così acclamato.
Ed è per questo che il turistaguerrigliero-
comandante-“Che” Guevara,
quando guarda le pareti dell’aeroporto
di Varadero, quando contempla i
muri dell’Havana e quando legge i nomi
di Gerardo Hernández, Ramón Labañino,
Antonio Guerrero, René González e
Fernando González, cioè “the five”, i
cinque cubani accusati di “terrorismo”
dal Dipartimento di stato americano, si
commuove – encantado – e si ferma lì e
dice che quella è la casta, quello è il nemico,
quello è l’impero; e invece guardate,
guardate sui muri: eccoli qui, sono
loro i nostri eroi.
Da motel più che da hotel. Scende dall’aereo
con una lunga camicia verde fiorata,
con un paio di pantaloni gialli –
molto lucidi – con una coppia di lenti nere,
arrotondate, con il vetro a specchio,
la montatura pesante, con una bandana
blu legata al polso destro e con una borsetta
di plastica bianca appesa al collo,
dove il turista all inclusive – da motel
più che da hotel – inserisce uno a fianco
all’altro i fogli dell’assicurazione, i voucher
di prenotazione e il programma
dell’escursione dell’albergo a dieci minuti
di navetta dalla spiaggia, a un’ora e
mezza dall’aeroporto e a cinque minuti
da Varadero, dove il turista all inclusive
– che arriva a Cuba un po’ per tutto: per
guardare, per sognare, ma soprattutto
per scopare – di fronte all’hotel (con aria
condizionata, asciugacapelli, servizi privati,
balcone, ascensore, anfiteatro, due
sale riunioni, animazione, miniclub,
area giochi per bambini, specialità internazionali,
piatti tipici locali, piscina
con lettini, ombrelloni e teli da mare –
in uso gratuito –, fitness, palestra, campi
da tennis, squash, calcetto, un diving
center convenzionato per tutti i nostri
clienti, una cassetta di sicurezza e un frigobar
con una bottiglia di acqua, una
birra e una bibita rinfrescante all’arrivo
inclusa e le restanti consumazioni non
inclusive) al posto della foto del “Che” o
della foto di Fidel, troverà un’insegna
un po’ particolare: di per sé rivoluzionaria
ma forse non proprio guerrigliera.
Ecco, la vedremo.
Il turista all inclusive – più da motel
che da hotel – dopo essersi pettinato,
cambiato e profumato e dopo essere sceso
nella hall con gli occhiali, il fiorato, in
sandali e in marsupio, inizia a farsi delle
domande. Cioè, ma qui come funziona?
Come si fa per trovarle? Si va per
strada? Arrivano in camera? Si chiedono
alla reception? Si ordinano al telefono?
Sono all inclusive?
No, naturalmente.
Il turista all inclusive da motel scopre
che quelle ragazze arrivano al bar (“mi
offri una birra?”), scopre che arrivano al
ristorante, scopre che arrivano di fronte
ai disco pub, scopre che arrivano dietro
ai mercatini e scopre che arrivano in acqua,
a due metri dalla spiaggia a dieci
minuti dall’hotel, dove – il venerdì, solitamente
– mentre il turista nuota e mentre
già parla con i pesci e già chiacchiera
con i calamari e già si immagina in
acquagym, si volta, si gira e vede alcuni
signori con la pelle scura scura, con gli
occhiali da sole finto-Gucci, che si avvicinano
e dicono scusa, amigo, sei italiano?
Sei romano? Un sigarillo? Un po’ di
caffè? Vuoi un po’ di tabacco? Un po’ di
donne? E tu: Quanto costa? A che ora è?
Il turista all’inclusive, che legge molte
guide, che fa le escursioni con i delfini,
che affitta i catamarani, che fotografa
le iguane e che passa i pomeriggi a
spellarsi i polpacci, è – come dire – un
po’ a metà tra i baffi del Marlon Brando
del “Padrino” e la pianola del Jerry
Calà di “Professione vacanze”. E il turista
più da motel che da hotel, si riconosce
così; il primo ha i capelli lisci lisci tirati
all’indietro, i baffi sottili, con i primi
quattro bottoni della camicia aperti a favore
di vento; ha tra i 45 e i 60 anni, la
mattina veste con mimetiche camicette
fiorate, con i pantaloni con rigidissima
piega al centro, con le “Crocs” tra il giallo
e il fucsia e con orologio appena acquistato
(era “da giovane”) incontra la
signorina al bar, le offre una birra, la invita
a cena, la porta all’Havana e le offre
un prosecco in hotel, perché poi, due
piani più su, c’è la camera con lo spumante
già prenotata.
Poi c’è l’altro; c’è il turista professione
vacanze che non suona più la pianola,
che non suona la tastiera, che veste
con una magliettina Hard Rock Cafè
Brindisi, con un paio di pantaloni acetati,
un paio di scarpe rosa; rosa come i
pantaloni e rosa come la maglietta; ha le
gambe completamente depilate, a marzo
era già molto molto abbronzato, gira
con un orgoglioso costumino nero, proprio
stretto stretto, e in spiaggia non
ama sentirsi dire “nudista”; però, a lui –
lì – “l’arietta” gli piace proprio tanto.
Il turista all inclusive un po’ Brando e
un po’ Calà sa che prima non era così: sa
che prima del 1989 a Cuba il turista quasi
non entrava e il capitalista così tanto
non passava; e sa che prima, quando c’era
il Muro e quando ancora da Mosca
qualche soldo arrivava, lì allora il turismo
– quello da motel più che da hotel –
proprio non esisteva. Poi però cade il
Muro, arriva il 1990 e, caparbiamente, il
regime – non meno ostico dell’ostile alleato
settentrionale – prende un fotografo,
prende un computer, fa una foto,
ne fa due, inquadra una palmetta alta
alta che lancia la sua ombra sul mare
bianco bianco su cui miracolosamente
passeggiano due lunghissime gambe
supportate da un bellissimo bacino gentilmente
offerto a favore di camera. E allora
quando il turista anni Novanta sfogliava
il catalogo dell’agenzia di viaggio,
tra le piramidi d’Egitto, i cammelli tunisini
e i dromedari marocchini, lui sceglieva
la palmetta e andava a Cuba dove,
invece che i cammelli o le piramidi, cercava
il gentilmente offerto a favore di
camera. E il turista all inclusive sa che
ora è tutto cambiato, che ora in agenzia,
accanto a cammelli, dromedari e piramidi,
ci sono le Chevrolet di Trinidad (a
due ore da l’Havana), il mausoleo del
“Che” (nella città di Santa Clara) e i sigarilli
dell’Havana. Però, la suggestione
del motel un po’ diciamo che è rimasta.
Il turista all inclusive, che prende fiato
dalle fatiche notturne con la salsa, la
samba e un po’ di animazione (e che per
meglio apprezzare la cucina tipicamente
cubana si limita a sedici crocchette a
colazione, servite con omelette, un pesce
spada affumicato, servito con salsa barbecue,
una porzione di frutta al gusto di
mango, servita con caramello, una digestiva
pasta alla bolognese, condita con
ketchup), arriva a Cuba e sa che in fondo,
lì con la storia del motel, è come andarsi
a fare una cannetta ad Amsterdam;
è come andarsi a fare una tirata in
Olanda. Perché. Perché sa che la prostituzione
a Cuba non è certo legalizzata,
ma sì, in fondo è un po’ come se lo fosse.
Ed è vero, lui potrebbe andare a cercare
quelle signorine anche a Roma, sulla
Salaria, o a Milano, a via Antonio da Recanate.
Però a Cuba è diverso; e non solo
per i depliant. Perché il turista da motel
più che da hotel pensa che con quella
birra offerta, con quella cena scroccata,
sotto sotto lui, davvero, non l’ha mica
comprata e che – sì, è vero – un po’ forse
l’ha pagata ma dai, vuoi dirmi che lei, in
fondo, non ci sarebbe ugualmente stata?
Come si dice in latino? La prima regola
del turista dissidente e molto diffidente
che arriva a Cuba con un charter, con
sei trolley, con le ciabatte a stelle e strisce,
il cappellino New York Yankees, la
maglietta New York Police Department
e senza collane etniche e senza orecchini
infilati negli zigomi, è una; ed è quella
di stare attento, di non farsi incantare,
di dire sempre “sì, però”, di dire che
lui sì va a Cuba, però troppi soldi al “regime”
non li vuole proprio lasciare; perché
il suo, in fondo, è solo un caso particolare;
sì: è vero, il turista diffidente ha
pagato per andare a Cuba, ha pagato per
vedere il regime ma lui l’ha fatto non
per adorare e neppure per scopare, l’ha
fatto solo per studiare questi ultimi anni
di isola ormai non più così altamente
Fidelizzata. E la chiama così, la chiama
la Gardaland del comunismo, dice che
ormai tutto è finito, che tutto è andato,
che tutto ora è davvero finto: perché ci
saranno anche le guide turistiche vestite
di verde, con cartellina informativa e
con cappellino d’ordinanza, che ti dicono
e ti ripetono a memoria le “ultime
parole prima di partire” del “Che” (come
si dice guida in latino?); è vero che la
guida ti dice che “noi amiamo Cuba”,
che “noi non vogliamo diventare americani”
che qui “è un piccolo paradiso” e
che quindi “viva Fidel”, “viva il ‘Che’”,
“viva la revolución!”. E allora, il turista
diffidente si accorge di alcune cose; si
accorge di quel tic delle guide che quando
dicono “revolución”, non dicono l’arrivo
(della revolución) o l’inizio (della revolución):
dicono sempre “el triunfo”,
della revolución; allora lì, il turista dissidente
capisce la contraddizione e capisce
che se quel paese che combatte
contro la proprietà privata, contro il capitalismo
e contro “l’ostile vicino settentrionale”
(scrive esattamente così la caparbia
“Lonely Planet) vive, magari sopravvive,
con i soldi del capitalista canadese,
italiano o nordamericano, vuol dire
che tutto è finito, che tutto è andato,
che tutto ora è davvero finto.
Il turista dissidente è però molto silenzioso:
perché legge, perché studia, perché
si informa, dice; e perché lui, che legge,
che studia e che si informa, sa che Cuba
è uno degli ultimi paesi (al mondo) ad
aver avuto in carcere i famosi “prigionieri
di coscienza”, sa che per “coscienza” si
intende chi non ha mai fatto uso di forza
o di violenza, e quindi lui sta lì e osserva,
non parla e si dispera perché non trova
mai “campo”, e perché non capisce il
“Che” e la storia di Guevara. E lo spiega,
si fa delle domande, si dà delle risposte,
dice che se dieci anni fa, nel trentesimo
anniversario della morte del “Che” sono
state miracolosamente ritrovate le sue
spoglie, chissà quest’anno – che di anni
ne sono passati non trenta, ma quaranta
– cosa troverà, il generoso compagno Fidel.
E poi ci pensa e lo dice; lui ne è convinto
che in fondo gli altri sbagliano, perché
a Cuba, il vero “Che”, non è quello
dei diari, non è quello della motocicletta
ma è quello del “triunfo” e della revolución,
quello fotografato da Peter Korda,
quello che partì dal Messico con Raul
(che poi lo presentò a Fidel); quello che
arrivò sulla Sierra Maestra e quello che
vinse la battaglia di Santa Clara; e allora,
il turista dissidente, capisce, o almeno
crede, che ci sia un inganno. E il turista
dissidente, che legge New Republic e
compra il Wall Street Journal, pensa che
in fondo in fondo, tra il Garibaldi dei
“Mille” e il “Che” di Santa Clara, non c’è
proprio nessun confronto. Lui, il “Che”,
vinse soltanto una battaglia, l’altro, invece,
conquistò da solo quasi tutta l’Italia.E
allora il turista, sempre dissidente ma a
questo piuttosto, oltre che diffidente anche
parecchio incazzato, dice che non è
vero che il “Che” non avrebbe mai fatto
del male a qualcuno e non è vero che il
“Che” non avrebbe mai minacciato nessuno.
Perché era lui stesso a dire di volere
10, 100, 1000 Vietnam per l’America;
era lui che, parlando di un contadino che
si era arreso, diceva che “Ho risolto il
problema con una calibro 32, nella parte
destra del cervello… ciò che apparteneva
a lui ora è mio”; era lui ad aver inventato
“il labor camp system” cubano, era
lui il direttore del carcere di San Carlos
de La Cabaña ed era lui che lì, alla Cabaña,
nei primi sei mesi del 1959 (l’anno
della revolución) giustiziò centinaia di
uomini; era lui, il comandante Ernesto,
che parlava di martirio, che voleva che i
suoi uomini diventassero “cold-blooded
killing machine” (macchine da guerra
spietate) e che, prima di essere ucciso in
Bolivia, diceva che in fondo l’Urss era un
paese un po’ capitalista e un po’ imperialista
(in un articolo comparso sulla rivista
Slate il 24 settembre del 2004, il giornalista
liberal Paul Berman scrive che il
“Che was a totalitarian” e che il Che “was
an enemy of freedom”). Ma poi lui, in fondo,
il turista dissidente che va a Cuba silenzioso
e non ama Che Guevara (e che
non ricorda nessuna manifestazione di
dissenso sugli 80 milioni di dollari offerti
da Bush a Cuba e che non ricorda grandi
articoli sui giornali quando l’unica vera
forma di opposizione cubana venne
soppressa e i suoi componenti arrestati
nel 2003 – il movimento era il “Varala
Project”), poi si ferma, ci pensa e non capisce
e dice che, forse, qui da qualche
parte c’è un errore. Perché legge che era
proprio il “Che” a scrivere, non moltissimi
anni fa, che pensava che se ci sarà un
uomo sulla faccia della terra incatenato,
nessun uomo potrà mai sentirsi libero e
che poi era lo stesso Fidel, quando con il
suo movimento del 26 Julio venne intervistato
dal New York Times (era il 24 febbraio
del 1957 e il giornalista Herbert
Matthews scrisse che Fidel “è il nuovo
“Bolìvar”, “il Lincoln dei Caraibi”, “un
Robin Hood latinoamericano”), ecco, era
proprio lui a dire che “perché ci sia pace
è necessario vi sia giustizia; perché ci sia
pace è necessario che i diritti siano garantiti;
perché ci sia pace è necessaria la
libertà e che perché ci sia pace servono
elezioni veramente libere, democratiche
e imparziali”; è lì che il turista dissidente
capisce che si parla di “Batista” ma capisce
anche che, in realtà, sembra che si
parli proprio di Fidel.
Libertà. Giustizia. Diritti.
Ed è anche per questo che il turista
diffidente che va a Cuba che studia e
che legge, si sente in un qualcosa di paragonabile
solo a un terribile parcogiochi:
con i personaggi al loro posto, con
le magliette autografate, con i guerriglieri
sui cappellini e con i barbudos
(così si chiamavano i guerriglieri) ricamati
sulle mutande nere; e allora scopre
che le ultime stelline rivoluzionarie
non sono quelle della bandiera e non
sono quelle del guerrigliero, ma sono
quelle stampate sui depliant degli alberghi
di Varadero; negli alberghi con
le palme, le piscine e il frigobar in salotto,
dove il turista dissidente scopre che,
accanto ai libri del “Che” e alle foto con
Fidel, non ci sono più saggi né su Marx,
né su Lenin, né Stalin, ma ci sono alcuni
sovversivi neon e c’è una sovversiva
insegna gialla, bianca e nera, con tre
strisce e con decine e decine di turisti
in fila fermi lì, di fronte a un ingresso
un po’ particolare; che non è un mausoleo,
è solo un caparbio Adidas point.
Claudio Cerasa
01/09/07
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento