La lagna sui privilegi e sui voli di linea è un grande equivoco che va dall’Eliseo a Ceppaloni
E’ un lamento continuo di politici (con promesse alla Romano Prodi: prenderemo i voli di stato soltanto se non ci sono quelli di linea), è un delirio di proteste di blogger, editorialisti, corsivisti, portavoce, capigruppo, capipopolo, conduttori e sindacalisti anticapitalisti; tutti garbatamente terrorizzati da una parola di cinque lettere passata nel giro di pochi noiosissimi mesi dall’essere associata agli slip di una magnifica francesina di nome Laetitia alle eleganti bretelle di un qualsiasi ministro o di un qualsiasi sottosegretario di via del Plebiscito. E allora sì, diciamo basta a tutto; ai politici che vanno in aereo di stato, ai barbieri a metà prezzo, agli alberghi d’oro, alle consulenze d’argento, agli stipendi di platino e ripetiamo ad alta voce: casta, casta, casta, casta. E certo, si dice casta e si immaginano i rubinetti d’oro nelle case di Ceppaloni o gli acquari dei viceministri popolati da consulenti che nuotano assieme ai piranha e ai contribuenti; poi però si dice casta e in realtà si pensa ad altro; si pensa ai privilegi, si pensa all’insopportabile splendore del lusso e si pensa che, in fondo in fondo, anche i ricchi – seppure eletti e non certo sorteggiati – è giusto che ogni tanto piangano, almeno un po’. Ed è terribile che sia così; perché un conto è l’eccesso, un altro conto è il lusso, o magari la ricchezza. Perché il problema non è la “casta”, il problema – se vogliamo – è che la “casta” non ha il coraggio di rivendicare il proprio diritto al privilegio e non riesce a dimostrare che vivere nel lusso – e governare nel lusso, naturalmente – non significa guidare un paese contromano investendo un pedone sulle strisce dopo essere passati con il rosso e con il dito medio fuori dal finestrino. Semplicemente non c’è nulla di male, ed è anche comprensibile; se non si esagera. Perché il lusso è bello, e potrebbe anche essere scandalosamente calzato con scollature sfrontate se solo si riuscisse a giustificarlo, a rivendicarlo e magari, poi, pure a valorizzarlo. E sarebbe senz’altro magnifico poter vedere Prodi parcheggiare di fronte a Palazzo Chigi in Ferrari, o ammirare D’Alema salire sul suo Ikarus con le Crocs tempestate di diamanti o vedere Veltroni filmare autografi sulle sue sceneggiature con una MontBlanc di cristallo; sarebbe bello vedere tutto questo sapendo, però, che in qualsiasi momento, la casta, anche immersa nel caviale, è in grado di farsi amare premendo sempre il bottone giusto e facendo la scelta (politica) sempre più appropriata. E’ per questo che Sarkozy può permettersi di trascorrere magnifici weekend nelle ville più scandalose del mondo, con gli imprenditori più abbronzati dell’Atlantico, con le donne più belle del suo regno, e poi – con gran classe – governare sull’Eliseo in Ray Ban, sicuro che la sua autorevolezza non diminuirebbe neppure se iniziasse a firmare riforme sugli Champs-Élysées in vestaglia di seta nera. Perché il lusso è bello, ma bisogna saperlo indossare. Ed è un po’ difficile dire no grazie, che schifo il lusso; semmai, a proposito di lusso (“luxus” in latino significa proprio “eccesso”) e a proposito di casta, l’odio nazionalpopolare avrebbe più senso se invece di lanciare freccette avvelenate sulle foto di un Mastella che scende da un aereo di stato sgomitando con ministri e consiglieri (a Monza, mica a Malindi, mica a Las Vegas), forse avrebbe più senso ascoltare il filosofo francese Thierry Paquot; lui che nel suo “Éloge du luxe” (pubblicato in Italia da Castelvecchi), spiega che il vero lusso non è qualcosa che – in un modo o in un altro – chiunque potrebbe comprare.
Una ricca colazione da Tiffany
Il lusso vero, il lusso verso il quale sarebbe più che comprensibile incazzarsi, è invece quel lusso che abbraccia tre tipi di concetti: il silenzio, il tempo e lo spazio. Ed è per questo che forse sarebbe non giustificabile ma quantomeno comprensibile caricare le freccette populiste per un Veltroni o per un Fini immortalati mentre leggono un libro distesi in un pacifico ranch africano o magari giamaicano a spese del povero contribuente, più che vederli annoiati a bordo di un maledetto aereo. Quello è il lusso, mica questo. Ma se si chiede un voto per mettersi alla guida del paese, il minimo che ci si aspetti e che chi venga eletto sia in grado di utilizzare le marce fino alla sesta e di aprire e chiudere i suoi splendidi sportelloni senza darli in faccia a chi lo ha votato. Altrimenti il pretesto della casta e quello del privilegio diventano un semplice e banale sintomo della delegittimazione pubblica e politica. Perché ci vuole un po’ di classe per indossare il lusso e bisogna farlo sfrontatamente, senza imbarazzi e senza aver paura di svegliarsi la mattina e andare a fare una ricca e preziosa colazione da Tiffany.
Claudio Cerasa
26/07/06
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