martedì 13 maggio 2008

Il Foglio. "Quando fu abortito Moro. Maggio 1978, la tragedia italiana e cattolica del sacrificio di un uomo e del voto sulla 194

L’opposizione della Dc all’aborto legale era “ostacolo alla facilità di contatto con le masse e alla cooperazione. Era stato Moro il primo a piegare la testa alla “moderna coscienza pubblica”. Cronaca di un mese molto particolare

Le brigate rosse uccisero Aldo Moro con undici colpi di mitra il nove maggio di trent’anni fa, lasciando il corpo del presidente della Democrazia cristiana avvolto in un cappotto grigio dentro il cofano di una Renault 4. Era la primavera del 1978, Aldo Moro rimase prigioniero dei suoi assassini per cinquantacinque giorni e i brigatisti abbandonarono il cadavere del presidente della Dc a metà strada tra la vecchia direzione della Democrazia cristiana e quella del Partito comunista (in via Caetani). Passarono pochi giorni, i giornali continuarono a raccontare i dettagli della “strategia di annientamento” delle Br, Francesco Cossiga si dimise da Ministro degli interni, la Dc vinse le elezioni amministrative (42,7 per cento dei voti, crollo del Pci e passi in avanti del Psi) e poche ore dopo il discorso alle Camere su Aldo Moro del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il primo atto ufficiale del Parlamento fu l’approvazione della legge 194. La legge che Andreotti firmò il 18 maggio del 1978 e che dal 22 maggio del 1978 legalizzò ufficialmente l’aborto in Italia. In un clima però molto particolare. A Palazzo Madama, quel giorno ci furono centosessanta senatori che votarono a favore del testo e centoquarantotto che invece accesero le lampadine di un colore diverso. In Parlamento c’era anche Ferruccio Parri; c’era Pietro Nenni che si era appena ripreso da un collasso e che camminava a fatica poggiandosi su un bastone con la mano destra; e c’era il senatore comunista, Armando Cossutta, che durante la chiama dell’appello nominale si sbagliò, disse di no alla legge che voleva e fu applaudito dai democristiani di Palazzo Madama. Gli altri, invece, votarono tutti correttamente e la legge sull’aborto registrò così l’appoggio decisivo di questi partiti: Partito comunista, Partito socialista, Partito Socialista Democratico Italiano, Partito liberale e Partito repubblicano. Tutti, come si diceva allora, “a favore della autodeterminazione della donna”. Contro la legge, oltre al voto di Cossutta (che però poi corresse subito la sua dichiarazione) ci furono quelli della Democrazia cristiana e quelli del Movimento sociale italiano. Ma avvenne tutto in condizioni che alcuni cattolici non perdonarono ai dirigenti della Dc. Troppo transigenti, poco combattivi, poco convincenti e quasi rassegnati, si diceva.
Erano gli anni del compromesso storico e dei governi di solidarietà nazionale: a Palazzo Chigi c’era per la quarta volta Giulio Andreotti e al Quirinale Giovanni Leone. Enrico Berlinguer e Benigno Zaccagnini erano i segretari dei due principali partiti del paese, Pci e Dc; e il Partito comunista aveva votato, per prima volta, la fiducia al governo democristiano (a gennaio). E così, negli anni di piombo, negli anni in cui i cattolici e i democristiani cominciavano a viaggiare lentamente sui binari di convergenze parallele, la legge sull’aborto fu approvata in un momento utile da ricordare per capire il senso di una legge nata in uno stato commissariato dal terrore. E leggendo le cronache di quei giorni, e parlando con i senatori a vita Emilio Colombo e Giulio Andreotti (entrambi ex Dc), a trent’anni di distanza ci sono alcuni aspetti di quel maggio del 1978 che sembrano essere stati un po’ rimossi dalla memoria politica collettiva: perché la 194, il referendum, il terrorismo, Moro, il compromesso storico, gli anni di piombo, Berlinguer, Zaccagnini e Pannella sono tutte facce di una stessa medaglia senza le quali non è possibile capire come nella primavera di trent’anni fa l’Italia ebbe la sua legge sull’aborto. Condizioni particolari non solo per l’argomento trattato; ma soprattutto per gli equilibri che il Parlamento doveva mantenere in quelle ore.
Furono giorni molto intensi, quelli; e basta scandire le ore più significative di quelle settimane per capire in che clima fu approvata la legge. Il nove maggio fu ucciso Moro, il dieci maggio si dimise Cossiga, l’undici maggio a Milano le pistole di Prima Linea spararono sulla folla, il dodici maggio ci fu il funerale di Moro, il quattordici la Dc vinse le elezioni, il quindici il Pci si riunì per dodici ore per discutere della sconfitta elettoralee il diciotto maggio fu approvata la legge 194. Pochi anni dopo la votazione al Senato, Giulio Andreotti ricorderà così quelle ore: “Ebbi una crisi di coscienza e mi chiesi se dovevo firmare quella legge. Ma se io mi fossi dimesso nessun altro democristiano avrebbe potuto firmarla: si sarebbe aperta una crisi politica senza sbocco prevedibile e in un momento grave per il paese. Una crisi che avrebbe forse creato anche complicazioni internazionali. E da parte mia, con le dimissioni, avrei contribuito a un male maggiore di quello che volevo evitare. Così firmai”.
Le reazioni all’approvazione della legge sulla 194, dunque, furono la prima grande notizia italiana che trovò ampio spazio sulle agende delle redazioni dei giornali dopo la morte di Moro. Qualche esempio delle prime pagine di quei giorni è importante per comprendere l’energia con cui gli editorialisti degli anni Settanta interpretarono il senso di quella legge. Gino Concetti firmò l’articolo di fondo dell’Osservatore Romano (“La via omicida”) scrivendo così: “Oggi non si tutela la maternità, non si promuove il diritto alla vita. Si offre la spinta, si rafforza la tendenza a reprimere la vita. I crimini diventeranno quantitativamente e qualitativamente enormi. L’aborto libero e gratuito contribuirà a rendere il fenomeno della diminuzione delle nascite ancora più preoccupanti”. Sempre lo stesso giornale, in un corsivo non firmato, diede poi questa interpretazione dei ventidue articoli appena approvati. “Questa è una legge iniqua, una legge contro la vita, uno dei segni negativi del nostro tempo. E’ una legge che esprime l’egoismo, il permissivismo, la violenza cui la società non sa far fronte, che anzi asseconda e pratica. Una legge che con qualunque ideologia o sociologia resta (…) un freddo e calcolato no all’amore, una prevaricazione contro la persona, un tragico no ai più indifesi, proprio a coloro che sono nell’assoluta impossibilità di difendersi. Questa licenza di stroncare la vita umana è un esercizio della violenza che per quanto ora si compia con la protezione della legge, non perde nulla della sua estrema gravità”. Vista da sinistra, invece, e vista dalla penna di chi, come Miriam Mafai, difese e commentò a lungo l’argomento, quel giorno fu un momento elettrizzante; e ancora oggi l’editorialista di Repubblica rivendica il successo di quella legge. Mafai dice al Foglio di non avere lo spirito giusto per ricordare quegli anni perché, come ci spiega, “in quei giorni più che di aborto mi occupavo di Aldo Moro”. Ma sulla prima pagina del 19 maggio del 1978, accanto alle cinque colonne di fitto inchiostro con cui Repubblica dava notizia dei due covi scoperti delle Br e dei dieci terroristi arrestati, c’era proprio un articolo di Mafai. E c’è una chiave di lettura significativa. Secondo Mafai, la legge fu importante perché per la prima volta, tra le norme per la tutela sociale della maternità la donna non era più caratterizzata come oggetto di una decisione ma come soggetto; ed era la sola dunque a poter decidere di avviare un procedimento per l’interruzione di gravidanza. “Liberando le donne da una condizione di umiliazione, di paura – scrisse – la legge ha lo stesso peso, lo stesso valore innovativo che ebbe nel 1970 quella sul divorzio. Sia l’una che l’altra legiferano su una materia delicatissima, rinunciano a imprimere un segno ideologico alla scelta dei cittadini e proprio queste sono due leggi laiche per un paese laico; leggi che garantiscono a ognuno libertà di coscienza e di scelta”, spiegò Mafai; che nove giorni prima aveva descritto in prima pagina il cadavere di Aldo Moro avvolto nel suo cappotto nella Renault 4.
Aldo Moro, il terrorismo, il compromesso storico e l’aborto. La storia della legge 194, però, è anche altro. E’ anche la storia di una legge che contiene nelle sue radici il senso di un periodo dell’Italia. Un periodo in cui, per la prima volta, le donne vennero sottratte al cappio dell’aborto clandestino e videro cancellare una norma che fino a quel momento puniva l’interruzione di gravidanza anche con cinque anni di carcere. Le norme esistenti fino al 1978 erano quelle di matrice fascista che fece entrare in vigore nel 1931 il ministro della Giustizia Alfredo Rocco. All’epoca l’aborto era circoscritto nella sfera dei “delitti contro la integrità e la sanità della stirpe” ed era uno dei reati considerati contro gli interessi dello stato: la battaglia sulla legge 194 fu, tra le tante cose, anche una battaglia contro uno dei simboli di quel periodo storico dell’Italia.
Ma il dato che riuscì a mettere d’accordo gran parte delle forze politiche fu quello legato all’aborto clandestino. Negli anni in cui i Radicali e il Partito comunista erano impegnati (con forze naturalmente diverse) nell’individuare un approccio nuovo nello “stare nel movimento” e nel cercare di fare appello a certi tratti controllabili dello spirito rivoluzionario del tempo, il dramma dell’aborto clandestino fu l’unico tratto che ebbero in comune i due partiti. Il Partito radicale, partendo proprio dai numeri dell’aborto clandestino, già da diversi anni aveva avuto un certo successo nel promuovere – con Marco Pannella e Adele Faccio – dure battaglie per legalizzare l’aborto. Fu un successo. I Radicali chiedevano – e chiedono ancora oggi – una depenalizzazione totale dell’interruzione di gravidanza e organizzarono la prima raccolta di firme per indire un referendum sulla legalizzazione dell’aborto. Era il 1975, erano necessarie 500 mila firme, i Radicali ne raccolsero 800 mila e il referendum si sarebbe dovuto svolgere proprio nel giugno del 1978. Poi a maggio arrivò la legge e niente referendum abrogativo. (La sera prima dell’approvazione della legge, Marco Pannella, Emma Bonino e Gianfranco Spadaccia rimasero per ventiquattro minuti imbavagliati in televisione lamentandosi per il poco spazio ricevuto per il referendum. “Si deve trasmettere il nostro silenzio”, disse Pannella). Il Partito comunista si comportò invece, a proposito della depenalizzazione, in modo molto diverso; anche per non rompere gli equilibri con le altre forze del Parlamento. Depenalizzare ma senza esagerare. E questa era anche la posizione dei socialisti, tanto che i relatori dei due partiti principali che si schierarono contro la Dc (Giglia Tedesco Tatò per il Pci e Domenico Pittella per il Psi) poco prima dell’approvazione della legge risposero alle iniziative radicali così: “Se a far sparire la clandestinità e a debellare l’aborto non basta la depenalizzazione, questa è tuttavia il presupposto necessario, anche se non sufficiente, per affrontare in modo nuovo il problema. Un eventuale referendum per abrogare le norme del codice Rocco – argomentarono i due relatori – significherebbe incrinare un’intesa che rimane l’unica risposta utile per formare il valido argine alle manovre terroristiche e destabilizzatrici”. Dunque, la legge fu approvata soprattutto sotto il peso della tragedia della clandestinità, secondo i dati forniti in quell’anno dal ministero della Sanità, e sotto forte condizionamento politico nell’Italia del terrorismo. Il ministro all’epoca si chiamava Tina Anselmi – fu, tra l’altro, la prima donna ministro in Italia nel 1976 con Andreotti al dicastero del Lavoro – e gli aborti clandestini calcolati ogni anno erano ufficialmente circa 850 mila aborti. Numeri che però andavano a mettersi di fianco alle statistiche dell’Unesco (che ne stimò circa 1.200.000) e ai tre milioni di aborti clandestini registrati dal movimento femminista. “Già dai primissimi anni Settanta, l’aborto fu uno dei simboli decisivi di quel percorso di liberazione che avrebbe voluto svincolare le donne dall’oppressione in un contesto sociale profondamente modificato – spiega Aida Riberto in “Una questione di Libertà. Il femminismo negli anni Settanta”.
A Roma, anche per questo, si era costituito il Comitato romano aborto e contraccezione (Crac). Un comitato che agiva nella clandestinità e che mandava le proprie pazienti ad abortire a Londra o in Svizzera. Sempre in quegli anni, un movimento femminista romano (quello di via Pompeo Magno) rivendicò in modo originale il principio di autodeterminazione della donna: “Non vogliamo leggi sul corpo delle donne, fatene quante ne volete sull’eiaculazione”. Ma la dialettica di quei giorni, dopo che per settimane il governo di solidarietà nazionale era stato afferrato dal dramma dell’intransigenza contro i brigatisti, pesò molto nel voto e nel dibattito parlamentare sulla legge. E quando Tatò e Pittella parlarono di “unica risposta utile per formare il valido argine”, il senso fu quello di dare un segnale forte di unità per impedire che su un argomento così delicato e in un momento così importante si rompesse l’unità nazionale contro l’attacco al cuore dello stato. Serviva lo stato, serviva il governo e serviva una posizione omogenea del Parlamento. Per questo ci fu anche chi spiegò che la legge rappresentò un fatto “politico positivo”. Perché in quei giorni di tensione c’era anche un dato che andava al di là del contenuto dei ventidue articoli approvati al Senato: il Parlamento aveva trovato una maggioranza niente affatto scontata, lo aveva fatto in un momento in cui le Camere, l’esecutivo avevano bisogno di dare un segnale di forza e la prima occasione buona fu proprio quella che arrivò al Senato il 18 maggio del 1978. Ma c’è molto di più.
Le cronache di quei giorni sono la sintesi perfetta di come mondi completamente diversi, dopo essere stati travolti dai cinquantacinque giorni di prigionia del presidente della Dc, arrivarono in Parlamento a discutere nuovamente di “vita”. Prima del nove maggio, la vita in ballo era quella del presidente della Dc. Dal giorno dopo quegli undici colpi di mitra, le vite su cui discutere – e da difender oppure no – diventarono quelle dei nascituri. Comunque la si voglia mettere, una questione di umanità. Il sette maggio, due giorni prima che Moro venisse ucciso dalle Brigate rosse, l’Osservatore Romano scriveva così: “E’ una delittuosa serenità quella che si vuole ottenere con l’aborto. Chi fa della questione dell’aborto un problema di schieramenti parlamentari riduce la vita a una pratica burocratica. Non è solo nel segno dell’appartenenza a un partito o a una fede che bisogna difendere la vita, ma nel segno dell’umanità”. Umanità, dunque. Ma non solo questo. Giovanni Russo, sul Corriere della Sera in prima pagina, riassunse così il senso che quella legge poteva avere anche per gli osservatori laici. “L’aborto clandestino poneva la donna nella condizione di una solitudine atroce, la esponeva indifesa a ogni abuso e a rischi talvolta mortali soprattutto nelle classi meno abbienti”. In quei giorno, il tratto di pianificazione familiare nascostosi poi nel tempo dietro le leggi sull’aborto era ancora una paura che trovava riscontri solo in alcuni dibattiti parlamentari e solo sulle prime pagine dei giornali cattolici. Allora, forse, non era immaginabile quello che oggi anche per il Parlamento europeo sembra essere diventato chiaro. E’ vero: nel corso degli anni, in concomitanza con la legge 194 il ricorso all’aborto è diminuito sempre di più. Rispetto al 2007, in Italia le interruzioni di gravidanza sono scese circa del tre per cento ma 348 aborti al giorno sono comunque un numero che fa impressione. E anche a questo proposito è significativa una ricerca presentata due giorni fa a Bruxelles all’Istituto per le politiche della famiglia (“L’evoluzione della famiglia in Europa”) che spiega bene come parte dell’elettorato laico e cattolico aveva già previsto trent’anni fa: “Il collasso della famiglia nel vecchio continente”. I dati presentati a Bruxelles si commentano da sé. In Europa si registra un aborto quasi ogni trenta secondi rispetto al 1980, nel 2007 sono nati quasi un milione di bambini in meno e una gravidanza ogni cinque oggi finisce con un aborto. Come scriveva il Corriere della Sera, in prima pagina, due giorni dopo l’approvazione della legge 194 (l’editoriale di Giovanni Russo uscirà con un giorno di ritardo a causa dello sciopero dei poligrafici della federazione milanese), la sintesi di quell’iter legislativo si potrebbe anche concludere così: “L’aborto resta un dramma anche se non è più reato”. (Il Corriere della Sera, quel giorno – chissà se con malizia – pubblicherà tutti i ventidue articoli della legge nella stessa pagina dei necrologi).
Furono in molti a non poter far a meno di notare la coincidenza e il modo in cui i politici di quei mesi furono costretti a parlare di due argomenti naturalmente diversi ma ugualmente drammatici. Sempre Claudio Sorgi, per esempio, spiegò il suo punto di vista mettendo insieme la vita di Moro e la vita del nascituro (“Sia per la vita di un altissimo esponente politico, sia per la vita del nascituro nel seno di una donna decidere che anche solo uno dei due può essere ucciso significa decidere il principio del suicidio per la stessa umanità. Quanto meno di un suicidio morale, ma forse anche di un suicidio fisico”). Il ragionamento che però fa con il Foglio Giulio Andreotti è un po’ diverso. Il senatore a vita dice che l’aver fatto della questione dell’aborto un problema di schieramenti parlamentari ha sostanzialmente ridotto la vita a una pratica burocratica. Parafrasando alcuni commenti del maggio del 1978, l’ex presidente del Consiglio dice che non è solo il segno dell’appartenenza a un partito o a una fede che bisogna difendere la vita, ma lo si deve fare nel segno dell’umanità. “Come non è solo un fatto cristiano o – tanto meno – democristiano la difesa della vita dell’onorevole Moro o dei rapiti, feriti, uccisi in questi giorni così anche la vita dei nascituri non può e non deve essere solo un fatto religioso o partitico”, scrisse l’Osservatore Romano”. “La legge sull’aborto – dice Andreotti – fa parte di un capitolo basilare della storia della nostra nazione. Noi cercammo, anche se questo non era facile, di farne non una questione di Democrazia cristiana ma di farne un discorso più in generale. Sostenevamo, infatti, che se scientificamente si dimostra che il concepito è una creatura, allora uccidere una creatura è altrettanto grave, se non più grave, che uccidere un adulto. Uccidere un bambino di otto mesi, a mio avviso, è molto più grave che uccidere uno come me che ha novant’anni. Ma mi rendo conto che ancora oggi c’è chi fa fatica a concepire come un omicidio l’aborto. Ma a mio parere, le cose stanno così”. Il senatore a vita la 194 la firmò da presidente del Consiglio; e seppur la Democrazia cristiana provò a combattere in Parlamento una battaglia per tutelare il più possibile la vita del nascituro, il fatto è che in calce alla legge sull’aborto, oltre a quella di Andreotti, ci sono anche le firme di altri democristiani. Come Giovanni Leone e come i ministri Dc del governo che firmarono la legge: Francesco Paolo Bonifacio, ministro di Grazia e Giustizia, Tommaso Morlino, ministro per il Bilancio e la Programmazione economica e Filippo Maria Pandolfi, ministro del Tesoro, Tina Anselmi ministro della Sanità. Il capo dello stato, come notano le cronache di quei giorni, avrebbe anche potuto rimandare la legge 194 alle Camere per “sospetta incostituzionalità”. Leone, però, firmerà dopo quattro giorni il testo di legge.
La riflessione che oggi fa Andreotti con il Foglio è che ci fu una gran fretta di mostrare compattezza. E se pochi anni fa il senatore a vita, nel venticinquesimo anniversario della legge 194, disse “oggi preferirei dimettermi piuttosto che controfirmare quella legge”, ora l’ex presidente del Consiglio la mette così. “Sì, quella fu la prima grande legge approvata dopo Moro e in effetti io ricordo che noi rimanemmo molto male, per esempio, che data la tensione che c’era gli altri partiti non vollero nemmeno sospendere per qualche momento le sedute proprio quando eravamo tutti tesi alla ricerca di Moro. Questo fu uno dei motivi anche più aspri di discussione. A mio avviso, era comunque arrivata a livello parlamentare una svolta nella quale il ‘sì’ e il ‘no’ erano ormai maturi. Ritardare, certo, poteva evitare nell’immediato un impatto un po’ traumatico; però avrebbe anche protratto un dibattito su un tema così forte che giustamente interessava tutte le forze politiche e che, dall’altra parte, non poteva naturalmente essere l’unico tema a cui dedicare tutte le nostre forze. In quel contesto – continua Andreotti – è corretto dire che riuscire a convergere su una legge di quel tipo fu un segnale politico forte. Dopo tensioni molto forti in un paese c’è, e ci deve essere, un momento di respiro; un raffreddamento che qualche volta porta a vedere meno intensamente anche problemi importanti. Ma siccome la gran parte delle legislazioni del mondo l’aborto lo contemplava, ringraziamo Dio che ce lo siamo levato di torno perché ce lo saremmo ritrovato successivamente e magari avrebbe complicato ancora di più le cose”.
Andreotti ricorda i dati riportati in quei giorni dai giornali. In Ungheria l’aborto fu legalizzato nel 1955 e già nel 1972 si registrarono più aborti che nascite; e, per esempio, in Bulgaria la legge arrivò nel 1953 e gli aborti passarono dai 17.400 di quell’anno ai 119.500 del 1996. “Ufficialmente – continua il senatore a vita – a me non risulta che ci sia qualcuno che sia pentito del voto al Senato in quei giorni. E’ vero però questo, cioè che se anche qualche volta una norma sembra risolvere bene il problema poi ogni tanto si scopre che una norma non solo il problema non lo risolve bene ma ne apre altri che si sarebbero potuti evitare”.
Anche il senatore a vita Emilio Colombo, trent’anni dopo, ricostruisce così il clima difficile in cui quella legge fu approvata. Quel pomeriggio al Senato, il senatore Colombo spinse il bottone del no. “Il giorno dell’uccisione di Aldo Moro, io mi trovavo a pochi metri da via Caetani, in Piazza del Gesù, nella sede della Democrazia cristiana. Il partito aveva riunito tutta la direzione e ricordo che stavamo per discutere di una proposta che ci era arrivata attraverso la presidenza della Repubblica. Si trattava di uno scambio possibile con i brigatisti con un tale di cui non ricordo il nome. Si stava per esaminare questa faccenda quando sentimmo le urla di sotto che ci venivano ad avvertire. In quel momento, e in quei giorni, eravamo tutti sconvolti e trovarsi pochi giorni dopo di fronte alla spinta all’ordine del giorno sulla legge 194 non fu affatto facile. Perché un voto sull’aborto che non avesse raggiunto una maggioranza avrebbe indebolito il legame tra i partiti. Senza capire questo è difficile comprendere il senso di quei giorni”.
C’è però un altro filo sottile che nella seconda metà degli anni Settanta lega ancora di più l’ex presidente della Dc con la legge 194. Non sono solo coincidenze temporali, difatti, ma sono fianchi diversi di uno stesso profilo storico. Tre anni prima che la legge fosse approvata – e quando già l’Espresso aveva aperto un suo numero con una storica copertina in cui una donna nuda, incinta e crocifissa posava con il pancione a metà tra titolo (“Aborto: una tragedia italiana”) e didascalia (“Ecce Mater”) – fu Aldo Moro ad anticipare il modo in cui il partito avrebbe affrontato l’iter legislativo. Disse Moro: “La ritrovata natura popolare del partito induce a chiudere nel riserbo delle coscienze alcune valutazioni rigorose, alcune posizioni di principio che sono proprie della nostra esperienza in una fase diversa della vita sociale, ma che fanno ostacolo alla facilità di contatto con le masse e alla cooperazione politica. Vi sono cose che, appunto, la moderna coscienza pubblica attribuisce alla sfera privata, e rifiuta siano regolate dalla legislazione e oggetto di intervento dello stato. Prevarranno dunque la duttilità e la tolleranza”. E anche per questo, il 21 gennaio del 1977 Giulio Andreotti scrisse queste parole sul suo diario personale: “Seduta a Montecitorio per il voto sull’aborto. Passa con 310 a favore e 296 contro. Mi sono posto il problema della controfirma a questa legge (lo ha fatto anche Leone per la firma) ma se mi rifiutassi non solo apriremmo una crisi appena dopo aver cominciato a turare le falle, ma oltre a subire la legge sull’aborto la Dc perderebbe anche la presidenza e sarebbe davvero più grave”.
Ci sono però alcuni dettagli interessanti per capire come sulla approvazione della legge ci sia ancora qualche piccolo giallo e qualche numero che a distanza di trent’anni ancora non torna. Prima di arrivare al Senato, e prima che l’undici maggio fosse respinta la pregiudiziale di incostituzionalità al testo proposta dalla Dc (su Repubblica, Giorgio Rossi spiegò il senso di quel voto compatto con queste parole: ci fu “l’esigenza di non aprire lacerazioni nel paese”) la legge – un anno prima – fu approvata alla Camera con 308 voti a favore e 275 contrari. Solo che se fra i favorevoli i voti mancanti risultarono essere undici, fra i contrari invece i voti in meno furono ben trentatré. Tra questi, c’erano ventinove assenti. E tra gli assenti dodici erano deputati democristiani. Il discorso fatto in quei giorni, che sostenne le critiche rivolte negli anni ai deputati cattolici, fu questo: se tutti i contrari fossero stati presenti in Aula il sette giugno del 1977 la legge sull’aborto chissà quando sarebbe passata.
Ma per parlare del maggio del 1978, se è vero che non si può prescindere dagli anni che hanno preceduto l’arrivo della legge in Parlamento e non si può prescindere da Aldo Moro, non si può naturalmente prescindere neppure da Marco Pannella, dai movimenti femministi e dalle critiche più forti arrivate sulle spalle della Dc. (Il circolo via Pompeo Magno spiegò così la sua posizione sull’intoccabilità dei principi della legge: “L’irresponsabilità criminale dello sperma ritenuto intoccabile è l’imperfezione evolutiva dell’uomo che impediva che si realizzasse in lui la distinzione tra il piacere sessuale e la riproduzione”). Ci sono poi due aspetti politici molto importanti da considerare. Il primo è questo. La Dc non fece un vero e proprio ostruzionismo in Parlamento. Fece un’altra cosa: un’opposizione costruttiva. E’ vero, la Dc votò contro la legge; ma coloro che ancora oggi criticano l’atteggiamento un po’ remissivo del partito in quegli anni notano che non solo fu la stessa Democrazia cristiana ad essersi intestata ufficialmente la responsabilità di sostenerne la costituzionalità della legge nei mesi successivi (il testo fu inviato all’avvocato generale dello stato e fu poi difeso dalla Dc); non solo il gruppo Dc alla Camera votò insieme al Pci contro l’eccezione di incostituzionalità alla legge, ma lo stesso governo della Dc, il 5 dicembre 1979, si costituì in difesa della 194 davanti alla Corte costituzionale. (Poco prima della votazione e dopo le parole di Aldo Moro del 1976, la Dc ritirò inoltre ogni clausola che caratterizzasse l’aborto volontario come un crimine. Il Pci, invece, si comportò in maniera diversa). Il Partito comunista, dall’altro lato, era appena uscito dalle elezioni amministrative molto penalizzato. Il 10 giugno del 1976 i comunisti toccarono il 34,4 per cento e sette giorni dopo l’omicidio Moro, alle comunali, toccarono appena il 26,4 per cento. In quel contesto, il Pci accettò che nella legge venissero posti dei limiti alla libertà di scelta della donna, accettò che per le ragazze sotto i diciotto anni fosse obbligatorio il permesso dei genitori ad abortire; e il Pci non si oppose neppure all’articolo che prevedeva ai medici il diritto obiezione di coscienza.
Ma per spiegare il clima di quei giorni, l’intervento che a questo proposito fece nel 1999 l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga fu indicativo: “Un cattolico può separare convinzioni etiche e realtà politica. Si può dire che sono contro l’aborto, ma che non ne faccio questione di battaglia politica. Mi inchino al volere della maggioranza: non si rompe un governo sull’aborto”. “La Dc – scrisse invece Cossiga nel 1991 – ha meriti storici grandissimi nell’aver saputo rinunciare alla sua specificità ideologica e ideale: le leggi sul divorzio e sull’aborto sono state firmate da capi di stato e da ministri democratici cristiani che, giustamente in quel momento, hanno privilegiato l’unità politica a favore della democrazia, della libertà e dell’indipendenza”. Il senatore Colombo e il senatore Andreotti notano con il Foglio anche un legame particolare con la legge sul divorzio. Non fu un caso che il primo disegno di legge sull’aborto discusso in Parlamento fu quello presentato dal deputato socialista Loris Fortuna. Era l’11 febbraio 1973: per la prima volta una legge sull’aborto fu discussa in Aula. E Loris Fortuna fu proprio lo stesso deputato che nel 1965 presentò in Parlamento la legge sul divorzio.
Spiega il senatore Colombo: “Sia il divorzio che l’aborto arrivarono in un periodo in cui quelle leggi avrebbero indebolito la maggioranza. Naturalmente, come all’epoca del referendum sul divorzio, la Dc si schierò contro. Ma proprio come era accaduto pochi anni prima, anche quando si trattò di votare per l’aborto fu via via sempre più chiaro che alcune frange favorevoli della maggioranza erano meno impegnate e più superficiali di quello che si riteneva un tempo”. Anche Andreotti la pensa così: “In effetti, le due leggi noi le vedevamo abbastanza collegate anche se di per sé esiste un aspetto diverso. L’aborto è un assassinio. E’ l’uccisione di una creatura. Il divorzio è invece la recessione di un vincolo fondamentale. Ovvio che fisicamente non si tratta di un assassinio. Però lo sfondo culturale dei due temi ha una parte comune notevole”. Spiegano i due senatori a vita: “La legge fu comunque una conquista anche se bisogna vedere da che punto di vista. A me – dice Andreotti – pare però che l’argomento base che la legge dovrebbe avere, e che ancora non ha, è la tutela giuridica del concepito. Il concepito è un soggetto. Non è un pezzetto della madre con la partecipazione dell’uomo. Purtroppo oggi sull’argomento c’è meno sensibilità che all’epoca. I termini oggettivi del problema, però, non sono cambiati”.
Ci fu anche qualcuno che riuscì con un certo anticipo a prevedere quella che negli anni successivi sarebbe diventata indifferenza morale nei confronti dell’aborto. In pochi diedero ascolto a quelle parole; ma intanto, pochi giorni prima che la legge fosse approvata, l’Osservatore Romano scrisse così. “Non solo è necessario che una legge non imponga il crimine, ma è doveroso che non rimanga indifferente, non si disinteressi e tuteli uno dei diritti fondamentali della persona umana, anzi il diritto prioritario e primordiale come quello della vita senza distruggere i suoi fondamenti”. Così, oggi che si sono raggiunti il miliardo di aborti nel mondo, Andreotti registra in questo modo la sua idea di “aborto moralmente indifferente”. “Il fatto è che in quegli anni il Parlamento fu costretto a decidere su un argomento che aveva un suo valore e che gran parte del mondo aveva ormai legiferato. Ma bisogna fare attenzione. Ogni giorno in tutto il mondo ci sono furti e ci sono leggi nuove che cercano di prevenire i reati e salvaguardare alcuni diritti. Ma se un diritto è garantito da una legge quando questo diritto viene violato non è ammesso far finta di nulla”.
Il sette maggio di quell’anno ci fu un articolo significativo. Uscì ancora una volta sull’Osservatore Romano e il commentatore parlò di vita, parlò di Moro e parlò anche di pena di morte. “Non esiste spiegazione plausibile al fatto che la pena di morte venga oggi respinta in nome di un principio universale e perenne (la vita è sacra) mentre altre forme di attentato alla vita vengono accettate o sono state massicciamente accettate nel passato”. Tutto dunque cominciò nel 1975, passò in due anni e mezzo dalla Camera al Senato; passò per quel maggio del 1978, per il compromesso storico, per i governi di solidarietà nazionale, partendo da un referendum, dalle ototcentomila firme ed ebbe uno dei momenti più significativi del dibattito in un vecchio articolo di Pier Paolo Pasolini. Quello pubblicato nel 1975 sul Corriere della Sera, in risposta ad Alberto Moravia. Quello in cui Pasolini scrisse che “la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore”; quello in cui lo scrittore bolognese disse che “la falsa liberalizzazione del benessere ha creato una situazione altrettanto e forse più insana che quella dei tempi della povertà”; che il “primo risultato di una libertà sessuale regalata dal potere è una vera e propria generale nevrosi”; che “la facilità ha creato l’ossessione” e che il risultato è “una facilità indotta” e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l’esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza”. E tre anni dopo le paure di Pasolini si trasformeranno in legge.

Nessun commento: