sabato 28 giugno 2008

Il Foglio. "Premiata macelleria telefonica"

Cifre, trucchi e mercato nero. Guida contromano a tutto ciò che non avete mai saputo sulle intercettazioni e a tutto ciò che succede sottobanco tra magistrati, avvocati e giornalisti

Arrivano su fogli di carta liscia, con le pagine raccolte in cartelline di plastica, con le conversazioni registrate in ordine cronologico e con le chiamate in entrata e in uscita ordinate una a una dentro lunghe griglie di documenti trascritti. Data, time, durata, chiamante, note, omissis, voci incomprensibili e lunghi tabulati. Arrivano così, le intercettazioni telefoniche: arrivano a casa, arrivano alla fine di un’indagine e arrivano quando l’intercettato ha ormai compreso che, fino a quel momento, ogni parola bisbigliata al microfono del telefono poteva davvero significare qualsiasi cosa dall’altra parte dell’apparecchio. Chi è stato intercettato almeno una volta lo sa: sa perfettamente che cosa vuol dire aprire quella cartellina con il timbro della questura della sua città, sa perfettamente che cosa vuol dire sfogliare quelle pagine fitte fitte con le sue parole registrate magari solo per un po’ di giorni o magari per un paio di mesi. Perché, se non sei così famoso e se le tue conversazioni sono una notizia solo per te e non per i giornali, quando ti arriva il brogliaccio tu lo prendi, lo scarti, lo sfogli e lo leggi e lo rileggi sul tavolino di casa, nella speranza di non aver mai alluso a nulla, di non aver mai parlato con gente sospetta e di non aver mai detto per nessuna ragione niente, neppure una cazzata. Solo che quando le trascrizioni non rimangono nel tuo cassetto, quando le tue parole arrivano prima sui quotidiani, si sa come funziona: per il lettore la voce su carta è una sentenza che non ha bisogno di prove aggiuntive e spesso basta l’intenzione per provare l’accusa e basta un equivoco per confermare il sospetto. Capita così per circa 124 mila utenze all’anno, capita così a circa 300 italiani al giorno e anche per questo non è affatto difficile riconoscere subito la persona che almeno una volta nella vita è stata intercettata. La riconosci subito, quella persona, perché al telefono più che parlare preferisce ascoltare, perché nei messaggi preferisce non alludere, perché ti dice che non si sa mai, che lo sai come funziona, che queste cose non si dicono, che certi discorsi è meglio farli a quattrocchi e che di questo, forse, è meglio parlarne un’altra volta. Quanto ti capita, quando scopri che un orecchio estraneo è stato incollato alla tua cornetta per chissà quanti giorni, il telefono si trasforma inevitabilmente in un potenziale microfono rivolto verso un pubblico di cui tu non sai nulla, che di te però vuole sapere tutto e che non aspetta altro che spulciare tra le registrazioni per ascoltare dal buco della serratura quelle telefonate che sembrano essere “incriminate” anche quando con il reato non c’entrano proprio nulla. I numeri li conoscete e cronisti di ogni genere si sono già ampiamente esercitati per giorni sui dati reali delle intercettazioni telefoniche. Qualcosa però è sfuggito, e per comprendere come funziona un’intercettazione e per capire quali sono, davvero, le vie dell’abuso, la strada giusta non è quella di insistere sui costi effettivi delle intercettazioni. Non basta dire che intercettare in Italia costa moltissimo e che costa più di qualsiasi altro paese europeo. Non basta dire che ogni tabulato telefonico costa allo stato circa 26 euro. Non basta dire che ogni procura spende quotidianamente circa 1,6 euro per intercettare un telefono fisso, 2 euro per un cellulare e 13 euro per un apparecchio satellitare e che ogni giorno il ministero della Giustizia spende circa 613 mila euro per tenere sotto controllo le utenze intercettate (in Francia e in Germania le aziende telefoniche sono invece costrette a offrire gratuitamente allo stato la linea telefonica). Per comprendere davvero tutte le degenerazioni possibili della rete delle intercettazioni, dunque, bisogna dare uno sguardo a cosa succede in questi giorni a Napoli – con il caso Rai, con il Cav., con Saccà e con l’incredibile numero di telefonate registrate (in tutto sono novemila) – e si deve comprendere il senso di quel che è successo pochi giorni fa nel Gargano – con quell’overdose di intercettazioni che, per l’impossibilità di sbobinarle in tempo, ha portato alla scarcerazione di tredici delinquenti – per capire che ancora oggi ci sono aspetti che non possono essere trascurati. Certo, è un errore considerare a priori la registrazione telefonica come un elemento sempre pericoloso per la nostra privacy, perché per legge l’attività investigativa viene sempre privilegiata rispetto alla tutela dei dati sensibili, perché il 95 per cento delle sbobinature che finiscono sui giornali sono intercettazioni non più segrete e perché in fondo in molti casi l’attività di intercettazione non sostituisce affatto l’indagine sul campo, ma semmai spesso la integra.
“Noi – dice un poliziotto famoso che chiede l’anonimato – abbiamo conosciuto un periodo in cui non si facevano intercettazioni perché c’erano i pentiti. Poi si disse che la polizia non sa fare indagini, che comanda tutto il magistrato, e che noi non sappiamo fare più niente. Ed era in parte anche vero, perché io vedevo gli uffici dell’arma dei carabinieri che si erano appiattiti sulle dichiarazioni del pentito. Il pentito era interrogato dal magistrato e il magistrato diventava in modo incontestabile dominus dell’indagine, mentre la polizia giudiziaria si riduceva a rango di ‘aiutante d’interrogatorio’. Ma bisogna fare attenzione. Tu all’intercettazione ci arrivi come momento corroborante dell’indagine. E’ una cosa che va abbinata al resto. Se io metto sotto controllo due trafficanti di droga della camorra, se tu non fai attività di osservazione sul posto e non vai con una telecamera o non nascondi persone in contenitori dell’immondizia, travestendoli da spazzini, da muratori o magari da puttane, le intercettazioni da sole non servono a nulla”.
Soprattutto ora che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, è pronto a portare in Parlamento il restrittivo disegno di legge che regolamenterà le intercettazioni telefoniche, c’è un aspetto che più degli altri va preso in considerazione: il vero problema non sono le registrazioni in sé, ma sono tutte le vie che rendono possibile la fuga di notizie e grazie alle quali, spesso, le intercettazioni arrivano sul desk dei cronisti prima ancora che sul tavolo degli indagati. Ecco, come è possibile? Quali sono i punti critici della rete delle intercettazioni? E come fa, davvero, un giornalista a ricevere prima dell’interessato queste registrazioni? Bene, qualsiasi cronista abbia avuto a che fare negli ultimi anni con la pubblicazione delle intercettazioni sa perfettamente che in fondo non è così difficile riuscire a entrare in possesso di quei “documenti riservati”. (Tecnicamente ancora oggi esiste una legge che prevede il divieto assoluto di pubblicazione delle intercettazioni protette dal segreto istruttorio, ma in realtà per chi pubblica le conversazioni non ci sono vere sanzioni: se le intercettazioni vengono riportate prima della fine delle indagini il cronista se la cava con una multa di 250 euro; se le conversazioni invece finiscono sui giornali quando si trovano ancora sotto segreto istruttorio la persona che commette reato è quella che ha lasciato uscire le carte dalla procura non quella che le riceve). Dall’altra parte, però, sarebbe ingenuo nascondere che molto spesso le intercettazioni sembra proprio siano fatte scientificamente uscire sul quotidiano giusto e nel momento giusto. E se qualcuno crede che non sia così, se qualcuno ancora crede che le intercettazioni non vengano fuori, come dire, “ad arte”, è sufficiente ascoltare quanto detto qualche mese fa dal sostituto procuratore romano Piero Saviotti, che, a proposito di fughe di notizie, rispondeva così alla commissione giustizia del Senato. “Per quanto riguarda l’individuazione della fonte della fuga di notizie – spiegava Saviotti – è difficile dare una spiegazione, anche perché gli interessi sono spesso diversi. Vi è sicuramente l’interesse del pubblico ministero a fare bella figura, a comparire sui giornali, e ciò è molto frequente; non ho prove, ma la mia percezione, di chi opera nel settore, me ne dà in molti casi la conferma. Vi è poi quella che io chiamo la sindrome de ‘I tre giorni del Condor’. Alla fine di quel film, il giornalista promotore dell’inchiesta si sente al sicuro quando riesce a trasmettere il dossier al giornale. A quel punto si sente protetto dalla collettività per cui ritiene di aver lavorato. Ebbene, vi assicuro che questo atteggiamento mentale costituisce una motivazione altrettanto rilevante del far bella figura e di apparire. Si tratta di blindare un’indagine a fronte di aggressioni prevedibili, supposte o semplicemente paventate da parte di quei poteri ai quali ci si vuole contrapporre. In altre parole, l’indagine giudiziaria che approda sulla carta stampata per colui che l’ha condotta in questo modo può essere più protetta, più sicura. Un magistrato – continua Saviotti – non fa carriera in senso tecnico con un’indagine andata a buon fine, ma un ufficiale di polizia giudiziaria sicuramente sì. Un risalto giornalistico dell’indagine può soddisfare inoltre anche il malinteso senso istituzionale di volere più risorse per il proprio ufficio. Il dirigente di un ufficio specializzato, di una sezione anticrimine del Ros, di una Dia o di una Digos, sa che se produce risultati visibili ha un potere contrattuale maggiore nei confronti dell’amministrazione per ottenere risorse”.
Un tempo – prima che gli atti giudiziari venissero registrati su dischetti duplicabili e quando ancora i magistrati non ospitavano in vacanza i giornalisti per consegnare loro i cd con i verbali utili – il vecchio trucco era semplice e funzionava più o meno in questo modo: il giornalista entrava nel palazzo di giustizia, bussava nell’ufficio del magistrato, il magistrato apriva la porta, faceva sedere il giornalista di fronte a un tavolo e, nel dare una spolveratina alla coscienza allontanandosi “solo per un attimo” dall’ufficio, lasciava lì sul tavolo il verbale o l’intercettazione di fronte al cronista. Il quale, ringraziando, consultava rapidamente prima che il magistrato ritornasse in ufficio. Oggi invece le vie di fuga sono praticamente infinite, e basta ricostruire la vita di una registrazione per capire i passaggi nel corso dei quali la voce dell’intercettato, invece che passare da un ufficio giudiziario a un altro, arriva nelle mani curiose di chi con le indagini non c’entra proprio nulla.
Comincia così un’intercettazione telefonica, comincia con un ufficiale di polizia giudiziaria (dunque polizia di stato, carabinieri o guardia di finanza) che chiede al magistrato di poter intercettare. Il magistrato richiede l’autorizzazione al giudice per le indagini preliminari, il gip valuta se esistono le condizioni per mettere un “bersaglio” sotto controllo (non si può intercettare su tutto: occorrono gravi indizi e, fino a oggi, occorre che il reato preveda una pena non inferiore ai cinque anni). Se le condizioni esistono, il magistrato autorizza la polizia a mettere sotto controllo una serie di utenze telefoniche. (Le uniche intercettazioni che per legge possono essere effettuate preventivamente, cioè basate non necessariamente su indizi, sono quelle fatte dai servizi segreti e sono poco più di cento ogni anno). Così, la polizia giudiziaria invia un fax all’azienda telefonica e chiede di mettere a disposizione i suoi servizi per intercettare l’utente. La durata massima di un’intercettazione, oggi, è di un anno – tranne per i reati di mafia per i quali sono previsti dodici mesi in più. A questo punto l’azienda telefonica crea un ponte, un filo virtuale che arriva fino alla sala d’ascolto della procura e che permette alla polizia di ascoltare le telefonate delle utenze richieste. La sala d’ascolto è una piccola stanza che si trova all’ultimo piano di ciascuna delle 165 procure d’Italia, nella cosiddetta “piccionaia”. Qui, con una cuffia collegata al computer, gli ufficiali di polizia ascoltano le conversazioni su un monitor, grande quattro volte questa pagina di giornale, in grado di gestire contemporaneamente fino a trecento numeri di telefoni. Il computer ha un programma che condensa insieme le telefonate (i poliziotti la chiamano “lavatrice”) e segnala con un colore rosso l’utenza che squilla in quel determinato momento. Tecnicamente, per intercettare un telefono, basta conoscere il codice genetico di ogni apparecchio (si chiama “Imei”). Quel codice lancia un segnale radio che viene registrato da ogni celletta presente in città (attraverso le quali i telefonini sono connessi alla rete) che permette alla polizia non solo di ascoltare le parole dell’intercettato ma anche di conoscere esattamente la posizione sul territorio. Esistono solo due tipi di conversazioni che oggi vengono intercettate con difficoltà: la prima è quella che passa attraverso i telefoni satellitari (che si appoggiano ad alcune celle che spesso superano i confini del territorio italiano), la seconda è quella che passa attraverso lo scambio di dati su Skype, il programma di messaggistica istantanea più famoso del mondo per il quale ancora oggi gli inquirenti hanno difficoltà a decrittarne i contenuti. Al termine di un’indagine, infine, le conversazioni considerate più interessanti vengono trascritte su alcuni brogliacci e vengono caricate su supporti magnetici. Ogni cd viene inserito in una custodia sigillata, viene catalogato con un numero di repertorio ma, anche se la traccia del cd non è in via ipotetica modificabile, le duplicazioni purtroppo non mancano. (In un’audizione di due anni fa, il senatore Roberto Castelli sostenne senza ironia che esiste un solo modo per blindare il contenuto delle intercettazioni, “il sistema di attivazione delle bombe atomiche nucleari”).
Teoricamente, ancora oggi, fino al decreto di archiviazione o prima del dibattimento, sarebbe vietato pubblicare qualsiasi tipo di intercettazione. Ci sono casi in cui le conversazioni sbobinate possono però imboccare strade piuttosto diverse da quelle previste dalla legge. Sono molte e tutte lasciano intendere come sia possibile che all’improvviso i brogliacci si materializzino sui giornali prima ancora che questi siano arrivati all’esame della magistratura. In questi casi, con una perifrasi magnifica, i giornali parlano di “intercettazioni finite nella disponibilità dei giornalisti”. Ecco, ci sono occasioni concrete in cui queste “disponibilità” si possono verificare. Spesso, come spiegato con l’esempio dei “Tre giorni del Condor”, capita che sia lo stesso magistrato a fare uscire i verbali. Spesso però capita anche che il giornalista conosca perfettamente quali sono le falle del sistema. Non si tratta solo di voler tirare in ballo tutti i potenziali “casi Tavaroli”, cioè tutti quei casi in cui la figura dello spione potrebbe coincidere con quella degli uomini che si occupano di “business security” all’interno delle aziende telefoniche. Non c’è solo questo, naturalmente. Tanto per fare un esempio, al termine di un’intercettazione il magistrato è obbligato a distruggere tutte quelle registrazioni di cui è stato deciso di vietare l’utilizzo (intercettazioni come quelle tra Piero Fassino e Giovanni Consorte e intercettazioni come quelle che riguardano le ragazze coinvolte nell’inchiesta sul caso Rai). Che succede, però. Succede che in caso di mancata distruzione non è difficile farla franca, perché non esistono procedimenti punitivi per chi non stralcia quei documenti. Non solo: va anche detto che le sale d’ascolto non sempre hanno le stesse garanzie previste per i luoghi dove i dati vengono trascritti materialmente e che le procure affidano a società esterne (le più famose tra queste si chiamano Resi, I&S, Sio, Radio Trevisan, Area e Rcs – nulla a che vedere con il gruppo Rizzoli – e rappresentano circa l’80 per cento dei costi complessivi che lo stato spende per le intercettazioni). Per quanto riguarda il problema della conservazione dei documenti, invece, vi è una questione doppia, perché da una parte ogni dato di traffico deve essere conservato per almeno cinque anni (l’Italia è il paese a livello europeo dove si conservano di più – in Unione europea è previsto un termine ordinario di due anni) ma dall’altro lato in alcune aziende spesso vengono conservate a lungo anche alcune copie di quei documenti: le aziende, per dimostrare di aver erogato una certa prestazione, devono mantenere le carte fino all’incasso della fattura e le richieste di liquidazione, come ammesso dagli stessi dirigenti delle aziende telefoniche nel corso dell’ultima indagine conoscitiva sul fenomeno delle intercettazioni, spesso vanno misteriosamente smarrite.
Per quanto riguarda la questione degli avvocati, invece, vi sarebbe tutto un capitoletto da aprire a parte. Qui i problemi sono piuttosto seri, perché ogni legale ha diritto al deposito e alla copia di ciascuna intercettazione e ogni legale ha anche diritto a ricevere su cd rom tutto il materiale prodotto nel corso delle indagini. Il punto è che quando il giudice dispone la distruzione delle telefonate, dispone la distruzione di quelle custodite in procura. Mentre non prevede alcuna distruzione forzata di tutte le copie che sono state lasciate ai difensori. Il risultato è che qualsiasi cronista non ha grandi difficoltà a chiedere agli avvocati di fotocopiare questo o quel documento prima ancora che l’inchiesta sia arrivata al dibattimento. Ma non basta. C’è un altro aspetto che non può essere trascurato. Si dirà: come è possibile che i giornali possano pubblicare tutti quei pettegolezzi, tutte quelle voci sbobinate che non hanno nulla a che vedere con l’indagine e che però attirano l’attenzione del lettore più che un reato di insider trading? Lo spiega ancora una volta il sostituto procuratore Piero Saviotti. “Non credo che se escono sul giornale i pettegolezzi relativi alla vita privata, sentimentale e sessuale dell’indagato X vi sia un interesse di chi ha fornito la notizia a travasare anche quel pettegolezzo. Sicuramente lì c’è il valore aggiunto che bisogna dare alla notizia sulla carta stampata per renderla appetibile, perché naturalmente i lettori si sentono più attratti da queste curiosità piuttosto che dalla rilevanza penale della singola condotta”. In altre parole significa che l’intercettazione va sempre a ruba, che le conversazioni sbobinate stuzzicano comunque il lettore e che però tra una data, un time, una nota e un omissis, un po’ di gnocca e un po’ di vizietti tirano sempre più di una turbativa di mercato.
Claudio Cerasa
28/06/08

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