L’ACE DI IVANISEVIC, IL TRUCCO DELLA FELPA, LA POSIZIONE DELLA TELECAMERA E QUEL PUNTO DI COURIER AGLI INTERNAZIONALI D’ITALIA
Sul sei a sei del terzo set, dopo due ore e
quindici minuti di gioco, dopo essere
usciti e rientrati dal campo, dopo aver raccolto
le palline, dopo aver chiesto al giudice
di sedia mi scusi ma è proprio sicuro che oggi
si rigioca non vede quanto ha piovuto, e
dopo aver capito che anche quest’anno gli
italiani non arriveranno oltre i quarti di finale,
dopo tutto questo il raccattapalle solitamente
entra nel panico. Perché dalla tribuna
non ti accorgi di nulla, ti accorgi solo del
raccattapalle che cade sulla fiorera, di quello
che inciampa sulla rete, di quello che
guarda le tette della Sharapova, di quello
che chiede il polsino a Federer, di quello che
ruba la racchetta a Philippouosis dicendo
scusa pensavo fosse rotta, di quello che sbaglia
il lancio della pallina, di quello che starnutisce,
di quello che interrompe uno scambio,
di quello che fa cadere sempre la palla
accanto alla rete, di quello che si becca in
mezzo alla testa l’ace di Ivanisevic e di quello
che interrompe la partita per prendersi
un Gatorade e che poi viene radiato dall’albo
dei raccattapalle che non esiste ma è come
se esistesse. Ci si accorge quasi di tutto in
campo ma non di quello che capita quando
arriva il primo tie break del primo giorno di
Internazionali d’Italia, che inizieranno a Roma
la prossima settimana. Ed è lì che il raccattapalle
si capisce di che stoffa è fatto. Perché
c’è quello esperto che da dodici anni viene
ogni anno da fine aprile a metà maggio e
ha visto le interminabili qualificazioni maschili,
le sconosciute wild card italiane, quello
che a casa ha la pallina autografata da Muster,
la racchetta di Moya, la canottiera di
Sampras, la banana di Rafter, il cappellino
di Gaudenzi e il numero di telefono di Nadal.
Il raccattapalle super esperto conosce tutti i
trucchi del mestiere, è quello che entra nel
campo centrale e si mette sempre a sinistra
perché sa che i giocatori lì a sinistra non
prendono quasi mai le palline perché – per
superstizione – alla parte sinistra preferiscono
quella destra; è quello che sa che giù a
fondocampo puoi fare amicizia con la hostess,
puoi essere ripreso dalla telecamera,
puoi prendere meglio il sole e puoi soprattutto
nasconderti dietro l’orologio alto un
metro e mezzo dietro al quale si possono facilmente
nascondere anche le patatine di
Spizzico. Poi però ci sono anche i raccattapalle
che non hanno mai raccattato una pallina,
che sono venuti all’incontro con i raccattapalle
grandi a metà aprile, dove hanno
visto sulla lavagna una serie di schemi, un
po’ di disegni, molte spiegazioni, con i superiori
che ti dicono dobbiamo essere come
quelli di Wimbledon, dobbiamo fare meglio
del Roland Garros, qui ci giochiamo la credibilità,
avrete tanti buoni pasto, non chiedete
i Gatorade, non fatevi accompagnare
dai vostri genitori, non venite in campo con
i jeans e non rubate le palline; ci sono i super
esperti e ci sono poi, i raccattapalle giovani,
un po’ troppo giovani, che sono quelli
che scendono in campo a sei anni e provano
a ricordarsi di dare sempre la pallina rasoterra,
di non lanciarla da una parte all’altra
del campo come se fosse una palla da baseball,
di non interrompere gli scambi, di avere
sempre due palline in mano, di essere
sempre seri, di dare la pallina lentamente
solo se il giocatore ti fa su e giù con la testa
e di ricordarsi soprattutto che quando c’è il
tie break tutti devono avere una pallina in
mano e che nel tie break è tutto più rapido
perché la battuta cambia ogni due punti, le
palline devono correre, non devono finire
sulla rete, devono essere sempre a fondocampo
e soprattutto non devono finire in tasca;
e non importa se ti arrivano le battute
prese con la stecca da Ivanisevic, quelle che
non toccano sul terreno e si trasformano in
missili aria-aria e che nei campi più piccoli
si vanno spesso a stampare sulle teste del
giudice di net o su quelle dei raccattapalle
più sovrappensiero. Non importa nulla di
tutto questo, conta solo il tie break.
Il panico del tie break
E sul tie break i raccattapalle entrano nel
panico, a volte piangono, non ricordano più
quanti punti mancano prima di passare una
pallina dall’altra parte del campo e non ricordano
più se si cambia il campo ogni punto
pari, ogni punto dispari, se si cambia
quando uno dei due tennisti raggiunge un
punteggio pari o se il pari deve essere la
somma dei punti dei due giocatori. E lì è panico
totale, nessuno puoi aiutarti, la hostess
se ne è andata, il giudice di linea si è già appisolato
e soprattutto sai che anche questa
volta non avrai il polsino, perché prima del
tie break il tennista lo cambia, ne prende
uno nuovo e quello vecchio lo mette dentro
la borsa. E per un raccattapalle non c’è niente
di peggio che non avere quel dannato polsino.
Perché si sopporta tutto, si sopportano
le escoriazioni sul ginocchio quando ci si
mette sotto rete, quando ti sbucci la pelle sopra
la rotula, sopporti la Kournikova, la
Dokic, la Hingis che non ti guardano mai e
che ti chiamano soltanto per farti tenere
l’ombrellone sopra di loro, sopporti Andrea
Gaudenzi che ti manda a quel paese perché
non ti ricordi mai di portare sulla sua seggiolina
l’asciugamano san Benedetto che lui lascia
sempre a fondocampo, sopporti anche di
andare in giro per due settimane con un pass
dove tu sei per tutti un “ballboy” e dove non
esiste una traduzione esatta perché prima il
raccattapalle era un raccattapalle ma da
quando sei un ball boy tu diventi solo un
bambino palla. E questo non ti aiuta affatto
a sentirti integrato o a sentirti accettato come
magari lo possono essere le modelline in
minigonna della Boss che un anno fa erano
state scelte proprio dalla Boss per raccattare
a Madrid senza che nessuno si sognasse
mai di dargli un accredito con scrittto ball
girl, figuriamoci. E tu invece, che eri un povero
ball boy con tutti i pregiudizi che aveva
uno che raccattava le palle e che era anche
una palla di bambino, tu invece chiedevi
davvero poco. Chiedevi di poter far parte
della squadra della finale, chiedevi di avere
un buono pasto in più, chiedevi di non finire
sui vecchi campi “sei” e “sette” dove non c’era
nessuno spettatore, dove i raccattapalle,
quando andava bene, erano tre, a volte due,
dove non c’erano le telecamere e dove l’autorità
dei ball boy anziani era di gran lunga
superiore a quella di molti giocatori che su
quei campi giocavano le qualificazioni (uno
dei volti storici delle qualificazioni era uno
spagnolo con la bandana blu che si chiamava
Alvarez, un pessimo giocatore che vinceva
solo con gli italiani e che nell’ambiente
dei raccattapalle era famoso per regalare i
cappelli della Nike). Perché poi ci sarebbero
state le racchette che Tarango ti buttava
addosso, gli urli di Thomas Muster (da vicino
riuscivi a vedere lì in mezzo alle ginocchia
quante cicatrici aveva, il grande Thomas),
riuscivi a sopportare anche le partite che finivano
sempre al quinto set con molti tie
break anche se poi, abbandonato lì sui campi
di periferia, l’unico tuo vero sogno – oltre
alla finale – era quello di giocare, pardon, di
raccattare sul centrale. Sempre che poi non
ci fosse Mary Pierce.
Il campo centrale nella prima partita del
serale è sempre pieno. Il biglietto costa un
po’ di meno, c’è sempre il collega che ti passa
il suo accredito, il raccattapalle che ti dà
la sua felpa con lo sponsor e che poi ti dice
vai dall’amico a cui ho offerto le patatine al
Bar del tennis che lui ti fa entrare sicuro. E
tu, allora, entri sicuro. Quella sera sul campo
centrale del Foro Italico Mary Pierce era
già parecchio incazzata e se chiedeva una
pallina la voleva subito e non voleva rumori,
non voleva telefonini che squillavano,
non voleva che la pallina arrivasse all’altezza
dello stomaco e non voleva che la pallina
fosse quella usata qualche istante prima,
nello scambio precedente. Sennò, Mary, si
incazzava davvero. E quando si incazzava,
Mary era davvero bella. O almeno tutti dicevano
così quando sotto il gazebo di fronte al
campo uno le due coordinatrici dei ball boy
con il foglio bianco in mano selezionavano
te, te, te, te, te e poi te per il campo centrale
e per la partita più attesa del serale, cioè
quella con Mary Pierce; dove a raccattare la
Mary c’erano sempre e solo ragazzi come
quando alle partite di Rafter o a quelle di
Gaudenzi o a quelle di Rios o a quelle di
Moya c’erano sempre e solo ragazze. Quel
giorno capisci che Mary stava proprio guardando
te. Mary voleva battere, le serviva una
pallina. Si avvicina, muove la mano, muove
la racchetta e fa su e giù con la testa e il
campo centrale capisce che tu non hai nemmeno
una pallina, capisce che tu stai guardando
la Pierce, capisce che non la stai
guardando negli occhi e soprattutto capisce
che quando Mary Pierce ti si avvicina e ti
apre la mano per vedere se hai ancora palline
in mano e tu non ne hai neanche una e
quando tutto lo stadio inizia a mettere in sequenza
le vocali aaaaaaaa accompagnate da
una c a cui segue immediatamente un’altra
vocale (la o) scandita assieme a uno ione, capisci
che tu ormai sei fottuto. Mary Pierce
viene da te, tu sei distratto dalla sua gonna
bianca, ti viene ad aprire la mano e non hai
nemmeno una pallina e per giunta ti dicono
che sei un coglione e allora è tutto finito, ti
manderanno per due anni a raccattare soltanto
Alvarez vietandoti di chiedere i polsini
e facendoti perdere a volte anche la premiazione
dell’ultimo giorno quando hai l’unico
momento di gloria delle due settimane
di raccattapallaggio e quando la presentatrice
della finale dice “salutiamo i raccattapalle”
e tu pensi, e lo pensi davvero, che in fondo
quegli applausi siano davvero per te e
per come hai raccattato, cioè giocato, nonostante
i tuoi errori, nonostante in pochi sanno
che l’ultimo giorno al foro Italico c’è soprattutto
chi pensa come andare dal custode
Gaspare e farsi dare le palline che sono
rimaste, o magari andare nei campi abbandonati
a prendersi qualche asciugamano
per poi spacciarlo come quello della finale,
o magari per prendere i simbolini della
Mercedes appesi alla rete o per andare in
campo e prendersi un po’ di terra rossa. Senza
sapere poi che c’è gente come Jim Courier
che i raccattapalle non li salutava più
tanto volentieri, per colpa di quella pallina.
Le tasche vuote e la fidanzata di Rios
Courier non sopportava che la pallina gli
arrivasse vicina ai piedi. Si voltava, si avvicinava,
si girava e ti guardava. Aveva il cappellino
bianco con la visiera piegata a V. Sotto
la fronte non passava la luce, gli occhi restavano
in penombra e lo sguardo non era proprio
chiaro se si rivolgesse a te, al pubblico,
al giudice di linea che gli aveva appena chiamato
una palla uscita tanto così ma che lui
invece aveva visto dentro così. Courier però
ti guardava e si incazzava. La pallina doveva
partire dalla tua mano in maniera precisa,
limpida, tratteggiando una parabola attraverso
la quale la pallina, una volta poggiata
sulla terra rossa (di quel campo adiacente all’ingresso
dello stadio Olimpico che una volta
era il centralino e che ora è stato trasformato
in un incastro di gambe, giocatori, palline
volanti, segnalinee ululanti, punteggi,
borracce), doveva arrivare sulla sua mano
immobile. Courier le palline le voleva precise.
Le sue gli giravano spesso e quando l’avversario
prendeva il net e non chiedeva
sorry lui non la prendeva bene. E quando
non la prendeva bene, la pallina doveva arrivargli
nella mano, precisa precisa sulla mano.
Non è uno scherzo, perché quando giocava
Courier era davvero bello poter essere lì
dietro di lui a cercare di capire come facesse
con quell’impugnatura improponibile a
fare quel dritto pazzesco, a giocare di panza,
un po’ come Sergi Bruguera un po’ come gli
spagnoli che sono i veri re delle qualificazioni
maschili. Ma negli ultimi tempi sapevi che
Courier era diventato un po’ nervoso e tu sapevi
che se non eri in giornata era meglio nascondersi
dietro un angolino mimetizzato tra
un braccio alzato di un giudice di linea e il
telone anti pioggia. Perché quando Jim era
incazzato tutti sapevano che con lui non si
doveva sbagliare e soprattutto tutti sapevano
che mangiare un panino con le patatine fritte
e tredici polletti del McDonald’s prima di
scendere in campo non era mai una grande
idea. E non importa che quella partita te l’avevano
assegnata all’improvviso. Non importa
che tu non avevi detto nulla della raccattapalle
che si era fidanzata con Marcelo
Rios, di quello che si metteva sempre la felpa
perché in televisione non poteva permettersi
di farsi vedere con le ascelle pezzate,
non importava che tu non avevi detto nulla
dei tuoi colleghi che dicevano mi dispiace
non ho palline e che invece tu vedevi perfettamente
che quei duei bozzi che aveva dietro
la schiena a metà tra i pantaloncini e la maglietta
erano le palline che si era già nascosto
e che erano pronte per essere messe accanto
sul suo schifosissimo comodino.
Jim aveva perso il punto, il raccattapalle a
sinistra era nascosto ancora meglio di te,
perché oltre al telone, oltre al braccio del
giudice di linea c’era anche l’ombra del tabellone
luminoso e chi finiva lì sotto nel vecchio
centralino non lo vedevi più. Come gli
occhi di Jim. La pallina era proprio lì dietro
ed era vicino a te, dovevi muoverti, scattare,
scavalcare i fiori, passare sotto il braccio del
giudice di linea, sopra il telone bagnato, accanto
ai rastrelli del giardinieri e arrivare a
raccoglierla, non pensare alle patatine, tornare
a posto, sorridere perché il raccattapalle
deve sempre sorridere, metterti dritto con
la schiena e disegnare una parabola armonica
con la pallina che lentamente viene rilasciata
dalla tua mano e che dovrebbe toccare
terra, rallentare e finire sulla racchetta di
Jim e che invece quel giorno, tra i vasi, le patatine
e i polli da dodici, prese una strana velocità
e senza disegnare grandi parabole
andò dritta a infilarsi tra le palle di Courier,
il quale, accusando il colpo, scoprì che lì in
fondo a sinistra quella sagoma nascosta sotto
l’ombrellone non era uno scopettone ma
un altro raccattapalle e allora, ringraziando,
da te aveva deciso di non venire mai più. E
tu sei finito, perché tu rimarrai per sempre
quello che ha preso nelle palle Courier, quello
che non ha portato a casa nemmeno il polsino
di Alvarez e quello che diceva sempre
che per te aver raccattato gente come Jim,
come Thomas, come Pit, come André, come
Martina, come Andrea era davvero un po’ come
averci giocato insieme.
Claudio Cerasa
01/05/07
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