Reggio nell’Emilia. La strada era sempre quella e ogni sera, anche a sessant’anni, Ivano Sacchetti aveva deciso che doveva essere così, che doveva essere come al solito e che lui doveva essere come gli altri: un po’ pendolare, un po’ operaio, un po’ vecchio comunista. Allora su e giù, su e giù, come in fondo gli aveva suggerito anche papà: Bologna, via Stalingrado, via Lincoln e poi l’autostrada, i 74 chilometri di A1, lo svincolo a destra, il fiume Panaro, Reggio nell’Emilia, via dei Gonzaga e ogni sera si tornava a casa. Faceva così da trent’anni, Sacchetti: lavorava all’Unipol dal 1964. Dal giorno in cui uno dei fondatori, Oscar Gaeta, lo aveva chiamato per spiegargli come quel progetto sarebbe diventato l’immagine perfetta di un movimento di cooperatori che avrebbe trasformato il mondo delle assicurazioni in un grande “strumento sociale”. Era quella l’Unipol di Sacchetti: non ancora la compagnia che sarebbe diventata il satellite finanziario pronto a lanciare la sua offerta pubblica di acquisto sulla Banca nazionale del lavoro. Era quello che ancora oggi conoscono tutti: era il bollino con la U scontornata sul parabrezza, era il tagliandino verde delle assicurazioni, era l’unico lato tollerabile del capitalismo ed era il modo migliore per poter coniugare il comunismo con i tempi del futuro. Diceva Gianni Brera che la struttura morfologica di Fausto Coppi sembrava un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta. Sacchetti – che oggi ha 64 anni – stava al mondo delle assicurazioni come Coppi stava alla sua bici, e quella bici la conosce anche meglio di Giovanni Consorte.
E’ vero: Sacchetti era meno sanguigno, meno passionale di Consorte. Sacchetti era quello che ai suoi colleghi diceva di non “considerare necessaria la comunicazione”, quello che controllava le penne in ufficio, quello che aveva in mano i conti della compagnia, quello che a Bologna aveva trasformato l’Unipol nel gigante delle assicurazione prima ancora che quel mondo (nel 2007) finisse quotato in Borsa. Prima che, come dicono a Reggio, arrivassero quei bocconiani che con i vecchi cooperatori non c’entrano granché. Certo, a volte Sacchetti e Consorte sembrano una cosa sola. Quasi un unico soggetto giuridico. Non solo per le accuse identiche ricevute negli anni (aggiotaggio, associazione a delinquere, ricettazione, appropriazione indebita). Non solo per le somme di denaro (anche queste identiche) transitate sui conti correnti. Non solo per la famosa consulenza ricevuta dopo il 2001 (quando furono decisivi per il passaggio di Telecom a Marco Tronchetti Provera). C’è dell’altro, naturalmente, e il filo che lega Consorte e Sacchetti è un filo dentro il quale viaggia tutta la differenza che esiste oggi tra una vocazione alla gestione della cosa pubblica (che era la vecchia idea di Unipol) e la vocazione a essere invece, per quella cosa pubblica, un polo finanziario. In Unipol, prima del 2005, Consorte era il manager fuoriclasse, quello che i giornalisti dovevano chiamare per avere il virgolettato giusto che facesse notizia. Sacchetti era invece quello che si occupava di tutto quello che non si vedeva. Quello che in un giornale, per esempio, verrebbe definito uomo macchina. Quello che, mettendoci magari un po’ meno la faccia e la firma, si trova dietro un computer, e titola, fa il giornale e sceglie cosa è giusto e cosa no. In effetti le cose non potevano che andare così: Consorte era arrivato all’Unipol con una laurea e un master in Economia e finanza e aveva già lavorato alla Montedison prima di arrivare a via Stalingrado. Sacchetti, invece, aveva cominciato da perito assicurativo e aveva lavorato anche come docente all’Istituto tecnico industriale Ipsia (lo stesso dove insegnò Giancarlo Tarquini, il procuratore della Repubblica di Brescia che sul caso Unipol ha interrogato il gip Clementina Forleo; lo stesso che come preside, negli anni di Sacchetti, aveva il dottor Franzoni, papà della signora Flavia Franzoni moglie di Romano Prodi). Poi Sacchetti quando arrivò all’Unipol diventò coordinatore degli uffici sinistri di tutt’Italia (girava da Palermo a Bolzano in roulotte, percorrendo ogni anno circa 150 mila chilometri). In via Stalingrado, fu direttore del personale, direttore commerciale, direttore centrale, direttore generale, ed è lui uno degli uomini che hanno scelto di assumere Consorte. Sacchetti è quello a sinistra perché è quello che viene davvero dall’apparato del partito. E’ quello figlio del partigiano Walter – che diventò l’uomo più potente di Reggio. E’ quello che fu iscritto al Pci, al Pds e infine ai Ds. E’ quello grazie al quale, fino al 2005, al nord non esisteva alcuna festa dell’Unità senza lo striscione verde con i caratteri bianchi dell’Unipol. E’ quello che qualcuno considera come la vera mente della compagnia assicurativa. Come il “vero Cuccia delle cooperative”. Come il simbolo forte, anche perché meno esposto, di quel blocco della finanza rossa, oggi diviso a metà (ieri Mps è uscita dall’universo Unipol), che fino a poco tempo fa riusciva a mettere insieme le forze economiche più sensibili alla sinistra. Unipol, i capitani coraggiosi, Mps. Di Unipol Sacchetti fu vicepresidente; di Mps consigliere; di Gnutti (uno dei “capitani coraggiosi”, definizione di Massimo D’Alema, della scalata Telecom) Sacchetti divenne amico quando Gnutti sedeva nel cda della Banca Agricola Mantovana.
Ora, tre anni dopo l’estate in cui erano i muri di Reggio a raccontare meglio di ogni pezzo di cronaca lo spirito di una città ferita nel cuore del suo motore politico, di Sacchetti si sa poco. Non un’intervista. Non una dichiarazione. Non un’intercettazione degna della prima pagina di un giornale. Persino il giorno delle dimissioni da Unipol Sacchetti ha scelto di nascondere la sua voce. Raccontano che quel giorno Consorte presentò un memoriale di tre pagine. Sacchetti no. Scrisse venti righe e spiegò agli amici che non ce la faceva. Che era distrutto e che non c’erano parole per dirlo. Oggi Sacchetti ha scelto di fare il pensionato. Vive a Reggio, non ha una merchant bank, ha due misteri che proveremo a chiarire e come Consorte crede ancora che Unipol doveva essere la “banca del paese”. Ma ci sono alcuni aspetti di questa storia che dimostrano come forse avesse ragione Nanni Moretti quando cinque anni fa ricordava che il comunismo italiano ha a che fare più con l’Emilia che con l’Urss. Sacchetti, in questo, è l’esempio perfetto. Per tre motivi. E almeno per tre storie che da queste parti considerano incredibili. (1. continua)
Claudio Cerasa
2/7/08
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