mercoledì 16 luglio 2008

Il Foglio. "Ecco la storia, milione per milione, dei conti di Sacchetti e Consorte"

Perché la procura ha ritirato la grande accusa

Milano. Arrivi al primo piano della procura di Milano e scopri che il nome di Ivano Sacchetti è un nome che incuriosisce i pubblici ministeri da circa sei anni. E’ vero. Oggi non c’è nessuno che parli e non c’è nessun magistrato pronto a raccontare i lati chiari e quelli invece meno limpidi che riguardano la vita dell’ex numero due di Unipol. Ma a microfoni spenti cambia tutto e non è difficile scoprire che anche la storia giudiziaria di Ivano Sacchetti è una storia che è lo specchio perfetto di un progetto che poteva essere storico. Ed è l’unica storia in grado di raccogliere insieme tutte le sfumature utili per comprendere come è cambiato negli ultimi dieci anni il rapporto tra soldi e comunismo. Tra finanza e socialismo. Quello specchio si è frantumato nell’estate del 2005: Unipol non è diventata il grande polo bancario delle cooperative e Sacchetti non è diventato il presidente di Bnl. In tutto questo, tra le vicende giudiziarie che riguardano i due ex manager (l’altro è Giovanni Consorte), la vita di quei famosi quaranta milioni di euro (non cinquanta, come invece si credeva in un primo momento) finiti sui conti correnti di Sacchetti e Consorte comincia così. Comincia nel 2001, quando la Telecom passò di mano dall’Olivetti di Roberto Colanninno alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera e quando per il passaggio di proprietà risultò decisiva la mediazione di Emilio Gnutti (ex presidente di Hopa, azionista di Telecom, ed ex consigliere proprio di Unipol). Gnutti convinse Colaninno a vendere le sue azioni alla Pirelli e l’ex numero uno dell’Olivetti ricevette una buonuscita di 150 miliardi di lire. A Gnutti, invece, spettarono 50 miliardi. Nei mesi delle trattative per il passaggio di proprietà Gnutti ebbe però un malore cardiaco; come nuovo interlocutore fu scelto Giovanni Consorte e in parte, anche se con un ruolo molto più defilato, Ivano Sacchetti. Sacchetti fu importante nel gestire i rapporti tra la dirigenza Unipol e Gnutti. Fu lui a conoscere il banchiere bresciano quando Gnutti sedeva nel cda della Banca agricola mantovana e fu Gnutti a proporre a Sacchetti e Consorte l’ingresso in Bell (la finanziaria che controllava Telecom). Consorte e Sacchetti entrarono così nella partita Telecom proprio in quanto soci minoritari dell’azienda telefonica (con il 4 per cento del pacchetto). La vendita di Telecom si concluse bene: la stessa Unipol da quell’operazione guadagnò in tutto circa 80,4 milioni di euro ma a Consorte e Sacchetti andò anche meglio. Certo, c’è chi non ha ancora compreso come sia possibile che due manager di una società facciano simili attività di consulenza presso una società esterna. Fatto sta che in quattro anni la “parcella” totale finita sui conti di Sacchetti e Consorte è stata di circa 40 milioni di euro. Fatto sta che i soldi sono tutti transitati da società riconducibili a Gnutti – “Preferivo averli amici che nemici”, dirà poi lo stesso Gnutti in un interrogatorio del 25 dicembre 2005 – e che, secondo la ricostruzione del finanziere bresciano, sarebbe stato proprio Ivano Sacchetti a chiedere a Mantova, alla fine di una riunione con Colaninno, di ricevere quel denaro. Di quei miliardi promessi a Gnutti – dirà poi l’ex presidente di Hopa – “una parte devono venire a me e Consorte, perché ci siamo impegnati anche noi”. (Gnutti ricorderà inoltre che “ogni volta che costruivo un’operazione finanziaria che coinvolgeva l’intervento di Unipol, ovvero di Monte dei Paschi di Siena”, veniva presentato “il conto”, nel senso che si “chiedeva sempre di poter fare delle operazioni con le quali guadagnare a latere”). Sacchetti non è d’accordo. Secondo la sua versione sarebbe stato invece l’ex vicepresidente Unipol, cioè lui stesso, a proporre che fosse riconosciuto a Gnutti il premio di 50 miliardi di lire. In un modo o in un altro, però, i soldi sono arrivati ai due dirigenti Unipol, e tra la fine del 2001 e il 2002 sarebbe stata la banca di Lodi di Giampiero Fiorani a trasferire circa 40 milioni di euro dalle casse di Hopa a quelle di Consorte e Sacchetti. La prima parte della consulenza viene versata il 15 ottobre e il 7 novembre del 2001 e viene versata su due conti correnti del Credit Foncier di Montecarlo. E’ sempre tutto a metà: 2,5 milioni di euro a Consorte, 2,5 milioni a Sacchetti. “Provvigioni della vendita del pacchetto Bell, Lussemburgo”, si legge nella causale del bonifico di Sacchetti. Poi Consorte e Sacchetti incominciano a incassare soldi in un altro modo. Incominciano a farlo, secondo l’accusa milanese, con operazioni costruite ad hoc e comprando azioni e rivendendole a Gnutti a prezzi superiori a quelli di mercato. Consorte e Sacchetti avrebbero incassato 3,4 milioni con Eni, 4 milioni con Autostrade, 3,4 milioni Olivetti, 10,6 milioni con Mps e Capitalia, 3,6 milioni con Fingruppo, 7 milioni con Antonveneta. In tutto, alla fine del 2005, sono arrivati circa 40 milioni di euro. Quei soldi, che rimangono a lungo depositati all’estero, incominciano a rientrare in Italia dal 2002. Quei soldi, dicono ancora oggi Sacchetti e Consorte, sono soldi nostri. Sono soldi che abbiamo investito negli anni. Non c’è nessuna provvista. Non c’è nessuna tangente. Non c’è nessun tesoretto per nessun partito. “Quei soldi – spiega al Foglio un ex cooperatore che ha conosciuto Sacchetti e Consorte – rischiano di essere davvero soldi loro e da un certo punto di vista sarebbe un’ipotesi sempre drammatica: sarebbe la dimostrazione che il vecchio spirito dei cooperatori di sinistra non esiste più. Sarebbe il sintomo vero del fatto che oggi qui in Emilia non ci sono più i dirigenti che come un tempo dividono i soldi con i cooperatori. Oggi, purtroppo, ci sono troppi manager con macchine di lusso e troppe persone che scelgono di distinguersi socialmente e che alla cooperazione scelgono i soldi. Ditemi: è questo che si intende per ‘mutualità’?”.
Al primo piano della procura di Milano ancora c’è chi un po’ dubita della versione dei manager. La cronaca racconta però che oggi sono gli stessi pm che avevano formulato l’accusa di riciclaggio ad aver fatto un passo indietro, ad aver ritirato quell’ipotesi di reato, ad aver ammesso che quei soldi non sono rimasti per così tanti anni all’estero e a raccontare che quell’accusa di tesoretti e di provviste oggi semplicemente “non è dimostrabile”. (4. continua. La prima puntata è stata pubblicata mercoledì 2 luglio, la seconda venerdì 4 luglio, la terza venerdì 11 luglio)
Claudio Cerasa
16/7/08

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