venerdì 4 aprile 2008

Il Foglio. "Storia di una magnifica lapdancer in gravidanza"

Rumena, bellissima, ventinove anni, incinta, malata, non fidanzata ma molto innamorata. Che dice prima le donne e ancora prima i bambini

Lei li faceva impazzire scendendo piano piano dal palco, con una mano che scivolava lungo il corpo e con l’altra che accarezzando le spalle le slacciava a passo di danza giacca, camicia, reggiseno e pantaloncini; lui, invece, non era così cattivo: era bello, era alto, aveva la pellaccia scura, aveva un fisico perfetto, faceva il buttafuori, era molto simpatico, ballava da Dio e poi sì, era un gran puttaniere, e anche per questo lei aveva detto di no. Lei, Caecilia, si era innamorata di John la sera del 15 gennaio, all’ingresso di una famosa discoteca di Milano. Aveva ballato con lui un po’ di salsa, un po’ di merengue, un po’ di tango e un po’ di bachata; aveva parlato per molte ore del suo lavoro, della sua storia, di suo padre, dei suoi fratelli e della differenza che esiste tra una lap, uno strip, un table, una dance e un tease. Così, lui le aveva chiesto il numero, lei gli aveva dato un appuntamento, poi avevano fatto l’amore e dopo poche settimane Caecilia aveva scoperto di essere incinta, e aveva paura che fosse proprio come le altre volte. E in effetti era così, ma questa volta era un po’ diverso.
“Dottore, cos’è quella perlina?”.
Le avevano detto che si sarebbe dovuta calmare, perché in quelle condizioni sarebbe stato davvero pericoloso andare avanti; perché Caecilia era rimasta incinta altre quattro volte ed era andata sempre allo stesso modo. Streptococco, quando sei incinta, significa perdite di sangue, significa mal di pancia molto forte e significa anche gravidanza a rischio. In questi casi, come direbbe il ginecologo, il problema è semplice: “Il prodotto del concepimento” viene in genere espulso vivo e la cervice (il condotto che dalla vagina porta alla cavità uterina) cede quasi improvvisamente sotto la pressione dell’utero. Ti arrivano le contrazioni, tu partorisci, non capisci perché e sulla tua cartella clinica ti scrivono sempre quelle parole lì, “aborto spontaneo”.
Era andata così anche un mese prima, a settembre, prima di incontrare John. Rimase incinta, Caecilia; rimase incinta – di una di quelle gravidanze che per quanto inaspettata lei proprio non riusciva a chiamare “indesiderata” – e poi perse il bambino alla tredicesima settimana. Anche quella volta le fu diagnosticato un aborto spontaneo e anche quella volta Caecilia fu sottoposta a un raschiamento: il ginecologo le dilatò il canale cervicale, le controllò che l’utero fosse pulito con una curette tagliente, a forma di cucchiaio, e le chiese quindi di ritornare un mesetto dopo. Quando tornò per l’ultimo controllo, una volta incontrato John, le spiegarono che era di nuovo incinta.
Non lavorava da tre mesi, Caecilia. Era in uno di quei periodi in cui una vera ballerina di lapdance doveva riposarsi un po’; uno di quei periodi in cui doveva studiare, in cui doveva scoprire nuovi movimenti e in cui doveva sperare che qualche locale, scaduto il contratto, la richiamasse presto. Lavorava molto, lei: dieci mesi l’anno, tutti i giorni della settimana, sette ore ogni notte, chiusure dei locali la mattina alle 4.30 e poi le due settimane di pausa. In quei giorni, però, Caecilia, aveva un mal di testa forte e un formicolio fitto fitto sulla parte destra del viso; fastidioso ma nulla di grave. Caecilia aveva scoperto di essere incinta di notte, tornando da sola a casa dopo aver vinto centocinquanta euro a carte, con un full di donne e assi, a casa di Barbara, la sua ex coinquilina domenicana. Lo aveva scoperto con quel test di gravidanza a cui Caecilia non riusciva a credere. Poi l’infermiere dell’ospedale le confermò tutto. “E’ successo”, disse al suo ragazzo il giorno stesso tornando a casa. John, però, diceva che era troppo presto, che quel figlio era inaspettato, che lui non era pronto, che era troppo giovane, che voleva avere ancora tempo di vivere e che in fondo lui, in quella condizione, non si sentiva ancora a suo agio. E questo, anche se John l’amava, anche se voleva stare ancora con Caecilia, anche se continuava a dirle che lei era la donna della sua vita, che lui avrebbe voluto costruire una famiglia, che non l’avrebbe voluta perdere e che, proprio per questo, lei doveva però interrompere quella gravidanza. John le disse di scegliere. Fu un pomeriggio, lui aveva il turno in discoteca, lei aveva appena fatto due calcoli sul suo conto in banca (“Vaffanculo. Mi dovevano pagare i contributi e invece non mi hanno pagato nulla. Potevo far guadagnare al locale mille euro in più ogni sera, e invece niente: così mi sono svegliata una mattina scoprendo di aver lavorato anni e anni senza aver mai pagato un mese di pensione. Come si fa? Come si fa quando la gente si stanca di vederti mezza nuda e arriva un giorno in cui non ti faranno più lavorare?”); John, prima di uscire, le spiegò che non c’era più nulla da aspettare. Devi decidere, le disse mentre si chiudeva dentro il suo poncho di lana nera. Scegli, o il bimbo o me. Caecilia lo guardò e disse il bimbo, quando ancora non sapeva che era una bimba. Non era una scelta semplice, non lo era per tanti motivi. E non solo per una questione di statistiche: perché, in media, come calcolalato dal population services international, in Romania ancora oggi ci sono moltissime donne che abortiscono. Chi tre, chi quattro volte nel corso della propria vita; perché nel famoso decreto settecentosettanta, firmato da Ceaucescu nel 1966, era prevista anche una legge che vietava l’uso dei contraccettivi e, anche per questo, ancora oggi molte donne rumene incinte, che non desiderano un figlio, ricorrono all’aborto quasi come fosse una pratica contraccettiva. Così, nel 1990, la population services Romania registrò circa un milione di aborti, dopo averne già registrati circa 11 milioni fra il 1989 e il 2000. (La Romania, tra il 2003 e il 2006, secondo un recente rapporto del Conseil de l’Europe, “Evolution demographique recente en Europe”, detiene ancora il tasso di abortività più alto d’Europa, preceduta solo dalla Russia: 46,8 per cento). E anche in Italia basta entrare in un qualsiasi consultorio per scoprire che tra le non italiane le ragazze rumene sono quelle che interrompono di più le gravidanze. Nel Lazio, per esempio, sui quindicimila aborti registrati ogni anno circa un terzo sono quelli fatti da donne rumene. “Rischiano di cadere nella mani delle mammane le donne immigrate, soprattutto quelle irregolari, a causa della mancanza di conoscenza delle norme italiane che garantiscono loro la stessa tutela della maternità e lo stesso diritto di abortire in ospedale”, ripete da tempo Aldo Morrone, direttore dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti.
Ma non era solo una questione di statistiche. C’era dell’altro, per Caecilia: perché con una famiglia un po’ difficile come la sua (il papà rigido ex capo della sezione anticrimine della polizia di Bucarest e i fratelli con qualche guaio in Germania) sapeva perfettamente che non sarebbe mai dovuta rimanere incinta con un ragazzo di colore. A casa, le avevano detto così. E poi c’era ancora la storia della perlina. A marzo, Caecilia arriva in un ospedale lombardo con le contrazioni che le strozzavano l’addome già da qualche mese. In una situazione quasi impossibile: senza uomo, senza lavoro e senza genitori. Il ginecologo, nelle settimane precedenti, era stato chiaro con lei: le aveva detto di stare molto attenta, perché anche quella sarebbe stata una gravidanza a rischio. Per questo, avrebbe dovuto rilassare l’utero. Niente stress. Invece John, che ogni tanto tornava a casa, provava a convincerla e continuava a picchiarla. Arrivata in ospedale, Caecilia era già pronta per partorire. Sulla cartella clinica le avrebbero scritto aborto spontaneo, come le era successo a Bucarest, sei anni fa, come le era successo a Pavia, due anni fa, come le era successo a Pisa, poche settimane prima di rimanere nuovamente incinta. Ma questa volta lei voleva far davvero di tutto per salvare sua figlia. Ci credeva davvero; e aveva scelto di andare avanti, aveva detto che quella bambina l’avrebbe cresciuta anche senza papà e che per non correre rischi avrebbe chiesto a un ginecologo di capire se c’era un modo per non perdere la figlia. Lui le disse di sì; ma per farlo Caecilia doveva essere “cerchiata”. Solo così avrebbe evitato che quella “condizione di precoce dilatazione del collo dell’utero” si aggravasse ancora di più. Caecilia venne operata d’urgenza. Il ginecologo le fece scivolare una fascetta di tessuto non riassorbibile attorno al collo dell’utero, le circondò la mucosa, chiuse il canale cervicale e ripristinò così la funzione di contenimento del materiale ovulare – impedendo la fuoriuscita prematura del sacco amniotico e di fatto evitando anche l’interruzione della gravidanza. Il nastro sarebbe stato poi rimosso solo al momento del parto. Caecilia scoppiò a piangere, ma era davvero felice. In quei giorni, la bambina pesava circa trecento grammi e se fosse nata non ce l’avrebbe mai fatta. A quel punto, però, John non capì: Caecilia gli spiegò in che senso fosse stata “cerchiata”; lui disse che non era possibile; che non poteva credere che le avessero “chiuso l’utero”; che quella era solo una scusa; che lei si era messa d’accordo con il ginecologo; che a lei non gliene fregava più un cazzo di lui; e che in realtà, pensava John, Caecilia aveva un’altra idea. Lo voleva punire. Non voleva più fare l’amore con lui. “Bravi, ottimo piano. Ciao Caecilia, io torno a casa”. E John, nei mesi successivi, tornò davvero a casa.
Due giorni dopo, lei arrivò in ospedale la mattina, molto presto. Fece una risonanza magnetica e capì che quel formicolio fitto fitto sulla parte destra del viso, e quel puntino che avrebbe visto sulla pellicola radiografica che lei avrebbe cominciato a chiamare “perlina”, era un tumore al cervello. Una gravidanza, le avevano detto, non era consigliabile. Perché sarebbe stato rischioso, si sarebbe dovuta curare, avrebbe dovuto fare molte visite, molti controlli, molti esami. Il neurologo le disse che sarebbe stato opportuno non andare avanti. Fermati qui, Caecilia. Lei però la pensava in maniera diversa: litigò con molti dottori (che le avevano suggerito di curare prima il suo tumore e poi di pensare alla bambina), ci pensò a lungo, pensò a tutti quei raschiamenti che aveva già fatto, a quelle vite che aveva già sentito spegnersi dentro di sé per quattro volte e quando glielo chiesero disse semplicemente così: “Prima pensate a lei, poi pensate a me”. Non le interessava come. A Caecilia – che ama molto Oscar Wilde e che sa perfattemente che come diceva lo scrittore inglese “Vita è ciò che succede mentre noi pensiamo ad altro” – interessava solo che quel figlio arrivasse. “Sì, prima le donne e ancora prima i bambini”, dice sorridendo Caecilia, splendida ventinovenne rumena, ottima ballerina di lapdance con mioblasfoma laterale (tra pochi giorni riceverà l’ultima, decisiva, risonanza magnetica), curata praticamente gratis da un ginecologo bravissimo e oggi mamma di una bambina di cinque mesi; nata alla trentottesima settimana (il 25 dicembre del 2007) con un’anca un po’ schiacciata e con un nome bellissimo, metà greco come la nonna e metà rumeno come il nonno; che in italiano suona come Delia, che in greco suona come Delon e che quando lo scandiscono in rumeno è come se ti dicessero che sembri quasi un fiore.
Claudio Cerasa
04/04/08

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