giovedì 10 aprile 2008

Il Foglio. "Catanese, bellissima, sedici anni, mamma"

La scappatella a gennaio, la seconda notte a casa con il ragazzo, i ceffoni del papà, l’alternativa e il problemino. Storia di una Juno di Sicilia


“Tesoro, non credevo fossi in età sessualmente attiva”. “Hai preso in considerazione l’alternativa?”
Bren, mamma di Juno, non appena viene a sapere che la figlia
di 16 anni è rimasta incinta

Questa è mia zia, questa è mia cugina, questa è la mia classe, questa è la villa, questa è mia sorella, questo è il suo ragazzo, questa è la mia mamma, questa è la mia vicina, questo è il bimbo di mia cugina, questo è il mio ex ragazzo, questo è l’autobus che mi porta a scuola, questa è la mia cameretta, questo è il mio papà, questo è il giorno prima, questo è il giorno dopo e questa è mia figlia, che fa così con la manina. Clic. Mariuccia sorride scorrendo i tre giorni più belli della sua vita sullo schermetto verde del suo telefonino. Li guarda, li seleziona, li commenta e li ricorda a uno a uno mentre gioca con un paio di splendide bomboniere rosa spostandole qua e là sul tavolino della stanza da pranzo. Mariuccia ricorda il giorno in cui l’ha provato, il giorno in cui l’ha scoperto, il giorno in cui l’ha deciso, il giorno in cui credeva che il padre stesse per ucciderla e il giorno in cui lui, il suo ragazzo, era andato in farmacia e lei – uscendo dal bagno con i jeans ancora tirati giù, con una mano che stringeva il cellulare e con l’altra che teneva per la punta il suo primo test di gravidanza – aveva scoperto di essere incinta. A quindici anni. L’aveva scoperto, Mariuccia, quando ancora credeva che fosse solo un po’ di suggestione, quando ancora credeva che quella nausea fosse solo un po’ di stanchezza, che quei conati fossero solo colpa di una brutta influenza e che quel ritardo fosse in fondo come tutte le altre volte, quando il ciclo non era regolare e lei sentiva dolori fortissimi all’addome senza capire perché. Invece stavolta era così: Mariuccia aveva appena scoperto di essere incinta, sapeva che il padre era il suo ragazzo, Gabriele, sapeva cosa avrebbe detto sua madre, Teresa, e sapeva che doveva soltanto aspettare che tornasse lui, perché ora doveva dirlo anche a suo papà. Cazzo. Mariuccia aveva cominciato quasi per gioco, con Gabriele: lei andava spesso a casa di Carmela, la sua migliore amica; Carmela si era innamorata del cugino di Mariuccia, le aveva chiesto di uscire con lui, Mariuccia aveva organizzato l’incontro, Carmela naturalmente aveva detto di sì anche se, il giorno dell’appuntamento, la mamma l’aveva costretta a uscire di casa accompagnata dal fratello. Il fratello – che era bassino, che era un po’ magrolino, che aveva un paio di occhialetti con la montatura leggera – era proprio Gabriele, e dopo due settimane Mariuccia era già terribilmente cotta: lui le chiese una prova d’amore, lei ci pensò un po’; pensò che quello era il momento giusto e anche se i genitori non glielo avrebbero mai perdonato lei gli disse di sì.
La prima volta per Mariuccia doveva essere quella: doveva essere con quella fuitina, con quella piccola fuga d’amore con cui una coppia molto giovane costringe i genitori ad accettare il fidanzamento. E quella doveva essere una sera non come le altre, doveva essere la notte del loro amore, doveva essere la notte della prima volta; e poteva finire lì, poteva durare solo quella sera o poteva durare anche per tutta la vita. Perché in quella notte si fanno molte promesse, ci si dice rimarremo insieme per tutta la vita, e lui diventerà marito, lei diventerà “mugliere”, ci si scambierà le fedine, poi si tornerà a casa e quando i genitori ti guarderanno negli occhi sapranno perfettamente che la notte prima tu e lui avete fatto l’amore. Per la prima volta. Quella sera, Mariuccia era emozionata e aveva già pensato a tutto: al vestitino, alla valigia, alle calze, alle scarpe e persino alle mutandine. Solo che non sapeva ancora dove. Poi, quando ci pensò, capì che era un mezzo pasticcio: non sarebbe potuta andare a casa della cugina, perché i genitori di lei non avrebbero capito; e non sarebbe potuta andare a casa dell’amica, perché i fratelli non avrebbero gradito. Che fare? Mariuccia aveva pensato a una villa, aveva fatto un giro da un’altra amica, aveva persino cercato un posto in un sottoscala. Ma niente. Alla fine, un’amica dove andare la trovò davvero. Ma quella fu comunque una serata terribile: Mariuccia ricorda che faceva freddo, che si era sentita in colpa, che aveva cominciato a piangere e che quella notte era andato tutto così storto che anche il cielo sembrava che piangesse. Così, Gabriele si spaventò, le cominciò a urlare “amuninne!”, “amuninne!”; Mariuccia prese il telefonino e fece quello che in questi casi non andrebbe mai fatto: perché quello è il momento in cui tu diventi grande, il momento in cui tu diventi autonomo e il momento in cui, chi ti conosce, sa bene che tu hai fatto il primo piccolo grande passo della tua vita. Perché il giorno prima, anche se lei aveva quindici anni e anche se lui ne aveva sedici, avevano detto che da quel momento i problemi si sarebbero risolti in due. E invece Mariuccia cominciò a piangere, chiamò la mamma e dopo poche ore, lei e Gabriele, tornarono a casa molto tristi. Tristi, ma per poco tempo: perché sì, la fuitina era andata male, non ebbero neppure il tempo di farlo, ma nonostante tutto Gabriele e Mariuccia continuarono a vedersi, continuarono a farsi tantissimi squilletti con il telefonino, e lui le regalò una fedina di argento, poi la invitò a casa, le disse che i genitori erano partiti, lei attraversò il cortile che separava il suo appartamentino da quello del ragazzo, arrivò alla palazzina “g” e salì tre rampe di scale; lui la baciò forte sulla bocca, le disse che voleva fare l’amore, che voleva farlo subito e che avrebbe voluto farlo per la prima volta. Con lei. Mariuccia cominciò a baciarlo, lo abbracciò, lo spinse verso il letto, gli slacciò i pantaloni, si sfilò la maglietta e senza togliersi le scarpe lo guardò fisso negli occhi mentre faceva l’amore con lui. Era la prima volta, per lui, e lo era anche per lei. Era tutto perfetto, ma non andò granché: lei sentì un forte pizzicorio allo stomaco, cominciò a urlare, si spaventarono tutti e due, lasciarono le cose a metà, poi Mariuccia si mise a piangere e tornò svelta svelta a casa. Fu l’unica volta che andarono a letto insieme. Fu sufficiente, però: perché lei era innamoratissima, continuò a frequentare Gabriele e due mesi dopo, uscendo dal bagno con i pantaloni tirati giù e prima che Gabriele le dicesse che non se la sentiva più di stare con lei, Mariuccia scoprirà di essere rimasta incinta. “Ho un problemino”, disse all’amica Carmela pochi minuti dopo il test. Le disse solo questo, poi chiuse il telefono e rimase tutto il pomeriggio sdraiata sopra il suo letto a castello, fissando i tre poster di Zac Efron che la sorella aveva appeso sul muro della cameretta giusto qualche giorno prima. Quindici anni, studentessa, senza soldi, senza lavoro, con un papà nervoso, una mamma casalinga e un ragazzo che sarebbe diventato, di lì a poco, un vero stronzo e che le avrebbe detto di non sentirsi sicuro, di non essere più certo dei suoi sentimenti e di non sapere come andare avanti, con quel “problemino lì”.
Mariuccia c’aveva pensato: aveva pensato di esser troppo piccola, aveva pensato che un dispiacere così ai genitori non lo avrebbe mai voluto dare, aveva pensato che a casa non avrebbero avuto i soldi per far crescere pure una nipotina, che la mamma non avrebbe mai capito, che il papà non l’avrebbe mai accettata e che a quell’età forse sarebbe stata solo una stupidata. Così, Mariuccia aveva chiamato un’amica – la stessa che l’aveva ospitata per la sua piccola fuitina – e le aveva chiesto semplicemente come si faceva quella cosa lì. “L’alternativa”. Lei glielo aveva spiegato, Mariuccia sapeva che era ancora in tempo e sapeva che le sarebbero bastati quindici minuti per risolverle il problemino. Ci pensò due giorni, poi la mamma la chiamò in cucina, la guardò negli occhi, lei si mise a sedere con le gambe incrociate, con le suole delle scarpe che le sfioravano il sedere e la mamma glielo chiese. Le chiese se se la sentiva davvero; le chiese se fosse sicura di andare avanti; le disse che la vita le sarebbe cambiata; e le ricordò che quella che aveva fatto era comunque una cazzata. Ma ora doveva decidere lei.
Che fai, Mariuccia?
Lei c’aveva pensato tutta la notte, aveva pensato a quelle sue amiche che – anche loro molto giovani – erano rimaste incinte qualche mese prima e che per una ragione o per un’altra avevano deciso di non far crescere più il bambino nella propria pancia (Mariuccia frequentava il secondo anno di un corso statale per addetti di segreteria d’azienda e nella sua sezione già quattro ragazze erano rimaste incinte: una aveva portato avanti la sua gravidanza, una aveva scelto di dare in adozione il bambino e le altre due invece no). Ci pensò e prese in considerazione l’alternativa, perché quando hai quindici anni e quando ti ritrovi tra le mani “uno scarabocchio che non si può cancellare” – , come direbbe il farmacista che nel film Juno passa da sopra il bancone il test di gravidanza a Ellen Page –, allora capita che ti spaventi e la prima cosa che potresti pensare è semplicemente quella: come sbarazzarmene? Invece no: invece Mariuccia aveva detto che comunque quella era una cosa bellissima, e sarebbe stata bellissima sia se l’avesse tenuto, sia se l’avesse fatto adottare (“Basta che u pucciriddu non lo danno a cu’ capita”, diceva lei); e sarebbe stato così anche se le amiche si sarebbero allontanate; anche se i genitori di Gabriele le avrebbero consigliato di interrompere la gravidanza; anche se a scuola non ci sarebbe più andata per un bel po’; anche se nel palazzo avrebbero cominciato a prendere tante informazioni e i vicini pettegoli avrebbero cominciato a bisbigliare da una porta all’altra (“Ma è vééééro che è incinta? Vééééro, è?”). Mariuccia, però, fissò la madre con i suo occhioni neri e le disse che voleva andare avanti. Lei si mise e piangere, la strinse fortissimo al suo seno e cominciò a riempirla di baci sulla bocca; iniziando a parlare con la bimba nella pancia della figlia mentre giorno dopo giorno vedeva crescere la nipotina sempre di più in quel corpicino da quindicenne; che secondo qualcuno sarebbe perfetto per quei “pervertiti, che godono a vedere (…) una ragazzina, quasi una bambina, con un corpo deformato dalla gran pancia della gravidanza avanzata” (Lietta Tornabuoni, la Stampa, 4 aprile 2008, recensione di Juno) e che invece, per quella mamma di Acireale, in quel momento era semplicemente una nipotina che cresceva.
Ora però toccava dirlo al papà.
Mariuccia sapeva che il papà non si trovava in un periodo così facile: era uscito pochi mesi prima di galera, era finito dentro per una serie di piccoli reati sul patrimonio, aveva scontato la sua pena, era tornato a casa, aveva trovato qualche debituccio sul conto in banca e per questo aveva cominciato a lavorare sodo, trovando un posto come saldatore e uno come montatore esterno e iniziando a girare l’Italia (dal lunedì al sabato) tornando a casa, distrutto, solo due o tre domeniche al mese. Quella domenica, una domenica di marzo, il papà di Mariuccia era arrivato a casa con un treno da Venezia, la mamma lasciò passare qualche giorno, cercò di farsi coraggio, pianse molto, chiese consigli alla sorella, le disse che era disperata (“Fallita sono: a figghia mia non m’ascutau. Mai m’immaginavo io che Mariuccia mia potesse fare una cosa del genere. A me, a me che io le ho aperto gli occhi. A me che le dicevo ‘Mariù’, vedi che i carusi sono accussì, vedi che i ragazzi solo quello cercano, e tu devi saperi unni metti i piedi!”), poi decise di far uscire Mariuccia di casa, prese per mano il marito e gli disse che la figlia era incinta. Lui non la prese bene. “Basta! Pimmia sinni pogghiri. Io non la voglio più intra ‘sta casa!”, iniziò a urlare il papà mentre buttava i vestiti di Mariuccia sulle mattonelle del corridoio. “Devi dire a tua figlia di non rientrare più qui. Maledetto quel caruso, quel ragazzino, che ha rovinato la mi casa”, disse scoppiando a piangere, prima di trovare Mariuccia a casa della cognata, prima di darle due ceffoni e prima di chiederle scusa, piangendo ancora un po’ e facendosi perdonare comprando poi regalini per tutta la gravidanza. Scusa, amore mio.
Il ragazzo, Gabriele, però non si faceva più sentire: il papà di Mariuccia lo chiamò spiegandogli che lui doveva prendersi tutte le responsabilità del caso (“Come sei stato grande per metterla incinta ora deve essere grande per mantenerla”, gli disse ) ma lui aveva smesso di rispondere al telefono, Mariuccia aveva deciso di mollarlo ed era così rimasta sola con i genitori; dormendo pochissimo la notte, scoprendo che a Giarre, a pochi chilometri da casa sua, c’era un meraviglioso centro di aiuto alla vita che l’avrebbe aiutata a portare avanti la gravidanza; e poi iniziando a uscire ogni giorno con la mamma, cominciando a guardare i vestitini, mangiando un sacco di cocco, un sacco di patatine, un sacco di ricci di mare, provando a fare quello che secondo lei avrebbe dovuto imparare a fare una mamma (“Mi sono anche imparata a fare il punto croce e poi mi sono imparata anche a ricamare”) e vedendo la futura nonna che il giorno stesso che l’ecografo le aveva detto che era una femminuccia era scappata via di casa per entrare nel negozio di prima nascita spendendo per il vestitino della nipotina tutto lo stipendio di agosto.
Fu una gravidanza magnifica.
Poi lo scorso 29 ottobre, Mariuccia entrò nel bagno di casa e cominciò a gridare: “Mamma!!”. Mezz’ora dopo era in ospedale e un’ora dopo era su un lettino dove cinque ore più tardi avrebbe visto nascere quella bambina bellissima che oggi ha sei mesi, che sembra sua sorella, che veste largo come i cantanti famosi, che non sopporta le sciarpette, che ha un sacco di pigiamoni gialli, che non vuole mai il latte, che come la piccola di Juno rischiava di non nascere e che invece ora ha due guance grandi grandi come quelle della nonna e che quando ti guarda negli occhi si dà due pugni in testa e poi ti saluta con la manina.
Claudio Cerasa
10/04/08

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