domenica 20 aprile 2008

Il Foglio. "Ostaggi in Iraq, ostaggi delle procure"

A Bari un pm rincorre il mito del bodyguard mercenario e mascalzone. Dimenticandosi delle medaglie al valore (e di Quattrocchi) si incaponisce contro Stefio. E contro chi ha rischiato la vita per sicurezza e pagnotta
Salvatore Stefio è quello a sinistra con la magliettina bianca, le gambe incrociate, il passaporto tra le mani, la pistola delle Brigate Verdi di Maometto puntata per cinquantasei giorni sulla testa e una prigionia finita con due proiettili di piccolo calibro esplosi tra gli occhi bendati del suo collega Fabrizio Quattrocchi. Quattro anni dopo il sequestro iracheno dei bodyguard italiani, rapiti nel disprezzo borioso degli sconclusionati custodi dell’internazionalismo pacifista (oggi per fortuna rimasti dietro le porte dal Parlamento), quattro anni dopo l’esecuzione di Fabrizio Quattrocchi c’è una procura della Repubblica, a Bari, che ha deciso di rincorrere in un’aula di tribunale il mito del mercenario invasore e mascalzone. Venerdì mattina Salvatore Stefio e il suo collaboratore Giampiero Spinelli sono stati rinviati a giudizio con un capo di imputazione che in mezzo secolo di Repubblica, prima d’oggi, non aveva mai superato la fase delle indagini preliminari (“arruolamenti o armamenti non autorizzati a servizio di uno stato estero”). Un capo di imputazione che significa articolo 288 del codice di procedura penale; che significa “fiancheggiamento dei militari stranieri”; e che significa “reclutamento in territorio iracheno in favore dello straniero e in cambio di un corrispettivo economico”. La procura di Bari (che nel 2004, definendo quei bodygard “fiancheggiatori delle forze della coalizione” aveva detto che “questo spiega, se non giustifica, l’atteggiamento dei sequestratori nei loro confronti”, prima di vedersi spernacchiata da un saggio Tribunale del riesame) oggi con sfumature non distanti da quelle adottate qualche tempo fa da Oliviero Diliberto (che aveva definito Stefio, Quattrocchi, Agliana e Cupertino “mercenari”) vorrebbe far scivolare su carta bollata una differenza sottile sottile; quella che potrebbe esistere tra una guardia del corpo (che in territorio di guerra scorta la vita di chi prova a fertilizzare il terreno della pace) e un cittadino che invece viene onestamente pagato per combattere al fronte. L’incaponimento dei magistrati di Bari, però, più che un processo a Stefio o a Spinelli sembra voler mettere in discussione la legittimità stessa dell’esistenza di un bodyguard o di un contractor in una zona di guerra. Il processo al contractor è un’idea che rischia di correre sulla stessa corsia di chi ieri definiva i terroristi resistenti e di chi oggi vorrebbe invece dimostrare che l’americano in Iraq è solo un maledetto invasore; e che chiunque porti ossigeno alla sua missione, e chiunque garantisca anche indirettamente la sua sicurezza, è un mezzo criminale che non può che legittimare ogni difesa della “resistenza”. Non è certo un mistero che in quei mesi del 2004 il governo provvisorio iracheno aveva chiesto che ogni azienda appaltatrice provvedesse alla tutela dei propri uomini anche con servizi di bodyguard (Stefio scortò in Iraq anche l’ambasciatore italiano Gianludovico De Martino); non è certo un mistero che sia stato lo stesso governo Prodi ad aver dedicato un capitolo di bilancio ai contractor nelle missioni di pace (nell’ultima Finanziaria sono stati stanziati circa 3,5 milioni di euro); e non è un mistero che l’Italia non solo partecipa ancora oggi al progetto internazionale di ricostruzione dell’Iraq ma che dell’International reconstruction fund for Iraq è per di più copresidente. “Con un’ipotesi di reato come questa – dice al Foglio Alfredo Mantovano, senatore del Pdl – è quasi come se si volesse affermare che il cittadino che viene pagato per lavorare in territorio di guerra commette un alto tradimento. La logica sembra essere quella che vuole negare la ricostruzione di un paese come l’Iraq in condizioni di sicurezza. Ragionando per assurdo si potrebbe arrivare al passo successivo, dire che sia più o meno un reato lavorare in Iraq vicino agli americani”. E sempre ragionando per assurdo verrebbe da dire che se a Quattrocchi è stata assegnata la medaglia d’oro al valor civile (“vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l’Italia”) oggi invece c’è una procura pronta a dimostrare che guadagnarsi onestamente la pagnotta come facevano Quattrocchi, Stefio, Agliana e Cupertino semplicemente non si può fare.
Claudio Cerasa
20/04/08

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