venerdì 7 marzo 2008

Il Foglio. "Ventuno settimane e mezzo"

Diagnosi, certificati e i 4 mila casi l’anno. L’aborto terapeutico raccontato da due medici che lo fanno

Sono due professori molto famosi, insegnano all’università romana della Sapienza, dirigono, insieme, il dipartimento di Ostetricia del Policlinico Umberto Primo e quando dicono due virgola sette, quando dicono diagnosi, certificato, ovulo, dilatazione, inserzione, contrazione ed espulsione, vogliono dire semplicemente quello: “a. t.”, aborto terapeutico. Bisogna parlare con loro, salire al primo piano di via del Policlinico 155, superare un corridoio non molto lungo, entrare in una stanzetta di venti metri quadri e sedersi di fronte a due poltroncine nere per capire, a poco a poco, cosa sia quel “due virgola sette”, cosa siano quelle 3.888 interruzioni di gravidanza, non volontarie, fatte dopo la dodicesima settimana e che cosa ci sia, clinicamente, culturalmente e giuridicamente, dietro a quello che fino a due anni fa, prima di una storica sentenza della Corte di Cassazione, oltre che “aborto terapeutico” si chiamava ancora, letteralmente, “aborto eugenetico”. Parlano di “vitalità”, parlano di rianimazione, parlano dell’uso poco controllato della diagnosi prenatale, parlano del senso, non solo clinico, del “fallimento riproduttivo” e parlano con l’esperienza degli “abortion doctor”, come li chiamerebbe Garson Romalis (il famoso ginecologo di Vancouver, recentemente minacciato di morte, che appena un mese fa aveva spiegato sul National Post in che senso “he is honoured”, onorato, di essere un medico abortista: “I can take a woman, in the biggest trouble she has ever experienced in her life, and by performing a five-minute operation, in comfort and dignity, I can give her back her life”; “posso salvare una donna nel momento più difficile della sua vita e con un intervento di cinque minuti posso rimetterla in vita”). Rispetto alla stragrande maggioranza delle interruzioni di gravidanza, quelle effettuate dopo il novantesimo giorno, previste dall’articolo sei della legge 194, sono una piccola frazione, sono il due virgola sette per cento di quelle totali, sono meno di quattromila all’anno (circa dieci al giorno) e la maggior parte di queste, il 2 per cento, vengono registrate tra la tredicesima e la ventesima settimana; un numero, dunque, ben inferiore rispetto alle 144 mila interruzioni di gravidanza fatte ogni anno in Italia; ma per quanto questo sia un numero piccolo, i casi di aborti più discussi sono proprio questi; sono casi come quello, recente, della signora napoletana che ha abortito un bimbo con sindrome di klinefelter; e sono casi, meno recenti, come quello del bimbo abortito vivo a Firenze, all’ospedale Careggi; casi rari, ma molto significativi. Anche perché, a cavallo tra la ventunesima e la ventiduesima settimana, il feto non è più quello che i ginecologi chiamano “materiale non strutturato”, “tessuto fetale”, “grumo di sangue”, “abbozzo placentare”, e si capisce perché non è così semplice per un abortion doctor parlare dell’argomento, spiegare cosa significa essere un medico abortista e spiegare cosa significa interrompere una gravidanza con un feto “maturo”. Non è semplice, ma il professor Maurizi e il professor Bernardi – seppur con due pseudonimi – invece lo fanno; ne parlano a lungo; riconoscono che i problemi ci sono, eccome; riflettono su quali possono essere i dettagli più importanti per capire di cosa stiamo parlando; e, in un’ora buona di conversazione, provano a spiegarsi così.
“Ecco, appunto: di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di quei quattromila casi all’anno di interruzioni di gravidanza effettuate dopo il novantesimo giorno, quando l’interruzione perde completamente il suo carattere di volontarietà diretta e quando non può più essere la donna a dire ‘questa gravidanza io non voglio più portarla avanti’. Ora, il primo punto su cui si dovrebbe riflettere è questo. Cosa succede prima di un’interruzione? Cosa succede con la diagnosi prenatale? Cosa succede con l’amniocentesi? Io credo che a questo punto della gravidanza, tra la dodicesima e la ventiduesima settimana – probabilmente a causa di una strana forma mentis sbocciata all’interno della nostra cultura – è piuttosto evidente che la donna si senta ormai come investita dalla responsabilità sanitaria del proprio figlio. E’ come se una donna incinta ‘deve’ fare una serie di analisi. Dico ‘deve’ perché, anche se nessuno la obbliga, la ‘società’, perdonate la parola, sembra che stia lì a pressare la donna chiedendole scusa perché non hai ancora fatto quell’esame? Perché non hai ancora fatto quelle analisi? Perché non hai ancora fatto quell’accertamento? Certo, non va dimenticato che la diagnostica prenatale ha permesso a molti genitori di affrontare la gravidanza in maniera più consapevole; che ha dato, per altro, la possibilità alle coppie di avere tutto il tempo per pensare alle giuste cure per un possibile bambino malato; e che senza diagnosi prenatale le mamme un po’ più grandi della media non avrebbero forse neanche il coraggio di affrontarla, una gravidanza. Mi è un po’ difficile, però, negare che negli ultimi anni questo tipo di diagnostica sia stata percepita come una chance per aver garantita la possibilità, per non dire il dovere, di avere un figlio ‘sano’”. Il professor Maurizi continua il suo ragionamento. “Funziona così. Subito dopo una diagnosi, tu, medico, hai il dovere di comunicare alla paziente tutte le conseguenze che potrebbero essere legate a un determinato difetto genetico. A quel punto, devi essere certo che la paziente sia pronta a comprendere, e possibilmente ad accettare, quel tipo di difetto; che possa capire perché, molto spesso, il problema diagnosticato può essere curato dopo la nascita; e che sia chiaro, per lei, che se un figlio nasce con un problema, non è detto che questo sia irreparabilmente malato. Attenzione, però. Stiamo attenti quando medici e pazienti utilizzano la parola ‘sano’. Che cosa si intende per ‘sano’? Ecco: non dimentichiamo che circa il tre o il cinque per cento dei nati presenta una malformazione più o meno grave, e che il tre o il cinque per cento, in questi casi, significa che su 50 mila neonati all’anno 1.500 sono malformati. Questo si chiama rischio di specie; e per quanto esista lo spettro del ‘bambino malformato’ e per quanto sia una realtà, ormai, che 95 casi su 100 di interruzioni di gravidanza dopo il novantesimo giorno siano legati a ‘gravi’ malformazioni cromosomiche, non si può certo pensare che questo rischio di specie possa scendere a quota zero”. Per “gravi malformazioni cromosomiche”, spiega il professor Maurizi, si intendono quei casi di disordine cromosomico conosciuti con la definizione di “trisomie” e che, a seconda della gravità del disordine, sono più o meno vicini alla sindrome di down o a quella di Edwards. Il professor Bernardi non usa la parola eugenetica, ma – spiega – il mito del figlio perfetto è difficile dire che non esista. “Certo, siamo noi stessi ad accorgercene: non si tratta di volere un figlio bello, alto, biondo, con gli occhi azzurri. E’ semplicemente la pretesa, direi culturale, di un bimbo perfetto, di una diagnosi perfetta, di una gravidanza perfetta. Ecco – continua il professore – questa per i medici è una pressione non da poco: con che coraggio, oggi, un dottore troverà le parole giuste per dire a un genitore guardi, suo figlio potrebbe avere un disordine”. I due professori, a questo punto, affrontano un discorso molto delicato. Ricordate? Poche settimane fa, la signora Silvana – la donna napoletana che ha abortito alla ventunesima settimana un bambino con sindrome di klinefelter – rispondeva così al cronista che le chiedeva se fosse stata proprio la scoperta della patologia a farle decidere di abortire: “Non c’era altra scelta. Appena mi hanno comunicato che mio figlio sarebbe stato un malato per tutta la sua vita, non ho avuto dubbi. Ho deciso al momento, d’istinto: abortisco”. Può sembrare strano, ma superato il novantesimo giorno, tecnicamente una donna non può, e non deve, decidere nulla. L’interruzione, come detto, dopo novanta giorni non si chiama più volontaria, si chiama terapeutica; e, seppur d’istinto, il “non avere altra scelta” dovrebbe avere come soggetto un medico, non una mamma. “Il fatto – spiega il professor Maurizi – è che la parola terapeutica è una parola impropria, perché l’essenza ‘terapeutica’ dell’interruzione non ha, in realtà, nulla a che vedere con il feto, visto che quell’aggettivo si riferisce non al pancione ma alla salute della madre. Faccio un esempio. Mettiamo che arrivi una signora rimasta incinta, mettiamo che al suo feto sia diagnosticata una malattia, magari non così poco grave come quella del kilinefelter; e mettiamo che questa signora impazzisca e che, una volta venuta a conoscenza delle possibili problematiche, tenti il suicidio. Chiariamo: è giusto far di tutto per spiegare a una donna quali siano le cure, quali siano le soluzioni, quali siano le opportunità; ma il problema, formalmente, non è il klinefelter; il problema, per un medico, è il disagio psichico della donna. E’ per questo che qui si parla di salvaguardia della salute ‘psichica e fisica’ materna. Certo, va anche detto che oggi una gravidanza il cui prolungamento comporterebbe un rischio vero per la vita della madre è molto difficile trovarla; e in media, infatti, qui in ospedale ci troviamo di fronte a casi simili poche volte all’anno: parliamo di tre donne ogni cento. Ma – si scalda il professore – avendo sentito una carrellata di stronzate sull’argomento, è importante dire che dopo il novantesimo giorno tutto è nelle mani del medico, e la donna non può e non deve scegliere nulla. Semplicemente perché il medico non le dà alcuna scelta; e anche se questa signora arriva e comincia a sbattere la testa contro il muro e mi comincia a urlare voglio interrompere, voglio interrompere voglio interrompere, io medico non posso dire è la ‘tua’ scelta. Non so se il discorso è chiaro: per interrompere una gravidanza non è sufficiente avere una malformazione, deve essere a rischio la salute psichica della madre”. Il professore fa un’altra riflessione e prende spunto da un editoriale comparso due anni e mezzo fa sul British Medical Journal, “Why are the doctors so unhappy?”. “Guardi – prosegue Maurizi – io non sono credente: faccio un ragionamento, diciamo, da laico. Oggi la situazione è questa: la paziente non conosce più né la cultura della sofferenza né la cultura della morte. Può sembrare strano, ma in effetti è sempre più difficile spiegare ai pazienti che esiste la malattia, che esiste il decesso, che esiste il dolore e che, in fondo, l’accuratezza diagnostica non potrà mai essere del cento per cento”. L’accuratezza diagnostica è un tema che i due professori consigliano di non sottovalutare. Su questo aspetto, i dati più indicativi sono quelli che vengono raccolti ogni anno dalla Sieog, la società italiana di ecografia ostetrico ginecologica, che proprio in una delle ultime copie della sua rivista ufficiale riporta un passaggio significativo, spiegando come “l’eccessiva medicalizzazione della gravidanza abbia portato in assoluto a un eccessivo uso di esami di screening e di test diagnostici”; tanto che “non solo il 78,8 per cento delle donne italiane ha eseguito un numero maggiore di ecografie rispetto a quelle raccomandate dal protocollo nazionale ma il 29 per cento ne ha fatte più del doppio, sette”. E qui il commento a questi dati, da parte della Sieog, è simile a quello fatto dei due professori: “E’ difficile considerare tutto questo come un miglioramento della qualità dei livelli assistenziali rispetto al passato”.
Con un piccolo salto indietro, arrivando alla prima metà di febbraio, il professor Maurizi spiega un po’ meglio il significato di quel famoso testo sulla rianimazione dei grandi prematuri e sulla rianimazione, dunque, anche di quei feti abortiti vivi a cavallo tra la ventunesima e la ventiduesima settimana (“una crudele pratica insensata”, secondo il ministro della Salute Livia Turco; “un oggetto di un crudele accanimento terapeutico e di nuove sperimentazioni”, secondo l’editorialista di Repubblica, Miriam Mafai); un testo, quello, ripreso pochi giorni fa anche dal vicepresidente del Comitato Nazionale di bioetica, Lorenzo D’Avack; in un suo intervento, D’Avack aveva infatti spiegato così perché, se vitale, il feto deve essere sempre rianimato. “Non è eticamente accettabile porre dei paletti temporali per fissare a partire da quale età gestazionale si debba o meno procedere alla rianimazione del feto; e anche se è chiaro che è sempre opportuno cercare una linea condivisa con i genitori (…) nella eventualità che, in presenza di feto vitale fortemente prematuro, non si giunga ad una posizione condivisa, allora deve essere prevalente la decisione del medico a favore della rianimazione”. Quel testo il professor Maurizi lo ha firmato ed è stato, tra l’altro, anche l’unico ginecologo non obiettore ad averlo fatto. Anche per questo è piuttosto interessante seguire come il prof articoli il suo ragionamento, per capire in che senso, per un abortion doctor, un feto si dice vitale e per comprendere perché l’aborto è in realtà un’espressione che i dottori non usano più da tempo. “In effetti il termine ‘aborto’ è tecnicamente un termine improprio, se vogliamo ‘convenzionale’, dato che dopo i novanta giorni sarebbe più corretto parlare di interruzione di un processo evolutivo della gravidanza. Credo sia un nodo chiave, questo. Vi siete mai chiesti qual è il limite tra un’interruzione e un parto prematuro? Spiego meglio. Fino a qualche anno fa, l’aborto era solo una terminologia giuridica che si collegava a un limen, a un limite giuridico: prima dei 180 giorni di gravidanza si diceva aborto, dopo i 180 giorni si parlava di parto prematuro. Ecco, oggi, se uno studente all’esame mi dice che tra aborto e parto il limite è il 180° giorno, io lo prendo, lo boccio e poi gli dico che i giorni non c’entrano nulla, e che il limite da considerare è quello della sopravvivenza del feto. (Anche se c’è chi come l’International statistical classification of diseases, tuttora considera il peso come unità di misura della vita: 500 grammi è vita. 499 invece no)”. Il professore va nel dettaglio: “Facciamo un esempio: in nessuna casistica, in nessuna parte del mondo, un feto può vivere a ventuno settimane. In quel caso, la sopravvivenza è uguale a zero e qualsiasi cosa tu faccia rischia di diventare accanimento terapeutico. Se invece hai anche la minima possibilità che quel feto possa sopravvivere, tu devi comunque assisterlo. Punto. Per questo credo sia assurdo dire che un feto di ventuno settimane viva ugualmente. A ventuno settimane e zero giorni un feto non può sopravvivere, anche per motivi anatomici: tu puoi ventilarlo e puoi anche incubarlo, ma il polmone del feto è così immaturo che l’ossigeno non entra e l’anidride carbonica semplicemente non esce. Dunque, il feto che viene espulso, ma che in realtà viene partorito, è un feto già morto”. Il punto è in effetti molto delicato, perché i professori spiegano che al novantanove per cento, alla ventunesima settimana, il feto non viene abortito, viene “partorito”; e che nel momento stesso in cui viene partorito, il feto non avrebbe ancora un organismo pronto per sopportare un travaglio, restando, un istante dopo l’ultima contrazione, sostanzialmente senza ossigeno. E qui, c’è chi dice “strozzato da un’indotta morte naturale”; e c’è chi, come i professori, parla piuttosto di una “morte consequenziale”.
Dopo la ventiduesima settimana, però, il discorso si fa molto diverso. Anche se in linea di massima sarebbe più o meno vietato, a volte capita che una donna chieda un’interruzione di gravidanza ben oltre i 180 giorni di gestazione. Quando dunque il feto – come ricorda lo stesso celebre ginecologo abortista, Carlo Flamigni – è “cosciente, consapevole e capace di memoria”, e quando è “lontano dall’essere un ospite inerte e svolge un ruolo attivo nell’andamento della gravidanza, controllando vari aspetti del suo sviluppo e rispondendo a vari stimoli uditivi, visivi e tattili provenienti dall’ambiente esterno”. Quando, in altre parole, il feto è qualcosa in più che vitale. Non capita spesso, ma capita. “Succede quando una paziente salta qualche controllo, quando fa un’ecografia che aveva dimenticato di fare o quando, magari, scopre di avere una malattia non più ‘compatibile’ con la gravidanza. Funziona così. Se io interrompo una gestazione dopo la ventiduesima settimana non la interrompo per ‘uccidere il feto’ – spiega il professor Bernardi – Io, tecnicamente, sto solo interrompendo quella gravidanza per salvaguardare la madre: per questo devo predisporre tutto per la sopravvivenza di quel bambino. Spero sia chiaro che nell’interruzione di gravidanza il problema del feto è, e deve essere, disgiunto da quello della madre. Non si abortisce per far morire un feto. Si abortisce per far stare bene la mamma. E dunque, credo sia non solo logico ma anche scontato dire che se il feto viene abortito, ed è vivo, il feto deve vivere. Perché è un dovere rianimarlo ed è un dovere farlo anche se la mamma non vuole. Lo dice la legge, e chi non lo fa ovviamente commette un reato”.
Qualche volta però non funziona così; qualche volta, spiegano gli stessi professori, capita anche dell’altro; capita (ma non nel loro ospedale) che ci sia una diagnosi sbagliata; capita che il feto abortito nasca vivo e non venga fatto vivere, capita che un feto che non respira ancora ma che ha già il battito cardiaco non venga rianimato perché considerato “non vitale”. E questo capita perché l’interpretazione della parola “vitale”, in molti casi, rischia di essere molto arbitraria. Ecco, ma cosa succede esattamente in un’interruzione di gravidanza dopo la dodicesima settimana? Spiega Maurizi: “Dunque, nel caso in cui ci siano i ‘presupposti’ fisici o psichici perché una donna abortisca, la donna riceve il certificato che riscontra una malattia, ritorna nella struttura pubblica, ritira la relazione di diagnosi prenatale, chiede il ricovero nel reparto di patologia ostetrica, viene ricoverata in ospedale e nel giro di dodici o di ventiquattro ore comincia tutta la procedura”. Che funziona così. “Si decide se proseguire ‘l’espletamento’ per via vaginale o per via addominale con un taglio cesareo; il più delle volte, si opta per la prima procedura (i casi di cesario capitano circa una volta ogni cinque anni); poi si inseriscono nella vagina tre ovuli (cioè due o tre pillole, contenenti delle prostaglandine, grosse più o meno la metà di un’aspirina) e nel giro di ventiquattro ore, l’ottanta o il novanta per cento delle donne ha partorito il bimbo (il novantanove per cento lo espelle, invece, dopo settantadue ore). Il feto, dunque, viene poggiato all’interno di un contenitore di materiale biologico, viene trasporato, a mano, in anatomia patologica, e quindi, a seconda della patologia precedentemente riscontrata, viene fatto passare sotto i raggi di una risonanza magnetica o di una radiografia: per confermare così la diagnosi, o magari per smentirla. Fuori dall’Italia, in alcuni stati, c’è però anche un passaggio in più. (Un passaggio che fino a qualche anno fa era previsto anche dall’ordine dei ginecologi e degli ostetrici inglesi). In quei casi, prima di espellere il feto e dopo aver inserito nella vagina la prima capsula, l’ostetrico pizzica il corpo del bimbo con la punta di una siringa e inietta una soluzione chimica di cloruro di potassio; la stessa soluzione, solo in una dose leggermente inferiore, applicata nelle lethal injection per esempio in Florida, per esempio in Texas, per esempio in Cina: con lo stesso cloruro di potassio che, una volta in corpo, entra rapidamente in circolo e quando arriva al cuore, il cuore si ferma e non batte più.
Claudio Cerasa
7/3/08

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