lunedì 31 marzo 2008

Il Foglio. "Il silenzio e 28 diritti negati"

Storia di una lettera, di uno sciopero e di decine di uomini e di donne in stato vegetativo che lottano, che chiedono di essere curati e che minacciano di morire per continuare a vivere. I casi Crisafulli e l’esempio di Sarkozy

Dieci giorni dopo non ci sono le veglie in difesa, non ci sono le marce in piazza, non ci sono gli appelli in prima pagina, non ci sono i ministri al tiggì, non ci sono le lettere dal Colle, non ci sono i conduttori in lacrime e non ci sono neppure i respiratori meccanici che pompano aria nei polmoni in diretta e in prima serata. Il segno invisibile di un diritto negato, di un diritto alla vita che sembra non poter essere uguale e contrario al diritto alla non vita, è tutto qui: è tutto in una lettera firmata il 15 marzo da cinque persone, cinque persone disabili, che – chi da mesi, chi da anni – si trovano a vivere nello scafandro immobile di un corpo paralizzato. Quelle persone sono diventate dieci, poi dodici, quindi venti e oggi sono ventotto e tutte chiedono di avere la possibilità di andare avanti; chiedono di poter ricevere le cure necessarie per non morire; chiedono che l’assistenza ai disabili diventi un punto importante di questa campagna elettorale; chiedono di non essere lasciati da soli; chiedono che qualcuno garantisca loro il diritto alla vita; e chiedono che lo stato non si limiti a pensare a loro solo quelle due volte al giorno in cui un infermiere apre la porta di casa, ti misura la pressione, ti dà una pulitina e ci mette più tempo a compilare tre moduli piuttosto che a pensare a come farti vivere un giorno di più.

Cento chilometri, uno scafandro e una farfalla
Il più famoso tra i firmatari dell’appello si chiama Salvatore Crisafulli, ha 43 anni, ha quattro figli, vive a Catania e la sua Vespa si è schiantata contro un furgoncino di gelati l’11 settembre del 2003; Salvatore è finito in coma, si è risvegliato miracolosamente due anni fa, comunica con un computer equipaggiato con software a scansione, ha una gran voglia di vivere, ha già cercato di convincere Piero Welby a non staccare la spina (“Ti supplico, Piero, non chiedere la morte, ma combatti per la vita”, scrisse due anni fa) e oggi, insieme con gli altri 27 disabili in stato vegetativo (e con i loro parenti), ha deciso di sospendere la sua alimentazione per far sì che qualcuno si accorga di quella che lui stesso ha chiamato “l’eutanasia passiva dello stato italiano”. Salvatore ha una voglia matta di lottare, ha già raccontato la sua incredibile storia in un libro che si chiama “Con gli occhi sbarrati”, il suo “sciopero” dura ormai da quasi due settimane e oggi come oggi, racconta il fratello Pietro, si ritrova con un’autonomia di vita di appena sette giorni. Certo, c’è chi dice che i parenti di una persona che si trova in uno stato vegetativo non dovrebbero imporre un digiuno potenzialmente letale per i loro cari. Ma le ombre di una storia fatta di uomini e donne che lottano per un diritto alla vita, che non vale solo dal concepimento ma vale anche fino alla morte naturale – ricorda qualcosa? –, sono però superati dalla realtà di un silenzio assordante che ha nascosto una bellissima e drammatica battaglia. “Se veramente esiste il diritto alla vita e il diritto alla sua dignità – dice al Foglio Pietro Crisafulli – noi preghiamo tutte le forze politiche perché qualcuno intervenga immediatamente e perché qualcuno assicuri tempestivamente, prima della formazione del nuovo governo, un’assistenza dignitosa a chi per vivere non chiede altro che applicare una legge e a chi chiede che lo stato garantisca, nei fatti, le cure gratuite agli indigenti. Ecco, forse non è corretto definire la storia di mio fratello come quella di un anti Welby: si tratta, in fondo, di due diritti uguali e contrari, però se qui ci si interessa così tanto del diritto alla morte qualcuno deve spiegarmi perché non ci si deve interessare anche al diritto alla vita. Vede, mio fratello fino a qualche tempo fa ripeteva sempre che se lo stato non ha pietà di me, se lo stato non sa ascoltare la mia voce, non sarà nemmeno capace di ascoltare la tua. Oggi mi accorgo che aveva ragione lui: lui che per protesta minaccia di morire per poter vivere e lui che si sente abbandonato da quello stato che non ascolta la sua voce e che purtroppo oggi non ascolta neppure la mia”.
Sono storie incredibili quelle di Salvatore Crisafulli, di Carmelo Spataro, di Carmela Galeota, di Gabriella Villari e di Emanuela Lia, i primi cinque firmatari dell’appello di dieci giorni fa; sono storie di uomini e donne in coma vegetativo da quindici, da sei, da dieci anni; chi per un incidente stradale, chi per un incidente di lavoro e chi per una malattia congenita; sono storie di persone che, come diceva Welby, vogliono avere il diritto di scegliere; e sono storie che, allo stesso tempo, sembrano uscite fuori dalla straordinaria voglia di vivere di Jean-Dominique Bauby, il protagonista vero di un film, “Le scaphandre et le papillon” (Lo scafandro e la farfalla) ispirato alla storia del redattore capo della rivista francese Elle: morto il 9 marzo del 1997, sopravvissuto a un ictus cerebrale e risvegliatosi dopo venti giorni di coma in un corpo che lui chiamava scafandro, di cui poteva controllare solo il battito di una palpebra e grazie al quale però (con l’aiuto di una bellissima ortofonista) guardando il mondo dal suo occhio sinistro è riuscito a scrivere quel libro che poi ispirerà il suo film. Un film che vincerà due Golden globe, che contiene nel suo cuore la stessa incontenibile voglia di vivere che potrebbe avere una Juno, che potrebbe avere una Little Miss Sunshine e che racconta una realtà più vera di quella triste e rozza sceneggiatura da reality italiano dove un protagonista che apre gli occhi sul diritto alla vita vale meno di uno che li spalanca sul diritto alla morte. Perché si tratta di questo, con Crisafulli e con gli altri ventisette disabili che comunicano con il mondo (anche) con un software e con uno sguardo, e che si sforzano di aprire gli occhi del regista collettivo per spiegare che una vita maltrattata di cui nessuno si accorge vale esattamente come una pena di morte. “Le marce, i girotondi, le veglie, le fiaccolate siano fatte per invocare la vita e non per sentenziare la morte, per potenziare e sensibilizzare la sanità e la ricerca scientifica, per rendere sopportabile la sofferenza, anche quella terminale, non per giustificare i più disperati e soli con il macabro inganno in una morte dolce, dietro cui si nasconde solo cinismo e utilitarismo”, scriveva qualche tempo fa Salvatore. E oggi Salvatore ha un fratello che dice così, che dice “lui mi sente, soffre con me, mi incita a vincere la sua impotenza e mi spinge a comunicare al mondo la sua voglia di vivere e il suo bisogno di aiuto”. Un fratello che non ha certo alcuna voglia di staccare la spina e che ora aspetta davvero solo un cenno da un ministro, una parola da un capo di stato (un po’ come fatto ieri da Sarkozy che ha promesso di aumenatre del 5 per cento i sussidi statali per i disabili), o un impegno da uno come il Cav. o da uno come W. Quello stesso W che ieri è arrivato in Sicilia, che oggi arriverà a Ragusa e che piuttosto che togliere la vita dalla campagna elettorale potrebbe prendere il suo pullman e salire su da Salvatore: da Ragusa a Catania, in fondo, sono poco più di cento chilometri.
Claudio Cerasa
26/03/08

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