Dal consultorio all’ultimo turno in sala operatoria. Storia di una dottoressa che ha contato fino a 10 mila
Sette anni, trecento giorni l’anno, cinque volte al giorno. Serena Monicelli è una ginecologa romana di quarantasei anni, abita in una piccola casa di Monteverde Vecchio, ha cominciato a lavorare in ospedale a venticinque anni, è stata una delle prime donne romane a sperimentare la tecnica del karman e qualche anno fa ha capito perché la soluzione al problema era il secondo piano della sua azienda sanitaria locale romana, quella con la lettera “d”. Tra il 1980 e il 1987, Serena è stata una delle sei ginecologhe non obiettrici dell’ospedale San Camillo di Roma: era entrata per la prima volta a Piazza Carlo Forlanini da specializzanda, ai tempi dell’università; in quella struttura aveva conosciuto quella che sarebbe diventata la sua futura direttrice sanitaria e pochi mesi dopo essersi laureata sarebbe stata assunta nel più grande tra gli ospedali romani con un contratto da consulente da un milione e mezzo di lire al mese. Aveva ventitré anni, Serena, quando il 19 gennaio del 1975 l’Espresso apriva il suo numero con quella storica copertina – poi sequestrata dai magistrati – in cui una donna nuda, incinta e crocifissa posava con il pancione a metà tra titolo (“Aborto: una tragedia italiana”) e didascalia (“Ecce Mater”). Serena ha aspettato qualche anno, è scesa in piazza, ha manifestato, ha conquistato la sua legge e pochi anni dopo ha deciso di applicarla in prima persona. Da ginecologa. Non era un lavoro come un altro, quello: perché per lei era la rappresentazione plastica di un diritto prima conquistato e ora, invece, direttamente applicato. Poi Serena ha fatto un calcolo, ha moltiplicato trecento per cinque ed è uscita dalla sala operatoria senza entrarci più. “Non era semplice: nei primi anni di applicazione della legge, i medici non obiettori, soprattutto le capo ostetriche anziane, trovandosi di fronte a un feto avanzato, magari al terzo o al quarto mese di gravidanza, prendevano un apparecchietto, lo poggiavano sull’utero della donna e facevano ascoltare il battito cardiaco alla mamma. ‘Signora lo sente?’ Era orribile, ovvio. E lo era ancor di più per me, che ero una di quelle dottoresse arrivate in ospedale un po’ con l’idea di essere stata investita da una sorta di mandato popolare. Non era un bel lavoro, ero diventata – come molti dei miei colleghi – ‘quella che faceva aborti’, non più un dottore. Ma almeno le persone mi erano sempre grate e a me questo bastava. Poi però è successo qualcosa: perché dopo aver fatto interruzioni di gravidanza per sette anni, arrivati a un certo punto la sensazione era quella di spalare solo acqua dal mare. E te ne accorgevi in molte occasioni: quando vedevi entrare da quella porta la stessa donna che con lo stesso certificato e con lo stesso sguardo ti chiedeva di abortire un anno dopo averne già fatto uno. Mi spiego: la mia era quasi una condanna; si può chiamare fisiognomica, se si vuole; il punto è che io non mi dimentico una faccia. Se una donna tornava io la ricordavo. E in quell’ospedale capitava spesso che la paziente tornava, e poi tornava un’altra volta; e un’altra; e un’altra ancora. E allora lì, veramente, altro che solidarietà: sarei saltata volentieri al collo di qualcuno. Perché io stavo lì per fare una cosa che consideravo davvero utile, ma a poco a poco mi accorgevo che, in quel modo, non ne valeva la pena. Perché? Perché quello è un intervento cruento, un intervento orribile per un ginecologo uomo e figuriamoci per un ginecologo donna: è per via della cannula che entra e poi esce, per via dell’utero svuotato, per via dei grumi di sangue buttati nell’inceneritore, per via di quella terribile pinza ad anelli e di quel tubicino che qualche volta si ostruiva, con i pezzetti di embrione che rimanevano incastrati. Non è un bel vivere. Molti colleghi prendono questa professione come una piccola missione, mentre molti la prendono invece come un semplice servizio per lo stato. Per me era una missione. Ma quando cominci a spalare le acque e quando ti accorgi di lavorare in una delle tante macellerie della tua città, allora tanto vale fare obiezione di coscienza”. E lei ha fatto così: era il 1987, Serena arrivò in ospedale per fare un’ivg, fu presa da una crisi di panico, cominciò a piangere, un infermiere le fece coraggio, lei operò per l’ultima volta e capì che però non avrebbe più avuto la forza di farlo ancora. Non ce la faceva più, Serena: aveva fatto due calcoli, aveva messo insieme i turni di lavoro, le interruzioni fatte ogni giorno della sua vita e aveva moltiplicato il tutto per gli anni passati in ospedale. Trecento giorni all’anno, cinque interruzioni al giorno, sette anni di lavoro. Diecimilacinquecento. Poi, prima di arrivare in consultorio, Serena ricevette quelle telefonate. “Se avessi accettato tutte quelle, chiamiamole così, ‘richieste di aborto privato’, a quest’ora mi sarei costruita tre villette ai Parioli. E quando ancora oggi me lo chiedono, io rispondo che non avrebbe nessun senso farli a casa, gli aborti, o in uno studio privato: perché, se vogliamo, l’ivg è l’unica cosa che davvero funziona nel sistema sanitario nazionale. Quindi, a questo punto, dico così: andate in ospedale, è inutile rischiare”.
Da obiettrice di coscienza, Serena è stata trasferita d’ufficio in un centro in uno dei quartieri più ricchi della Capitale. L’asl dove lavora Serena si chiama Rmd: è una delle cinque asl esistenti sul territorio romano e, in particolare, è la asl che va dal quartiere Prati alla Balduina. Ma la Rmd non è un’azienda sanitaria locale come tutte le altre: perché proprio in questa asl è stato registrato il maggior incremento di interruzioni di gravidanza di tutta capitale, tanto che dal 2000 a oggi sono stati rilasciati circa seicento certificati di aborto in più all’anno (erano 1.183 nel 2000, sono diventati 1.730 quattro anni dopo). Serena lavora qui, in questo palazzone bianco di tre piani, a pochi metri dalla vecchia sede della Rai; in uno di quei centri di assistenza per le famiglie che, come dice la legge, dovrebbe dare la possibilità, a una futura mamma che non intende portare avanti la gravidanza, di pensarci semplicemente un po’ di più: perché il consultorio, dice la 194, oltre a garantire i necessari accertamenti medici, “ha il compito di esaminare le possibili soluzioni dei problemi proposti; di aiutare la donna a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza; di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre; di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”. Davvero vanno così le cose? Serena, che lavora da vent’anni in un consultorio, è l’unica obiettrice di coscienza della Rmd e ogni tanto è un po’ in imbarazzo. “Certo: spesso ci troviamo di fronte a una sedicenne che i medici definirebbero ‘incosciente’, spesso ci troviamo di fronte a una donna che arriva qui senza soldi, senza marito, senza genitori e magari dopo essere stata violentata. I casi come questi esistono, ovvio; e io da donna so perfettamente che c’è un mondo infinitamente grande dietro a quella decisione di tenere, o no, un figlio. Eppure la sensazione che qualcuno usi l’interruzione di gravidanza come sistema contraccettivo c’era quando lavoravo in ospedale e c’è oggi che invece lavoro in consultorio. Anche se, devo ammettere, qui il discorso è un po’ delicato”. Delicato perché anche il consultorio fa parte di quei piccoli problemi travolti dai grandi numeri che porta in dote la legge 194 (il 44 per cento di ivg in meno rispetto al 1982, i meno aborti clandestini, i meno aborti dopo la dodicesima settimane). Ma c’è qualcosa che ancora non torna: perché non è un mistero che il numero di certificati ivg rilasciati dai consultori sia aumentato sempre di più nel corso degli anni (arrivando a toccare, oggi, una media annua del 35,7 per cento sui certificati); e non è nemmeno un mistero che in Italia esistano tre regioni dove più del 50 per cento delle Ivg vengono concesse proprio in consultorio (in Piemonte sono il 58,8 per cento, in Emilia Romagna il 55,8 per cento, nel Lazio il 51,4 per cento). E forse non basta neppure questo: perché, per quanto riguarda il Lazio, su un totale di 17.434 donne che ogni anno si rivolgono a un consultorio pubblico, sono 7.528 quelle che escono con un certificato d’aborto. Spiega Serena: “Non è poi così difficile trovare il ginecologo che di fronte a una ragazza che arriva chiedendo un ivg, prende il certificato glielo dà in mano e senza fare troppe domande ti dice arrivederci e grazie. Certo, non va sempre così, ma a volte capita anche questo. E io credo sia un vero problema se oggi nei consultori sembra quasi che ci si entri soltanto per abortire. E’ vero che fare un figlio per paura di fare un intervento non è certo la cosa più saggia. Ma il compito di un dottore, e soprattutto di un consultorio, dovrebbe essere questo: provare a trasformare un figlio da non desiderato a desiderato. Non so: per esempio potrebbero esserci più informazioni sulle case famiglia; potrebbero essere previsiti sostegni economici da parte del Comune per le nuove mamme; oppure più bonus natalità; più assegni maternità; e a volte, pensate, potrebbe essere sufficiente anche pubblicizzare il parto in ospedale senza riconoscimento. Semplicemente questo”.
Per capire il problema, Serena fa un esempio calzante. “Provo a spiegarmi così: giusto qualche anno fa, ho chiesto nel mio consultorio un incremento orario. E’ possibile, mi chiedevo, che un’obiettrice di coscienza sia costretta a lavorare ‘meno’ perché per i ‘non abortisti’ in consultorio lo spazio quasi non c’è?”. Serena si spiega. “Esistono molti esempi, in consultorio, di gravidanze riprese per i capelli, di bambini salvati all’ultimo minuto e di mamme convinte a non abortire poche ore prime di sdraiarsi sul lettino. Ma sono casi molto rari, questi. La prassi, purtroppo, è molto diversa. Non è scontanto che l’urgenza per un dottore sia una donna incinta che vuole un bambino. Per assurdo, in consultorio, l’urgenza è l’interruzione di gravidanza. E’ vero che anche per un aborto ci sono tempi tecnici da rispettare; ma nel corso degli anni, i tempi per fare un’ivg sono diventati più efficienti di qualsiasi altro intervento. Io lo dico spesso alle mie pazienti, a quelle poche che mi sfuggono, che non fanno contraccezione e restano incinte e non vogliono andare avanti; quando capita di dover abortire io le tranquillizzo spiegando che l’ivg è l’unica cosa che funziona davvero nella sanità italiana. Perché è un iter snello e davvero ben organizzato. Perché una signora viene in consultorio col test di gravidanza in mano, viene accolta dalla psicologa, poi dal ginecologo e, dopo di che, dal consultorio stesso, prende direttamente l’appuntamento sia per le analisi che per l’intervento. Vi risulta che in Italia esista una ‘patologia’ per cui tu vai in una struttura pubblica e ti fissano un appuntamento per la pre-ospedalizzazione e per l’operazione? Magari funzionasse tutto così. Ecco: togliersi una colica, oggi, è infinitamente meno facile che fare un’ivg”. Per spiegare davvero cosa sia per un ginecologo quella sensazione di “spalare solo acqua dal mare”, Serena racconta infine,un episodio significativo. Poche settimane fa, nel suo consultorio era entrata una signora romena di 35 anni: alta, capelli chiari, pantaloni a righe scuri, un paio di scarpe Asics, una giacca della tuta di colore rosso e una borsa della Crazy Duck. La signora arriva, parla con lo psicologo, parla con il ginecologo, prenota le analisi, fissa un appuntamento e consegna un documento a Serena, un foglio con le malattie passate, con tutte le infezioni avute e – come direbbe il ginecologo – con tutti “i fatti di importanza medica della vita del paziente”. Poi, In basso a sinistra, un’ultima riga. Aborti precedenti. Lì sotto, ricorda Serena, c’era scritto sette.
Claudio Cerasa
martedì 4 marzo 2008
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