mercoledì 12 marzo 2008

Il Foglio. "Mi scusi signora, suo figlio era ancora vivo"

Tre ecografie, una diagnosi, un processo e una sentenza in arrivo. Storia di una mamma convintasi ad abortire su consiglio medico

Tre ecografie, pochi minuti di “revisione”, una diagnosi già formulata, un processo in corso e una sentenza che arriverà in queste ore, sei anni dopo quella notte passata in ospedale. “E’ sicuro?”, chiese Alessandra mentre lui la guardava con la sondina stretta nel pugno della mano destra e mentre il sangue continuava a gocciolare sul lettino, lungo il rotolo bianco di carta usa e getta, proprio nella stanza dove il dottore aveva appena spiegato cosa significava, esattamente, quella dannata ecografia. Cosa significava, esattamente, quella dannata metroraggia. Alessandra era arrivata in ospedale pochi minuti dopo le ventitré, con una “grave perdita ematica”, con il sangue che ancora le scendeva tra le gambe e con quel pancino di sei settimane che lei aspettava da due anni e mezzo e che ventiquattrore dopo sarebbe diventato un ammasso di “cellule senza vita”. “Signora – le aveva detto il medico di guardia tracciando un cerchio con il dito sull’immagine dello schermo ecografico – mi ascolti: con perdite di questa natura non ci sono altre possibilità. Questa, purtroppo, è una metrorragia; questo, purtroppo, è un aborto già in atto”.
L’appuntamento era stato fissato per il giorno dopo: Alessandra uscì dall’ospedale, tornò a casa in macchina, si distese – disperata – sul letto matrimoniale abbracciando il marito e piangendo tutta la notte. Le avevano spiegato che sarebbe stato un intervento molto semplice, che “revisione” significava “raschiamento”, che il “raschiamento” era routine e che la routine voleva dire cinque, dieci minuti al massimo sdraiata sul lettino, con un’anestesia locale, una dilatazione del canale cervicale e una curette che avrebbe eliminato, molto rapidamente, tutti i “residui placentari”; tutto il “materiale non strutturato”, tutto il “tessuto fetale”, tutto l’“abbozzo placentare”. Così fu: Alessandra arrivò in ospedale in tarda mattinata, si sentì ripetere la diagnosi già fatta il giorno precedente, le dissero, ancora una volta, che quello era un “aborto spontaneo”; lei firmò l’anamnesi, si sdraiò sul letto e il medico le dilatò il collo uterino con un cono di Hegar numero otto, da quattro millimetri, trattenendola in ospedale per tutto il pomeriggio e lasciando trascorrere ventiquattrore; prima di scoprire se quella che il ginecologo continuava a chiamare “revisione” era andata bene oppure no. Il ginecologo avrebbe detto di sì; lei, però, avrebbe scoperto perché in realtà quello non era altro che un “no”.
Fu tutto molto veloce, in quei giorni: Alessandra era ritornata in ospedale già la mattina dopo, era entrata nella stessa saletta dove era arrivata due sere prima, aveva parlato con lo stesso medico di guardia che le aveva cerchiato con il dito un embrioncino “già morto” e quindi, una volta completata l’ultima ecografia, il dottore aveva individuato la “presenza di alcuni residui in utero” e aveva deciso di prescriverle un farmaco; che di lì a pochi giorni le avrebbe stimolato una serie di contrazioni, permettendo così un’“espulsione completa”. Il farmaco si chiamava Methergin e, come si legge all’interno della confezione sulle due pagine di foglietto illustrativo, il farmaco viene prescritto “quando è necessario arrestare una emorragia uterina con una rapida ed energica contrazione dell’utero”. Semplice, ma con il passare dei giorni Alessandra proprio non capiva. Perché, si chiedeva, sono ancora così debole? Perché il Methergin non fa effetto? Perché le perdite aumentano invece che diminuire? Perché tra ecografie, revisioni, raschiamenti nessuno ha pensato a farmi una sola analisi del sangue? Perché, poi, tutta quella fretta? A poco a poco, Alessandra capirà. Capirà due giorni dopo, quando un’infermiera dell’ospedale di Novara le lascerà un messaggio in segreteria e quando la stessa infermiera la inviterà ad andare subito in ospedale per ritirare l’esame istologico appena effettuato sull’embrione; le avevano detto che quello era un “coagulo”, le avevano detto che quella gravidanza non sarebbe mai andata avanti, le avevano detto che il suo bimbo era ormai morto e le avevano spiegato poi, che, a parte qualche residuo, l’intervento era riuscito perfettamente. Non era così.
“Signora – le dissero in ospedale pochi minuti prima che un’infermiera le prelevasse due siringhe di sangue – c’è stato un errore: l’embrione non è stato espulso, non c’era materiale embrionale in quel che abbiamo asportato, l’aborto è ancora in atto e l’intervento va dunque ripetuto”. Niente di strano, le spiegarono: non capita spesso, ma comunque capita, ogni tanto, che un raschiamento finisca con un piccolo errore. Un caso ogni dieci, dicono le statistiche; e lei era uno dei dieci.
Tre giorni dopo il primo intervento, Alessandra aveva fissato due appuntamenti: la mattina sarebbe andata dal suo ginecologo di Milano, il pomeriggio, invece, sarebbe tornata in ospedale a Novara per la seconda “revisione”. A Milano, però, Alessandra ricevette una telefonata dall’infermiera che il giorno prima le aveva prelevato il sangue; l’infermiera la chiamerà verso ora di pranzo, le dirà beta hcg 22.199 e le spiegherà che qui, l’ormone della gravidanza, era davvero molto, ma molto alto: “Mio Dio, signora: ma lei è ancora incinta!”. Una volta a Milano, dopo aver finito la conversazione con l’infermiera di Novara, Alessandra arriva dal suo ginecologo, chiede di poter fare un’ecografia, osserva con la coda dell’occhio lo schermetto ecografico e scopre che quello che pochi giorni prima era un “grumo di sangue senza vita”, in realtà era ancora un embrione vivo; quasi di sette settimane. Le avevano detto “aborto in corso”, le avevano spiegato che quella era una “metroraggia” e che con tutti quei dolori addominali, quelle perdite e quello stato di “grave urgenza” per il bambino “non c’era più nulla da fare”. Invece non era così; invece l’embrione era vivo, era scappato via da un raschiamento, aveva sopportato le contrazioni causate dai farmaci, aveva resistito a settancinque gocce al giorno di Methergin e qualche ora dopo, alle 16.50 del 26 gennaio, avrebbe cominciato a far sentire, al ginecologo, il battito del cuore. Solo per pochi giorni però: perché due settimane dopo la prima diagnosi, due settimane dopo il primo intervento, due settimane dopo le prime tre ecografie e dopo le settantacinque gocce al giorno, ecco: tutte quelle perdite non si erano ancora bloccate; e proprio per questo, il sei febbraio, alle 18 e dieci minuti, Alessandra entrò nella sala operatoria dell’ospedale San Paolo di Milano, si sdraiò ancora una volta sul lettino del ginecologo, osservò la sondina passare, piano piano, sul pancione e ascoltò le parole del dottore: “Signora, ha perso il bambino”. L’ultimo raschiamento, il secondo in due settimane, durò poco meno di diciotto minuti. Dopo di che, Alessandra decide di andare in tribunale; perché, diceva, il mio embrione non ha avuto il diritto di vivere; perché quella è stata una vita negata, quella è stata una diagnosi sbagliata, qualcuno mi ha costretto ad abortire e in quasi due mesi di gravidanza non c’è stato nessuno – nessun infermiere, nessun medico, nessun ostetrico, nessun ginecologo, nessun neonatologo – che mi aveva garantito semplicemente il diritto di non farlo.
“Io – spiega Alessandra – trovo sia terribile che una cosa così piccola e così indifesa non abbia, sostanzialmente, proprio alcun diritto. Ditemi: è possibile che un embrione possa essere eliminato al primo dubbio? E’ possibile che nessuno sanzioni chi ha fatto un errore del genere? E’ possibile che la vita dei figli sia difesa solo fuori e non dentro il pancione?”. Il Tribunale di Novara, tre anni fa, aveva ammesso che in effetti in quell’ospedale c’erano state due diagnosi sbagliate e un raschiamento non riuscito; aveva ammesso che qualcuno aveva prescritto dei farmaci che non andavano prescritti e che due ginecologi, per “superficialità, negligenza e imperizia”, avevano detto che nella pancia di Alessandra c’era un embrione morto che invece era vivo. Tutto vero, tutto accertato. Con un però: secondo il giudice, se non è riuscito, un raschiamento non è “causa sufficiente per provocare un aborto successivo”. Il fatto, dunque, “non sussiste”: perché, anche di fronte a diagnosi errate, anche di fronte a ecografie sbagliate, se il feto sopravvive a tutto questo non ci può essere un “nesso causale tra l’intervento effettuato e la morte di un embrione”. Così, tecnicamente, se un embrione abortito sopravvive e poco dopo muore la colpa non è dell’interruzione di gravidanza. Semplice. Alessandra, però, ha fatto qualcosa in più: ha provato a far ricorso in appello alla sentenza di primo grado, ha trasformato gli ultimi suoi tre anni di vita in una piccola battaglia legale, ha chiesto a un giudice di difendere, letteralmente, il diritto di non abortire e ha cercato di dimostrare in tribunale perché, e in che senso, la vita dei figli va sempre difesa anche quando quella vita la si vede solo su uno schermetto verde. Ieri, il Tribunale di Torino ha depositato la sentenza. Niente di nuovo, il “nesso non c’è”.
Dice Alessandra: “Riassumo. Questa è la storia di un bimbo fortemente desiderato, anche se inaspettatamente concepito; un bambino dichiarato morto da due medici, sottoposto, prima, a raschiamento meccanico e poi all’azione di un farmaco che doveva strapparlo via dall’utero; un bambino che nonostante tutto era sopravvissuto a ogni aggressione, prima di morire dopo pochi giorni di inutili speranze. Ecco, io credo che nessuno abbia protetto davvero né me né il mio bambino. E se oggi, tecnicamente, un medico può liberamente sbagliare e sottoporre a raschiamento una donna che desidera un figlio, senza rischiare assolutamente nulla, credo sia molto pericoloso. Perché, cito testualmente la vecchia sentenza, ‘l’omissione di una corretta diagnosi, dovuta a negligenza e imperizia, non ha causato l’evento contestato’; e dunque, se l’embrione sopravvive anche per poche ore a un aborto sbagliato, formalmente quel tentativo di aborto non viene considerato un vero aborto. ‘Non c’è nesso causale’. Che sarebbe un po’ come dire che se ti puntano una pistola al petto, premono il grilletto, sparano un proiettile, il proiettile ti colpisce il cuore di striscio e tu non muori sul colpo, ma muori qualche giorno dopo, per la legge è come se non ti avessero mai sparato. Perché, semplicemente, almeno nel mio caso, questo non è dimostrabile”. Prosegue Alessandra: “La verità, perdonate l’espressione, è che non gliene frega niente a nessuno del mio embrione. Perché quello che io consideravo un figlio gli altri lo consideravano come un grumo di cellule privo, per di più, di ogni tutela legale; e privo, tra l’altro, del diritto di essere curato adeguatamente come qualunque essere umano. E’ evidente che un embrione che muore non fa notizia, ma qualcuno può negare che non mi sia stato concesso il diritto di non abortire? Qualcuno può negare che le leggi, oggi, proteggono molto bene una donna che intende abortire mentre non tutelano affatto il diritto di una donna che desidera proseguire una gravidanza? E’ possibile che un embrione di poche settimane non sia, davvero, qualcosa per cui lottare con tutte le forze che si hanno?”. Ieri pomeriggio la Corte d’Appello di Torino ha così confermato la sentenza di primo grado, spiegando nuovamente ad Alessandra che certo, è tutto vero: ci sono stati gli errori, la negligenza e la superficialità; il “nesso” però non c’è. I medici, in casi come questi, non hanno alcuna responsabilità. Conclude Alessandra: “Capitano spesso storie come le mie. Capita spesso che una donna abortisca per una diagnosi sbagliata e che i giudici poi ti spieghino che quelle macchie, quelle perdite ematiche, erano causate da un probabile difetto genico che avrebbe comunque portato a un’interruzione di gravidanza. Ecco, come giustificazione quel ‘probabile’ non può proprio convincermi: perché, per quanto mi riguarda, sono rimasta incinta altre volte; perché ho avuto altre gravidanze a rischio; perché, per due volte, ho perso sangue mentre ero incinta; e perché, nel giro di pochi mesi, quelle che i medici chiamano ‘difetti genici’ oggi si chiamano una Giorgia e l’altra Vittoria”.
Claudio Cerasa
12/03/08

Nessun commento: