lunedì 3 marzo 2008

Il Foglio. "La Sapienza del voto"

Veltroniani, bertinottiani, cappellani e prof un po’ rivoluzionari. Che cosa resta dell’università romana che a gennaio contestò il Papa? Dialogo postcomunista tra due studenti di sinistra

Entri da un portone centrale con tre ingressi simmetrici scavati nel marmo della città universitaria; fai due passi in avanti, superi la portineria, calpesti un lungo corridoio di asfalto molto liscio, cammini lasciandoti a destra il dipartimento di Medicina sperimentale e, a sinistra, la facoltà di Scienze matematiche; vai avanti ancora, con lo sguardo schiacciato verso il basso e che non va mai puntato lì, verso il piedistallo bianco, e poco propizio, di quella statua della Minerva altissima di fronte al rettorato della più importante università italiana, la Sapienza, dove, quasi due mesi fa, avrebbe dovuto parlare Joseph Ratzinger e dove ora, a quasi due mesi dalle elezioni, qualcosina sembra essere un po’ cambiata tra gli studenti di centro trattino sinistra dell’università romana; che un po’ Veltroni lo voteranno e un po’ invece, preferiranno mettere la crocetta da un’altra parte: un po’ più in là, un po’ più a sinistra, anche grazie – o per colpa – di quei giorni di “universitario dissenso”. Perché due mesi dopo, tornando alla Sapienza, c’è qualcosa che è davvero cambiato. Ricordate? La frocessione, con la f, i cortei dei dissidenti, le lettere dei professori, le campagne di comunicazione, la lotta contro “l’ingerenza del Pontefice nelle istituzioni italiane” e, come si dice in questi casi, i “gesti eclatanti”. Finì che ci fu un appello, che 67 professori spiegarono che “dal 20 settembre del 1870 Roma non è più la capitale dello stato pontificio” e che non sarebbe stato possibile ospitare lo stesso Papa che il 15 marzo del 1990, a Parma, aveva osato citare il passo in cui Paul Feyerabend scriveva che “all’epoca di Galileo, la chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto”. Quella, come fu poi ammesso da alcuni degli stessi docenti, era solo una citazione tirata fuori da un contesto ben più complesso. Ma in quei giorni, quando chiedevi qual era il problema e qual era la questione, la risposta era sempre la stessa: “Roma non è più la capitale dello stato pontificio”. E poi: “Noi professori siamo indignati in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all’avanzamento e alla diffusione delle conoscenze”.
E in effetti è finita proprio così. E’ andata che il 17 gennaio Benedetto XVI avrebbe dovuto parlare lì, al secondo piano del rettorato dell’università più grande d’Europa; avrebbe dovuto parlare prima agli studenti, avrebbe dovuto aprire l’anno accademico e poi, conclusa la sua lectio, avrebbe sceso le scale dell’aula magna, avrebbe fatto due passi in avanti, superando la portineria, girando a destra per entrare qui, nel perimetro a pianta esagonale della cappella universitaria della Sapienza: dove il professor Ratzinger, il quindici febbraio di diciotto anni fa (cioè un mese prima del famoso testo “incriminato” di Parma) aveva fatto un altro discorso; sempre su Galileo, sempre sulla scienza, sempre sulla chiesa. Un discorso che Ratzinger fece proprio qui, nella Cappella gestita, oggi, dai gesuiti di don Vincenzo D’Adamo. Lo stesso padre che due mesi dopo la frocessione, e un mese e mezzo prima delle elezioni, ha deciso di offrire ai colleghi della Sapienza un libricino dove si racconta ciò che quel giorno doveva esserci e che invece non c’è stato; e dove si spiega quale fu il vero errore fatto dai sessantasette. E non solo da loro. Perché in fondo, per capire il grande equivoco di quel giorno, il modo migliore era proprio quello di parlare con lui, di leggere il testo completo degli interventi mancati e poi aspettare un po’ e cercare di capire, tra gli studenti, l’effetto elettorale che sarà. Ecco, appunto: che cosa succede, oggi, tra quelle centinaia di migliaia di studenti della Sapienza? Che cosa succede, oggi, in quel “grande laboratorio sociale e culturale”, in quella struttura che, come dicono i grandi professori, “ospita espressioni e punti di vista diversi, sia in ambito culturale-ideologico che spirituale-religioso”. Che cosa succede oggi, a quarantacinque giorni dalle elezioni e a cinquanta giorni da quella mattina tra i più piccoli elettori di sinistra divisi, fino a pochi giorni fa, anche tra un “Papa sì e un Papa no”? Perché non è stato un giorno come gli altri, quello, per gli studenti di sinistra, per quelli che voteranno alle prossime elezioni, per quelli che sono oggi agli ultimi mesi di lezioni e per quelli, per esempio, che saranno i primi nati quando il muro di Berlino ormai non c’era più – 1989 – a votare in Parlamento. Religione, etica, guerra, loft, politica, Nicole Kidman, girotondi, Veltroni, Bertinotti e Berlusconi. Guardate, per esempio, lo studente veltroniano.

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Lo studente veltroniano, che non è mai stato comunista, si è laureato in sei anni in Scienze politiche, non si considera fuori corso, legge spesso Repubblica, non compra più l’Unità, non ha mai sfogliato il Manifesto, non studierebbe più Al Gore, non ha mai usato un buono pasto, non è mai entrato in cappella, non ha mai firmato un referendum, non frequenta i collettivi, non è andato contro il Papa e non è andato neanche contro chi manifestava contro il Papa. Alle elezioni ha votato: una volta Diliberto, poi Bertinotti, poi Ds, poi Margherita, poi Rosa nel pugno, poi ha perso il certificato e non ha votato il referendum. Dice che Roma, negli ultimi anni, è molto cambiata, ma non si ricorda perché. Dice che le buche per strada sono sempre quelle, ma per fortuna ci sono bellissime mostre; dice che gli autobus, in città, non si trovano mai, però le notti bianche sono molto divertenti; dice che Roma non è mai stata così sporca, però a teatro ci sono gli spettacoli di Ronconi; dice che la metro, a Roma, dalle nove di sera in poi non funziona più, ma Nicole Kidman all’Auditorium era davvero molto bella. E poi, lo studente veltroniano che ha votato comunista ma che comunista non lo è mai stato, ha partecipato a un mare di manifestazioni, è sceso in piazza con Moretti, ha fatto i girotondi a viale Mazzini e ha fatto i cordoni di fronte ai ministeri (in viale Trastevere); ha occupato la sua scuola, non ha mai indossato una kefiah, non è mai stato in questura, non è mai entrato in una mensa, ha visto Sanremo (ma solo perché cantava Elio con le storie tese); non ha mai capito cosa votano i sondaggisti (e lui comunque non legge i sondaggi), non ha capito perché il Papa era stato invitato alla Sapienza, ma non ha capito neppure perché, una volta invitato, se Chávez parla all’Onu e Ahmadinejad parla alla Columbia, il Papa non può parlare alla Sapienza. Boh. E poi, lo studente veltroniano, è rimasto molto affascinato da quei quiz letti per entrare in facoltà (Il primo: La trama de “Il nome della rosa” di Umberto Eco ha come fulcro narrativo a/ Un libro di Aristotele sul riso, b/ La visione di Platone sull’amore, c/ un trattato di Paracelso sull’alchimia, d/ Un libro di Galileo sulla geografia astronomica. Il secondo: “Il pasticciaccio brutto di Via Merulana”, cui fa riferimento Gadda nell’omonimo libro, è: a/ un omicidio in un condominio, b/ un dolce avvelenato, c/ un ingorgo stradale, d/ uno stupro di gruppo. Il terzo: Il 7 ottobre verrà eletto il governatore della California: il candidato repubblicano è: Arnold Schwarzenegger, b/ Clint Eastwood, c/ Sylvester Stallone, d/ Michael Douglas). Solo che, lo studente veltroniano che non è mai stato comunista e che non sa neanche dove sia questo diavolo di Spello, questa volta vuole votare bene; vuole votare dopo aver scaricato il programma; vuole votare Veltroni e lo farà, ma ora deve semplicemente capire perché. Forse perché anche lui un giorno aveva pensato di andare a vivere in Africa; forse perché, lui, non è mai stato comunista, forse perché non ha mai amato Berlusconi, forse perché non è mai stato di destra, forse perché non ha mai amato Lenin, non ha mai amato Castro e non ha mai amato Rizzo. Epperò lui si sente lo stesso democratico: per via di Obama, per via dei palloncini colorati, per via del Loft, per via del pullman verde, per via di quel “oh, Yes” che suona così bene messo prima del we e del can. E non si sente di destra perché non potrà mai votare Cutrufo, ma non si sente di sinistra perché non potrebbe mai votare per Caruso. In facoltà ha partecipato alle rassegne estate alla Sapienza, alle notti bianche alla Sapienza e al cinema by night alla Sapienza. Di Veltroni non ha capito cosa pensa dei Dico, cosa pensa dei Pacs, cosa pensa della guerra e, da Veltroni, vorrebbe sapere, in che senso “soli” se c’è Di Pietro; in che senso “liberi” se c’è Di Pietro e in che senso “liberal” se c’è Di Pietro. Lo studente veltroniano, che non è mai stato comunista, ama le lezioni di semiotica, i giornali universitari, le radio di dipartimento, gli esami orali di statistica, le iniziative culturali “maggiormente dedicate ai giovani” e la multietnicità degli studenti calabresi. Non ha mai letto un’intervista della Melandri e poi, ci pensa un po’, e scopre che nessuno gli aveva mai detto che nella classifica delle migliori università d’Europa, quella compilata dalla Commissione europea, la Sapienza non c’è tra le migliori università “per dimensione”, “per impatto mondiale”, “per qualità della didattica”, “per qualità della ricerca”. Ed è lui che ricorda quando Veltroni, sul Papa, aveva detto così: “Il Pontefice è un punto di riferimento spirituale e culturale e morale per milioni di persone”. Il Pd lo voterà anche per questo. L’altro invece, il suo collega un po’ più a sinistra, proprio no.

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Spiega padre D’Adamo – capelli grigi, fisico asciutto, scarpe da ginnastica, cinquantenne da tre anni a Roma – che il vero discorso di Ratzinger alla Sapienza, quello di 18 anni fa, “non era altro che una difesa della razionalità galileiana contro lo scetticismo e il relativismo della cultura postmoderna”. Bastava leggere lì, tra i 1.500 opuscoli stampati dalla cappella il 17 gennaio e tra gli stenografici di qualche anno fa, riportati ora nelle sessanta pagine del libricino curato da padre D’Adamo e dal professor Giancarlo Pani. Il libro si chiama “Il Caso Galileo: il metodo scientifico e la Bibbia”. E padre D’Adamo ci torna su: dice che certo, lui non vuole entrare “nelle intenzionalità” del rettore rispetto alle sue decisioni, perché “dietro a quell’invito c’erano motivazioni alte e serie”. Ma, prosegue, “al di là di questo, dobbiamo intenderci sul concetto di laicità. Dobbiamo farlo oggi e dobbiamo farlo anche nel futuro di questo ateneo. Dobbiamo decidere se siamo interessati a vivere in una laicità aperta e ricettiva, oppure in una laicità massimalista. Ed è molto strano che oggi ci scandalizziamo quando autorità ecclesiastiche entrano in un contesto non ecclesiale. Altrimenti, se pensiamo a una laicità aperta, io mi chiedo: perché no a un uomo di cultura alla Sapienza? Perché no al Papa in facoltà? Dove è la paura, dove il timore? Come è potuto accadere che dei docenti universitari siano incorsi in un simile infortunio? Il discorso, oggi è evidente: un docente dovrebbe considerare come una sconfitta professionale l’aver trasmesso un simile modello di lettura disattenta, superficiale e omissiva che conduce a un vero e proprio travisamento”. Sono parole semplici, che padre D’Adamo ha usato anche nell’introduzione del suo libro, dove – tra una pagina e un’altra – viene un po’ da sorridere leggendo le parole di chi, come il rettore Renato Guarini, non è riuscito a imporre nei fatti quello che aveva promesso con le parole. Scriveva Guarini nelle pagine dello stesso libro: “La formazione universitaria dei giovani non può esaurirsi nel mero apprendimento di competenze, ma deve aprirsi a un’esperienza più ampia di crescita personale e culturale, perché la cappella e l’università hanno lavorato fianco a fianco, nel pieno rispetto reciproco, in un dialogo sempre aperto e costruttivo, a partire da un’idea condivisa di Sapienza”. E se è vero che, proprio pochi giorni fa, Guarini è stato ricevuto in Vaticano e ha consegnato a Benedetto XVI tutto ciò che il suo ateneo aveva preparato per la visita fallita, è anche vero che, nonostante quel “dialogo sempre aperto e costruttivo tra università e Vaticano”, un mese dopo aver giurato di “aver pronto un nuovo invito per il Papa” è stato lo stesso rettore a spiegare che l’ipotesi di Benedetto XVI nuovamente invitato alla Sapienza semplicemente non esiste. Niente Papa. Niente religione. Niente ingerenze. Niente monarca vaticano. E allora oui taxation without representation.

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Lo studente taxation-without-representation-via-il monarca-vaticano dice che la Sapienza è un ateneo potenzialmente capace di competere con qualunque università del mondo; dice che il numero degli studenti le permetterebbe di fare cose bellissime; dice che però la quantità non è sinonimo di qualità; dice che Ratzinger parla già tanto e non ha bisogno di andare pure alla Sapienza; dice che Veltroni ha difeso il Papa e quindi, per quanto gli riguarda, non voterà né Veltroni né il Papa; dice che non voterebbe Veltroni anche perché non ha capito in che senso con D’Alema, Veltroni, Fioroni, Marini, Prodi, Binetti, Fassino, Franceschini è “Nuova stagione”; dice che, volentieri, avrebbe travestito da trans la Minerva della Sapienza; dice che non ama le quote rosa, che non ama le quote gay, che non ama le quote nere, epperò vuole più donne, più neri e più gay in politica. Dice – e canta – che Galileo ha abiurato e noi resisteremo al papato; dice che non è mai stato a Vicenza, alla base Dal Molin, dice che conosce molti no Vat; dice che non è mai stato in val di Susa, ma che non conosce molti no Tav, e poi ricorda – non sa bene né come, né quando, né perché – che una volta a Roma la destra aveva candidato alla Camera Bud Spencer, però senza Terence Hill. Dice che, lui, vuole un programma chiaro, che vuole parlare di politica, che non vuole vedere marketing e che vuole tornare presto in sezione. Della Sapienza non ama più la “disorganizzazione delle strutture”, la mancanza di consapevolezza “circa la sua grandezza”, “l’inappropriato uso della sua eredità culturale”, “il disorientamento della didattica”, gli “atenei federati”, la notte bianca e l’estate romana. Ma lo studente taxation without representation – che ha perso una borsa di studio, che non ha mai fatto l’erasmus, che non è mai stato in curva, che ama le tasse anche senza non c’è representation, che a volte canta servi dei servi dei servi dei servi, che ha gli arretrati del Manifesto, ma non li legge da anni e che è diventato così gauche che quasi quasi si sente alla droit – dice che voterà a sinistra perché, dalle altre parti, c’è un clima sempre più reazionario, sempre più familista, sempre più securitario, sempre più clericale, sempre più militare. E lui, invece, voterà a sinistra perché non vuole più la guerra, perché la didattica deve essere più qualificata, perché gli operai prima di tutto, perché i metalmeccanici vengono prima di Colaninno, perché i sindacati sono più importanti dei teodem, perché la frocessione è meglio della grande coalizione, perché al loft non si capisce se c’è uno di sinistra che è diventato di destra o se c’è uno di destra che è stato sistemato a sinistra. Lo studente taxation without representation, però, non sarebbe mai andato in Afghanistan – le bombe contro i Talebani sì e contro i mafiosi no? – non avrebbe mai nascosto i Dico e i Pacs in campagna elettorale, non avrebbe mai detto che un voto a destra è un voto utile e non avrebbe mai detto che un voto utile è un voto per il partito di Bindi e Cusumano. Lui ama la Sapienza per tutto, ama i collettivi incazzati, le aulette occupate e anche le lezioni fatte al cinema, quelle con il professore che diventa un puntino sotto lo schermo, con le luci che si spengono quando il docente entra in sala, con gli appunti presi sulle ginocchia, e con quella magnifica impressione che tra una lezione e un’altra devi uscire presto perché poi comincia un film davvero. Lo studente taxation without representation non ha letto: “In questo momento sta nascendo un bambino” (di Enrico Letta), “La Generazione U” (di Mario Adinolfi), “La fabbrica del programma. Dieci anni di Ulivo verso il partito democratico” (di Giulio Santagata), “La Scoperta dell’Alba”, “Che cos’è la politica” (con dvd), “La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi”, “Il disco del mondo. Vita breve di Luca Flores, musicista” (con o senza dvd), “Il sogno spezzato. Le idee di Robert Kennedy”, “La rivincita di Roma Ladrona” (su Walter Veltroni, di Stefano Marroni), “L’audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo” (di Barack Obama, ma con introduzione di Walter Veltroni), “Berlinguer. La sua stagione” (con dvd, ma solo a richiesta). Del Partito democratico non capisce perché dire “Viva Italia” quando era molto più semplice gridare “Forza Italia”; e però sa che la parola d’ordine è “laicità”, sa che ci deve essere il “diritto al dissenso”, ma se entri con lui dal portone centrale, con i tre ingressi simmetrici scavati nel marmo, due mesi dopo e due mesi prima, ancora oggi non capisci in che senso lui diceva “dissenso”.
Claudio Cerasa
01/03/08

1 commento:

Unknown ha detto...

Poi c'è chi come me VORREBBE trovare un motivo per VOTARE PD, ma è troppo mediterrnaeo per riuscirci.