Genova. Il senso di una notizia, che a Napoli aveva già indossato la maschera trasparente di un blitz che non era mai stato un blitz, è arrivato ieri mattina, con un po’ di sanissima malignità, sulle prime pagine di tutti quei giornali che avevano già pronto il colpo in canna per raccontare una verità impossibile ma da dimostrare a ogni costo. La testimonianza cronistica della tentata manipolazione di una storia drammatica come quella di Genova – dove lunedì scorso si è suicidato un ginecologo che aveva appena scoperto di essere indagato per violazione dell’articolo 19 della legge 194 – è tutta qui; è tutta nelle semplici e terribili parole di una delle donne che avrebbe interrotto la propria gravidanza nello studio privato del ginecologo genovese; una donna, già protagonista di un reality show, che avrebbe abortito perché un bambino “in questo momento potrebbe compromettere la mia vita professionale”; che avrebbe scelto la via clandestina all’aborto perché non voleva “che trapelasse la notizia”; che, dice lei, oggi non prova “nessun dolore, nessun rimorso”; perché in fondo, spiega, la scelta non può che essere quella quando si è “un personaggio pubblico”, quando si ha “il terrore che si sappia in giro” e quando, poi, tu proprio “non credevi di commettere un reato”.
Ma anche in questo caso, così come già successo al Policlinico Federico II di Napoli, non era poi così difficile mettere insieme il filo logico della storia genovese e capire quanto sia grottesco dire cose così; dire che questa non è altro che la “dimostrazione ulteriore del fatto che non si può giocare con le parole e con le leggi, salvo lasciare le persone sole ed esposte a pericoli” (Barbara Pollastrini); che questa è la prova provata che “campagne politiche di criminalizzazione dell’aborto hanno fatto una vittima” (Bobo Craxi); che il ginecologo, che si chiamava Ernesto Rossi, è una “vittima dell’ipocrisia di chi ha relegato gli aborti ai margini della sanità e di chi affronta il tema solo per porre ulteriori ostacoli alle donne”.
Perché a Genova è andata in un altro modo: è andata che un ginecologo dell’ospedale Gaslini (dove le interruzioni di gravidanza sono consentite a partire dal novantesimo giorno) era indagato e intercettato già da tempo, dai primi di ottobre, in seguito a una segnalazione anonima ricevuta dai Nas; è andata che, secondo l’accusa, il ginecologo avrebbe permesso a molte donne di eseguire aborti clandestini nei suoi studi privati; è andata che decine di signore avrebbero pagato fino a cinquecento euro per aspirare via il proprio bimbo; è andata che il ginecologo è stato interrogato, che il suo studio è stato perquisito e che Rossi abbia deciso, poi, di buttarsi giù dall’undicesimo piano del suo studio di Rapallo. Tutto questo, mentre scopri che oggi a Genova c’è un sindaco molto preoccupato di come, negli ospedali che fanno interruzioni di gravidanza, sia impressionante la “lunghezza delle liste di attesa”; un sindaco che però – con lo stesso riflesso che ha chi, per risolvere gli affollamenti nelle carceri, propone semplicemente di farne di più, di carceri – sembra non comprendere fino in fondo che forse il problema è proprio quello: non che non ci sia più spazio per fare aborti, ma che in un’indifferenza assordante le liste sono diventate un po’ troppo lunghe.
C’è di più però: perché nel tentativo decisamente goffo di dimostrare che quelle donne, tra Genova e Rapallo, avrebbero abortito in nome di un’autoderminazione che sarebbe consentita pienamente, in certi casi, solo da una semplice espulsione clandestina, ecco, in tutto questo, le parole delle testimoni, purtroppo volontarie, della storiaccia di Genova sono la metafora perfetta non solo di una legge tradita nel suo cuore, ma anche di una certa freddezza e impassibilità morale nell’interruzione di quella che in fondo non era altro che una vita e che, per legge, va punita con una multa di cinquantuno euro. “Non mi sentivo di affrontare tutta la trafila che impone la legge, né di andare in ospedale”; “Dover rispondere a delle domande, spiegare il perché si fa una cosa così è un’umiliazione”; “Avevo paura che qualcuno cercasse di convincermi a non fare una cosa che io dovevo assolutamente fare”; “Avevo un fidanzato”, “ero rimasta incinta. Sono stati giorni duri, tormentati. Non è stato facile, ma alla fine ho deciso che quel figlio non lo volevo, e mi sono rivolta al ginecologo”; “Avrei dovuto sottopormi a una procedura umiliante, fatta di test, domande, colloqui”; “Volevo fare presto, come desiderano tutte le donne nelle mie condizioni, per cercare poi di dimenticare e andare avanti”.
Domande, test e colloqui. Come se un consultorio avesse davvero, nei fatti, la possibilità di dire no a una donna che vuole interrompere la sua gravidanza. “Balle – dice il ginecologo modenese Matteo Crotti, di cui pubblichiamo nell’inserto I uno studio interessante sugli aborti in Italia – Sono balle perché qui il ‘no’ non esiste. Perché una donna può venire in consultorio e abortire per la quarta volta in due anni; anche per il motivo più futile che possa esistere al mondo. E non esiste nessuna circostanza in cui un dottore dica ‘signora, mi spiace, lei non può interrompere la gravidanza’, visto che in quel caso, pensateci, il dottore si vedrebbe rivoltare contro tutti gli abortisti e magari verrebbe pure denunciato. Perché in consultorio capitano anche cose di questo tipo; e capita, come è successo a me la scorsa settimana, che una donna possa arrivare dal ginecologo e dirgli così: dottore, guardi, non posso andare avanti; devo abortire subito. Con questa nausea non ce la posso fare. Perché, vede, la prossima settimana dovrei andare in vacanza alle Seychelles”.
Claudio Cerasa
14/03/08
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