martedì 18 dicembre 2007

Il Foglio. Il manifesto politico di W. “Tutti da soli alle elezioni”. Intervista con Walter Veltroni

Roma. Su una poltroncina gialla nell’anticamera del suo ufficio da sindaco, al primo piano del Campidoglio, Walter Veltroni discute con il Foglio per un’ora di cosa intende quando parla di rottura (rupture) democratica. In una delle settimane più importanti per il governo di Prodi, per il Partito democratico e per il destino dell’asse tra il Cav. e W (Cav + W), Veltroni usa parole nuove per definire il suo rapporto tra religione e politica, dà un’interessante interpretazione della guerra in Iraq (che anche Donald Rumsfeld, probabilmente, condividerebbe), dice qualcosa di nuovo su Romano Prodi, su Silvio Berlusconi, sulla Prima Repubblica, su Tangentopoli, sui Pacs, sui Cus, sulla maggioranza, sul fund raising e anche su Alitalia (“La cosa che mi piacerebbe di più è che le proposte di Air France e Air One si incrociassero. Per garantire la forza di un soggetto come Air France e la forza di un soggetto finanziario come banca Intesa, e al tempo stesso però il radicamento nel paese di una compagnia nazionale. Conta l’offerta che viene fatta, contano le strategie industriali, conta sapere per il paese che esito avrà la sua compagnia nazionale”). Entrando nel cuore della sua idea di Partito democratico (la cui vocazione maggioritaria più che a Botteghe Oscure si ispira sempre di più alla filosofia senza tessera e senza congressi dei democrat americani), Veltroni parla in un modo nuovo anche di referendum elettorale: quel referendum fino a ieri “sostenuto ma non firmato” e su cui oggi, invece, Veltroni ammette che, a certe condizioni, potrebbe dire di sì: intravedendo una possibile tutela della “vocazione maggioritaria” nel testo su cui la Consulta darà un giudizio di costituzionalità entro la metà di gennaio.
Due mesi fa tre milioni di elettori scelsero W come leader del Pd; due settimane fa, al quinto piano del palazzo dei gruppi parlamentari, W ha incontrato il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi; tra poche settimane Romano Prodi dovrà affrontare quella verifica di governo di cui sabato Veltroni ha parlato con Romano Prodi: tra un’intervista alle 9.15, un matrimonio celebrato alle 11.30 e un compleanno centenario festeggiato alle 10.30 a casa della signora Broccolo. E’ un Veltroni un po’ meno spagnolo, sempre meno tedesco, molto americano ma pure un po’ francese. E’ un Veltroni che fa un paio di assist al Cav., che rilegge in modo curioso un aspetto dello strappo di Fausto Bertinotti con Prodi e che, quando si parla di religione e di politica, non ha nulla da ridire sulle parole di Obama (“I laici sbagliano a chiedere ai credenti che entrano in politica di lasciare da parte la religione”). W sorride leggendo la prima pagina del Foglio di sabato sui leader cristiani in corsa in America per la presidenza; e alla domanda: “Che cosa significa Cristo in politica?”, dà una risposta che farà insospettire chi crede che sia “molto difficile essere laici nel paese delle chiese” (Eugenio Scalfari, Repubblica 16 dicembre).
Spiega Veltroni: “Cristo in politica è giusto e legittimo che lo porti chi ha Cristo dentro di sé. E che lo porti e non lo lasci a casa. L’idea che qualche volta la politica ha avuto anzi, che spesso la politica ha, fa parte di una visione del mondo che io non condivido: che la laicità dello stato – che io considero come un valore assolutamente indiscutibile e indisponibile – presupponga una sorta di rinuncia alle identità di ciascuno. Qui dentro però io ci vedo una delle chiavi della possibile convivenza del nuovo millennio: il tema del rapporto tra identità e dialogo. E’ un tempo, questo, in cui di fronte alla paura delle grandi trasformazioni economiche e finanziarie, e della circolazione delle persone con la loro visione del mondo e la loro religione, sembra prevalere in ciascuno l’idea di arroccarsi in una dimensione identitaria: un po’ per conforto, un po’ per rassicurazione; ma con l’idea che questo possa essere l’antidoto al processo di melting pot in corso. Tutto questo lo si può affrontare in due modi: lo si può affrontare accettandolo passivamente. Ma il rischio dell’accettazione passiva è che si finisca con il legittimare anche le forme attraverso le quali questa identità figlia di divisioni culturali, religiose, di concezioni della comunità pubblica diversa dalle nostre, si fa integralista, fino ai rischi del fondamentalismo. Oppure lo si può accettare con l’idea che l’identità non sia uno straccio. E che l’identità sia figlia della storia, delle culture, delle radici, delle ragioni e che sia un valore. Perché se è vero che è necessario il dialogo, il dialogo ha senso se ci sono tante identità. E se qualcuno afferma e difende queste identità. La grandezza della cultura politica dovrebbe essere quella di far convivere la propria identità con la disponibilità all’apertura. Qui sta l’idea del rapporto tra stato laico e punto di vista religioso”.
Veltroni ora entra nel cuore del discorso: “Personalmente non sono credente e non avrebbe senso che io fossi considerato un christian leader, anche perché esiste una sfera che è assolutamente personale che mi dà fastidio dover usare quando c’è qualcosa che è pubblico (ho visto, a proposito del rapporto tra politica e religione, trasformazioni troppo repentine determinate dalle contingenze del momento). Però vorrei che la mia idea fosse chiara: a me ha sempre culturalmente affascinato la vocazione pastorale della chiesa mentre mi piace meno quella chiesa che ogni giorno sforna prescrizioni morali di comportamento: lo considero un po’ una riduzione della grandezza della missione e della funzione della stessa chiesa. Io sono stato molto affascinato da Giovanni Paolo II, l’ho conosciuto ho avuto modo di parlare con lui diverse volte, mi piaceva enormemente la coesistenza in lui di identità e dialogo. Mi piaceva il fatto che sulle questioni che attengono alla responsabilità della chiesa lui avesse le sue posizioni, che per altro misurava con grandissima sapienza. Ma non dimentichiamolo mai è stato il Papa delle invettive contro il capitalismo egoista, è stato il Papa che ha denunciato lo strazio dell’Africa, è stato il Papa più impegnato per la pace e il dialogo tra le religioni. Ecco: a me interessa che nel Partito democratico ci siano persone che portano il punto di vista, le esperienze, la cultura religiosa con la disponibilità a incontrarle laicamente. Come dice il Dalai Lama, ‘la religione deve in qualche misura sempre essere consapevole del carattere parziale, limitato della sua funzione’”.
Manca però, nel discorso di Veltroni, un concetto chiave: la libertà di coscienza. Quella libertà che, due settimane fa, ha portato la cattolica Paola Binetti a votare “no” alla fiducia di Romano Prodi sull’emendamento che a sinistra continuano a chiamare “antiomofobico” e in realtà riguarda l’identità di genere, cioè una formula ideologica. Omofobia è una parola che Veltroni conosce bene; e che, in un certo senso, ha affrontato anche ieri in consiglio comunale, dove è stato votato un testo presentato dal consigliere della Rosa nel Pugno Gianluca Quadrana sul tema del registro delle unioni civili. Veltroni la pensa così. “Su questo argomento, a Roma, abbiamo già fatto un grandissimo passo in avanti. Mi spiego: tutto ciò che è previsto nelle politiche sociali lo diamo attraverso la residenza anagrafica, per cui se due persone risiedono anagraficamente nello stesso posto hanno la possibilità di accedervi indipendentemente dalla natura della relazione che li ha portati a vivere sotto lo stesso tetto. Ecco, penso che quello che si sta facendo in Parlamento con i Cus sia una base abbastanza giusta; cioè l’idea di avere definizione in forma privata dell’identità di relazione che c’è e che può essere diversa da quella della famiglia tradizionale, anche se io sono perché la famiglia costituzionalmente prevista sia assolutamente garantita. Però i Cus sono una buona base su cui ragionare”. E il matrimonio tra omosessuali? “I Cus sono una buona base su cui ragionare”, ripete Veltroni. Che poi aggiunge: “Non mi piace tra i cattolici, tanto quanto non mi piace tra i laici, quando si utilizzano vicende di questa delicatezza a fini simbolici. Alla mia domanda ai presentatori della proposta del registro sulle coppie di fatto, ‘cosa cambia nella vita delle coppie di fatto delle quali parliamo’ la risposta è: ‘Nulla, ma ha un valore simbolico’. Ecco, a me piacciono le cose concrete. Mi piace costituirmi parte civile con il comune quando un omosessuale viene aggredito. Mi piace dedicare una strada a un omosessuale che è stato ucciso e che è vittima dell’omofobia. Mi piacciono le cose che abbiano una loro concretezza nella vita delle persone”.

Parlare però di libertà di coscienza è un’altra storia. Veltroni capisce quali possano essere state le perplessità di Paola Binetti, ne condivide lo spirito ma non ne accetta l’impatto politico. “Attenzione, sulle questioni etiche sono convinto che la libertà di coscienza non può essere compressa da nessuno. Ma la libertà di coscienza sul voto di fiducia è un’altra cosa. Perché altro è un giudizio politico, altro è un impegno di permanenza del governo. E’ chiaro che su questioni etiche, sulle questioni ‘veramente’ etiche – cioè quando si parla di questioni che chiamano in causa i valori fondamentali nei quali credere, che andrebbero però sempre affrontate con quella curiosità che devono avere i laici e devono avere i cattolici – nessuno può chiedere a nessuno di rinunciare alla propria coscienza. L’idea di trasformare la politica in una grande assemblea col clergyman non sarebbe né giusta né bella per nessuno. Ma detto questo io credo che nessuno può chiedere di lasciare a casa le proprie convinzioni, anche quando si concorre alla formazione e alla scrittura delle regole laiche dello stato. Ma la libertà di coscienza deve essere usata come una fonte feconda. Perché a me non piacciono gli integralismi. Non mi piacciono umanamente e non mi piacciono culturalmente. E se discutiamo dei temi della bioetica, o se discutiamo dei temi della famiglia, mi interessa che l’idea e il punto di vista religioso abitino in un contesto in cui si ricerchino delle soluzioni per uno stato laico che sia ampiamente condivisibile”.
Bioetica, dunque. Giovedì scorso, il filosofo della scienza Mauro Ceruti ha presentato al loft la prima bozza del manifesto dei valori del Pd. Una bozza che potrebbe essere però motivo di scandalo laico, visto il “riconoscimento della rilevanza nella sfera pubblica e non solo privata delle religioni e delle varie forme di spiritualità”.
Questa bozza a Veltroni non dispiace. Il leader del Pd, quando ci spiega la sua idea di “buona scienza”, è in sintonia con le stesse parole utilizzate da Joseph Ratzinger. Il discorso sulla bioetica di W comincia dalle cellule staminali, Veltroni, sfiora il suo pensiero sui pericoli dell’aborto (“Vanno rafforzati i consultori. La legge sull’aborto è una buona legge, ma l’obiettivo che si è proposta è quello ridurre il numero degli aborti: questo obiettivo va confermato. Per questo bisogna rafforzare tutta la parte di prevenzione per chi fa ricorso all’aborto.”). Prima di parlare del Pd, Veltroni dice un paio di cose che potrebbero aiutare a capire meglio come intende ragionare su politica, bioetica, scienza e religione. “Il mio pensiero sull’uso delle cellule staminali? Massimo di libertà scientifica e massimo di ricerca, perché la ricerca scientifica non può conoscere limiti. Attenzione però: sull’applicabilità della ricerca scientifica c’è un discorso delicato da fare. Perché è proprio qui che conta il punto di vista delle istituzioni democratiche. Per esempio, leggere che negli Stati Uniti c’è chi ha messo in cantiere la clonazione degli esseri umani mi fa pensare che c’è un limite al quale bisogna fermarsi”. E’ quindi giusto per Veltroni (“Assolutamente sì”, dice) sintetizzare l’idea di buona scienza così: “Non tutto ciò che è tecnicamente possibile è moralmente lecito”; quindi con le stesse frasi usate da Ceruti nella bozza del Pd, ma con la stesse parole che Veltroni potrebbe trovare nel documento della congregazione per la Dottrina della fede firmato il 22 febbraio 1987: quando l’allora cardinale Joseph Ratzinger, per definire il suo pensiero sul “rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione” utilizzò gli stessi termini che oggi userebbe W: “Ciò che è tecnicamente possibile non è per ciò stesso moralmente ammissibile”.
Prima di parlare di riforme elettorali, di referendum, di Berlusconi e di Casini, Veltroni parla anche del modello americano del suo Pd e delle sue idee su quanto in questi mesi sta succedendo tra Washington, Teheran e Baghdad. E qui, cioè sull’Iraq, a Veltroni scappa l’unico “ma anche” dell’intervista. Un “ma anche”, però, per certi versi clamoroso: perché Veltroni, parlando di Iraq e di Petraeus usa parole nuove. “L’islamismo radicale è un vero pericolo e non è un’invenzione di Dick Cheney. Io non mi riconosco nell’unilateralismo. Credo però che non si possa avere un atteggiamento ideologico di contrapposizione all’idea che la democrazia possa nascere da un sostegno esterno, quando non nasce spontaneamente. Se mi si chiede cosa hanno fatto i soldati americani i cui corpi sono sepolti ad Anzio e a Nettuno, io risponderei così: ‘Hanno cercato di portare la libertà e la democrazia in un continente dove la libertà e la democrazia ce l’eravamo giocate’. Il problema, oggi, è che questo sia avvenuto in forma unilaterale. E questo a me non piace: non mi piace l’idea di Bush di regolare le contraddizioni del mondo attraverso una struttura unipolare: non è quello di cui c’è bisogno”. Arriva il “ma anche”. Perché se a Veltroni gli si chiede se in Iraq stiamo esportando o no la democrazia, e se in Iraq ci sia o no un successo del generale David G. Petraeus, Veltroni non parla di necessaria “accelerazione del cambiamento delle politiche degli Stati Uniti”, come fatto da Romano Prodi (8 novembre 2006), non parla di una “guerra in Iraq che doveva portare la fine del terrorismo, l’esportazione della democrazia e la pacificazione del medio oriente e ha portato all’esatto contrario” (Massimo D’Alema, 28 marzo 2004), di un “chi fa la guerra adesso lavora allo scontro di civiltà” (Fausto Bertinotti, 9 settembre 2004). Dice invece Veltroni: “Rispetto a Saddam Hussein sicuramente le cose stanno migliorando. Quando si vive sotto una dittatura è chiaro che quando la dittatura finisce le cose migliorano. Ma tra il migliorare la situazione e l’aver risolto tutte le contraddizioni c’è un abisso. E purtroppo il rosario quotidiano di morti ammazzati che ormai non finiscono neanche sui giornali ci dicono quanto ancora quell’area sia un’area che ha bisogno, certo di un intervento militare, ma anche di una grande intelligenza politica. E quella che è mancata nel corso di questi anni è stata l’intelligenza politica applicata alla prevenzione del conflitto”. Veltroni seguendo la scia arriva a discutere anche di Iran: lo aveva già fatto quest’estate parlando di giuste sanzioni all’Iran; e lo fa anche oggi, spiegando perché l’impostazione offerta al problema iraniano dal ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, è proprio quella giusta. “Il mondo deve prepararsi al peggio… cioè alla guerra”, aveva detto, provocatoriamente, il ministro di Nicolas Sarkozy. “Adesso con l’Iran – precisa W – il problema deve essere non quello di avere l’idea di un intervento militare; deve essere un altro, e cioè fare pressione. Negoziare, fare pressione e auspicare l’applicazione di ‘sanzioni’. Perché penso che con l’Iran l’idea di risolvere il problema con il bombardamento sia una tragica illusione. E’ uno di quei casi in cui bisogna usare lo strumento della forza come produttore di un negoziato. Per questo penso che le parole di Kouchner debbano essere seguite con attenzione”.
Il discorso di Walter Veltroni su islam e fondamentalismo si sposta su Hamas ed Hezbollah. Veltroni spiega perché si deve discutere, in certi casi, anche con gli estremisti. “Per cercare la pace, per fare la pace, si discute anche con chi si ritiene che non sia titolato da un punto di vista morale a poterlo fare. Faccio un esempio. Io penso che Ingrid Bétancourt vada liberata non con un intervento militare ma con una negoziazione. Dio solo sa se considero le Farc un interlocutore, avendo loro rapito tremila persone, ed essendo immerse nel narcotraffico. Però mi chiedo: cosa si può fare? O si decide che quelle migliaia di persone moriranno, oppure si decide di negoziare. La storia della democrazia è anche la storia della negoziazione. Ricordiamoci che a Yalta, accanto a Franklin Delano Roosevelt c’era Stalin”. Veltroni, dunque, concorda con le idee di Kouchner e con quelle parole “provocatorie”; fa capire che in America voterebbe Barack Obama, e anche se a gennaio, parlando di politica estera, Obama aveva detto: “Nessun presidente deve mai esitare a usare la forza, unilateralmente se è necessario, per proteggere noi stessi e i nostri interessi vitali”, Veltroni dice che “Obama è una persona che stimo moltissimo che ho conosciuto e le cui idee e la cui visione del mondo e la cui leadership calda mi piace”. W, a proposito di leadership calde (“Anche George W. Bush è una leadership calda, sicuramente lo è stato più di John Kerry, come lo sono Lula o la Bachelet”), dice di apprezzare il linguaggio di Nicolas Sarkozy (“Va oltre gli steccati della politica, e questa secondo me è la grande funzione della politica moderna”) e prende spunto dalla sarkoeconomics per ragionare su economia, salari e straordinari (“La detassazione degli straordinari va vista dentro un contesto di accordo sulla produttività. La questione, in Italia, è che il paese cresce poco e che i salari crescono poco. Oggi c’è bisogno di fare un grande accordo sociale fondato sulla produttività, che consenta, anche attraverso l’utilizzo dello strumento fiscale, la riduzione della pressione fiscale sul costo del lavoro e che permetta alle imprese di alleggerire il costo e agli operai di guadagnare di più”).
Veltroni comincia ora a parlare del Pd. Parla di leadership (“Noi abbiamo introdotto con le primarie un forte elemento di novità, tre milioni e mezzo di persone hanno partecipato e scelto: la leadership discende da quel voto, anche se, ovviamente, si confronta e collabora con un gruppo dirigente più largo, con intelligenza ed equilibrio. Il mandato delle primarie è fare un partito nuovo. A questo mi sento assolutamente legato”); parla della collocazione europea del Pd (“fino al 2009 resteremo nei gruppi parlamentari in cui siamo stati eletti. Ma da qui al 2009 stiamo lavorando con il Pse e con altri soggetti per cercare di creare costruzioni di un luogo del centrosinistra europeo. Sarebbe molto importante, se Pse e internazionale socialista cambiassero la loro denominazione. Perché non è vero che oggi è solo l’identità socialista che identifica il campo del centrosinistra in Europa. E, a mio avviso, se l’Internazionale socialista si chiamasse ‘internazionale dei socialisti e dei democratici’ sarebbe un enorme passo avanti in questa direzione; e la stessa cosa vale per il partito del socialismo europeo”).
Parla anche di cinema, W; Veltroni, qualche tempo fa, aveva detto che con il Pd sarebbe cominciato un nuovo film. Era una battuta; però il sindaco di Roma ora sta al gioco: e se dovesse pensare a un film per il Partito democratico, la prima pellicola che gli viene in mente è il noir di François Truffaut “Finalmente domenica”, tratto dal romanzo di Charles Williams “Morire d’amore”. E se dovesse pensare, invece, a un film per il governo di Prodi? Veltroni ci sta, e sorride: “Direi che il titolo che più si avvicina è ‘Staying alive’”: quel Rocky in versione musical di Sylvester Stallone, con John Travolta che balla vestito da Tony Manero. Torniamo al loft. Per quanto riguarda il Pd ci sono infatti due aspetti che spiega di voler ereditare dal Pd americano. Il primo è il modello (seppur con qualche ritocco) del finanziamento ai partiti, il secondo è il ruolo delle lobby e delle correnti. “Vorrei che ci fossero correnti di pensiero nel Pd, non correnti organizzate. Le correnti organizzate come strutture piramidali che si occupano poco di pensiero e molto di chi viene eletto qui e chi viene eletto là, non mi hanno mai affascinato. Tanto è vero che in vita mia non ho mai fatto parte di nessuna corrente, neanche di una corrente che facesse riferimento a me stesso. Vorrei che si sia scritto sulla mia lapide: non ha mai partecipato a una corrente”, dice Veltroni, scortato a destra da Luigi Coldagelli (dell’ufficio stampa del Comune) e da Roberto Roscani, portavoce del Pd e collega di W all’Unità. Veltroni continua: “A me piacciono le fondazioni culturali, i centri di elaborazione di pensiero, mi piace pensare a un partito più mobile”. Liquido, verrebbe da dire. “Nel Pd americano non ci sono le correnti. Ecco: non mi piace un tipo di leadership esclusiva, né una struttura correntizia di tipo italiano: quella fatta da gente per la quale nella politica conta ‘quanti dei miei ci stanno in questo o in quel consiglio regionale o nel cda di non so che cosa’. Per quanto riguarda il finanziamento e il modello di raccolta fondi americano, ecco, io vorrei che ci fosse una nuova legge che disciplini il finanziamento. Abbiamo bisogno di essere tutti più chiari su questo argomento e, se vogliamo, anche un po’ più contenuti nella macchina della politica. Abbiamo bisogno di alleggerire il numero dei parlamentari, abbiamo bisogno di alleggerire il fatto che si possano avere tanti gruppi parlamentari con tutti i privilegi dei gruppi parlamentari e lo stesso discorso vale anche per la stampa di partito. Cioè, come negli Stati Uniti, la politica deve essere più lieve”. Liquido e leggero. E possibilmente senza tessere e congressi. “Negli Stati Uniti non c’è una macchina organizzativa che dura tutti i giorni che lavora tutti i giorni attorno a quello che in Europa è la vecchia struttura del partito. Però, detto questo, io penso che per quanto riguarda il Pd dobbiamo pensare molto al finanziamento diretto. E’ importante. Noi, in questi giorni stiamo progettando un portale 2.0 del Pd, dove sarà assolutamente attiva una via di finanziamento diretta dei cittadini che vorranno sottoscrivere entro un certo tetto naturalmente. Io, da parte mia, moltiplicherò le cene e le occasioni di fund raising: ne farò già una questa settimana, poi ne farò un’altra subito dopo. Poi, sinceramente, sono anche perché ci sia (ma con attenzione perché noi non siamo gli Stati Uniti), il finanziamento da parte di imprenditori, entro certi limiti e con assoluti criteri di trasparenza”. E – forzando un po’ il link con l’argomento – se per D’Alema è inevitabile che la politica si interessi della finanza, Veltroni non è d’accordo: “L’ideale è che ci sia il massimo dell’autonomia nel mondo finanziario; anche se poi è chiaro che è significativo quello che fa Sarkozy in Francia con Air France ed Edf, perché promuove la Francia. Allo stesso modo tutti i capi di stato e i capi di governo forti promuovono il loro paese. Ma mantenendo quel livello di distanza e di autonomia che è necessario”.
Tornando al modello americano, W non ama il fatto che “si spendano tanti soldi per la politica, e che sulla base di quanti soldi hai raccolto le tue possibilità di essere eletto aumentano. Ma è anche vero che se una lobby deve finanziare il Pd deve farlo alla luce del sole, anche se in America, a mio avviso, gli stessi democratici e repubblicani cominciano a sentire un po’ troppo il peso delle lobby sulla vita politica: pensate a cosa succede quando si deve lavorare a una riforma sanitaria o a una sul controllo dell’uso delle armi”.
E’ pero il ragionamento sul sistema elettorale il cuore della novità politica di questi giorni per W. E le parole di Veltroni sul referendum potrebbero aprire un nuovo fronte di battaglia o di confronto. Più probabile il primo però. Il sindaco di Roma arriva al punto partendo da lontano; spiega come è possibile che in pochi anni sia passato dal criticare, anche in modo brusco, il sistema proporzionale a farne praticamente un elogio. “Sì al sistema proporzionale, no al premio di maggioranza per evitare coalizioni con alleanze fatte dopo il voto”, aveva detto a novembre. Ma a leggere gli editoriali scritti negli anni in cui W era direttore dell’Unità il cambiamento sembra però essere più pesante di quello che sembra. E in effetti un po’ lo è. “Stanno perfino trovando un capo, i nostalgici della proporzionale: Silvio Berlusconi. Il Cavaliere sa di non potercela fare a tornare al governo attraverso una battaglia in campo aperto, un bel confronto bipolare tra Ulivo e Polo. Si sta quindi convincendo che è meglio puntare sulla riesumazione della vecchia politica di accordo al centro, su una parodia della Prima Repubblica, da mandare in scena già in occasione della prossima elezione del capo dello stato. Si tratta di miasmi che vanno rapidamente spazzati via. L’Italia ha bisogno di andare avanti, non di tornare indietro”, scriveva Veltroni il 18 aprile del 1999 sull’Unità, concludendo con un: “Sì per più maggioritario e meno proporzionale. Sì per il doppio turno, sì per il bipolarismo, sì per le riforme”. La situazione ora è ribaltata. E Veltroni spiega senza imbarazzo perché. “Ma certo, non è che sono convinzioni ideologiche le leggi elettorali. Le leggi elettorali sono funzioni di ciò di cui un paese ha bisogno in un determinato momento storico. Noi abbiamo sperimentato un sistema maggioritario con il premio di coalizione; e non ha funzionato. Bisogna prenderne atto. Ovvio: se mi si chiede qual è la soluzione che preferisco è il sistema francese. Elezione diretta del presidente della Repubblica e sistema a doppio turno. Ma siccome sono un uomo politico, e so che bisogna fare i conti con la realtà, verifico che oggi la convergenza più elevata è sul sistema proporzionale: e quello che mi sforzo di fare è un sistema proporzionale che non butti a mare il bipolarismo e che non metta l’Italia nella condizione di ingovernabilità, che è il rischio di un sistema proporzionale non bipolarizzato; non per caso in tutti gli altri paesi europei vi sono partiti attorno al 35 per cento”. E proprio rispolverando le parole e i sistemi elettorali della Prima Repubblica, W accetta di parlare di Tangentopoli, anche in modo duro: “Sì, quegli anni sono stati degli anni terribili. Io facevo il direttore dell’Unità e penso di poter dire che abbiamo tenuto fuori il giornale dall’impazzimento giustizialista che c’era, andando contro anche all’arresto del fratello di Berlusconi; questo perché faccio fatica ad accettare la dilatazione della carcerazione preventiva per chi non ha compiuto atti contro altre persone. Sono convinto che vanno condannate in maniera forte la corruzione e l’utilizzo spregiudicato del potere: perché sì, in quegli anni i giudici sono andati oltre i loro confini, però poi c’è stata contro i magistrati una campagna inaccettabile; e per questo quella è una stagione che non andrebbe ripetuta, nel senso dell’uso di strumenti giudiziari (secondo me sproporzionati rispetto alla situazione data) e nel senso che non va neanche ripetuta quella soluzione di corruzione spaventosa che questo paese ha conosciuto e ha vissuto e che non so neanche dire se sia del tutto finito”. Come Fausto Bertinotti, il giudizio sulla “transizione dalla Prima Repubblica, per Walter Veltroni è lo stesso che il presidente della Camera ha usato dieci giorni fa, attaccando Prodi: “fallita”. “Io credo di essere tra le persone in Italia più angosciate dalla crisi della democrazia italiana: sento che il paese in questo momento è vicino a una crisi molto profonda. Sono convinto che, in questo senso, la democrazia italiana non è compiuta. Perché? Perché il paese non riesce a trovare un assetto di governo stabile. Cioè, un sistema istituzionale ed elettorale che dia ai cittadini la sensazione di essere governati. E dia a chi governa il potere per governare”. Un discorso che può tornare utile anche per comprendere meglio come il leader del Pd si stia muovendo per costruire una specie di nuova Prima Repubblica in grado di prescindere completamente dall’esperienza della Seconda. E su questi temi, il suo asse con il Cav. per il momento regge. E nel CaW, tra l’altro, c’è qualcosa che W ammette di condividere con il leader del Pdl: “Una certa tensione a un rapporto diretto con i cittadini”. E sarà anche per questo che Veltroni crede che con lui, con W, la destra stia facendo oggi lo “stesso errore che la sinistra ha fatto con Berlusconi”. W spiega perché: “L’errore è quello di dire che Veltroni è quello della Festa del cinema, così come si diceva ‘Berlusconi è quello della televisione’; senza capire che per formazione personale e per convinzione politica io ho un rapporto con la vita reale, con le persone, molto diverso da quello che in generale ha la vita politica italiana”. Ma dice di più Veltroni; e lo fa quando parla di quello che la sinistra, secondo lui, non ha capito del Cav. “Io considero quello di non aver capito Berlusconi un sottosistema di un problema più grande, cioè il fatto di non aver letto le trasformazioni della società. Berlusconi è stato in grado, per esempio, nel rapporto con l’imprenditoria di dare voce a un’Italia che voleva rompere un po’ di lacci sulla quale ha messo una cosa che a me non piace culturalmente, e cioè una visione del mondo egoista, se vogliamo, individualista della crescita sociale. Combattere la politica di Berlusconi è stato ed è giusto, ma l’errore della sinistra – insiste W – è stato naturalmente quello di demonizzarlo”.
Sul CaW Veltroni, da come parla, sembra puntarci davvero. E a questo proposito oggi è un giorno molto importante. Perché dopo aver discusso per giorni e giorni sulla bozza ispano-tedesca del Vassallum, la commissione Affari costituzionali del Senato esaminerà questo pomeriggio un’altra bozza elettorale: quella presentata dal senatore Enzo Bianco. Una bozza molto proporzionale che vorrebbe mettere d’accordo il Pd di Veltroni, il Pdl di Berlusconi, il Prc di Bertinotti, la Lega di Bossi e l’Udc di Casini. Della bozza Bianco, Veltroni ne ha parlato sabato con Prodi e venerdì con Clemente Mastella, ma nella discussione sulle riforme elettorali la novità oggi è questa: la vocazione maggioritaria del Pd Veltroni la vede anche nel referendum; un referendum, tra l’altro, su cui hanno lavorato anche due costituzionalisti che hanno ideato per W le cosiddette bozze Vassallum: Salvatore Vassallo e Stefano Ceccanti. Il discorso di Veltroni è questo: a prescindere dalla legge elettorale che ci sarà il Pd deve correre da solo. Sia che ci sia il tedesco, lo spagnolo, sia se ci sia il referendum, sia, se dall’altro lato, nascerà nuovamente la Casa delle libertà. Anche se, dice Veltroni, insieme alla Sinistra L’arcobaleno è “fisiologico” che nasca anche una Cosa bianca. E, se succederà, secondo W il merito sarà del Pd. “Sì, sono convinto che la vera novità nella politica italiana l’ha introdotta sia la nascita del Partito democratico che l’utilizzazione, da parte mia, di un’espressione: ‘un partito a vocazione maggioritaria’, tanto che il primo effetto è stata la fine della Cdl”. Parla ancora di unilateralismo Veltroni: ma questa volta, a differenza dell’Iraq, ne parla con entusiasmo. “La mia idea è che, anche unilateralmente e anche a prescindere dalla legge elettorale, si possa rompere il sistema di vincoli che sono discesi per tredici anni da quel modello di mondo politico separato dalle due contrapposizioni. Ed è per questo che noi siamo disposti ad andare da soli, proprio per segnare questo elemento di discontinuità che è necessario al paese. Certo – continua Veltroni – può darsi che si costituirà una forza di centro. Può essere una delle dinamiche che da un lato la riforma elettorale dall’altro la Casa delle libertà mettono in moto. Però, se devo essere sincero, io non so se ci sarà una Cosa bianca. Perché? Perché francamente ho dei dubbi sul fatto che la chiesa italiana che ha avuto come riferimento politico un grande partito come la Dc voglia avere come riferimento politico una forza dell’otto o del nove per cento”. Cioè un partito che, in percentuale, varrebbe tre o quattro volte in meno rispetto a quello che è nelle mani di W.
Con un po’ di acrobazie diplomatiche Veltroni parla anche del governo (“io sono perché Prodi non cada non solo perché ovviamente sono impegnato con quello che faccio oggi, ma perché oggi la permanenza del governo Prodi è la condizione per fare le riforme”), se gli si chiede cosa farà nel caso in cui Prodi dovesse cadere lui risponde con un “non esamino la subordinata”; se gli si domanda in cosa si sente diverso da Prodi e da D’Alema lui prima ride, poi dice che “la risposta è molto semplice: ciascuno è se stesso”, poi, incalzandolo un po’, ti dice “che ti potrei dire che sono diverso da diciotto persone, ma perché da Prodi e da D’Alema e non da Giolitti o da chessò?”; quindi, facendo un ultimo tentativo, alla fine parla un po’ di Prodi. “In cosa sono diverso? In mille cose. Perché siamo due persone diverse, abbiamo due caratteri diversi, abbiamo due formazioni culturali diverse, siamo di due generazioni diverse. Siamo tutti diversi per fortuna, l’uno dall’altro. Mentre siamo simili nel fatto che abbiamo creduto, anche quando tutti ci tiravano le torte addosso, che si sarebbe fatto il Partito democratico. E questa è la cosa che ci ha resi simili e uniti per tanti anni”. Ma se Veltroni dovesse poi pensare a un futuro in cui l’unica condizione per governare sia quella di un accordo tra il più grande partito di destra con quello di sinistra, Veltroni prova a cavarsela dicendo che “senza sapere con che legge elettorale si va a votare come si fa a dare una risposta a questo tema?”. Veltroni, però, dice anche qualcosa di più. Dice no, W. Per il momento dice no. “Comunque la mia risposta è no. Siamo alternativi, e il carattere netto e trasparente del nostro dialogo è proprio qui. Mi auguro che venga il tempo in cui in questo paese questa domanda non si debba porre. Perché il vero obiettivo deve essere un altro: che i poteri siano tutti riconoscibili perché decisi dagli elettori. Io non capisco quando sento dire in questi giorni da Fini o da altri ‘ma voi volete togliere potere agli elettori’. Ma dico? Ma guardate lo scenario che c’è. Ma sono forse gli elettori che in questo momento decidono o meno la stabilità del governo Prodi o la sua sorte? No, sono piccoli gruppi che si sono costituiti. Io invece vorrei veramente che ci fosse il potere degli elettori, però per avere la possibilità di dare il potere agli elettori bisogna che ci sia un sistema elettorale e istituzionale come quello francese”. Dunque Veltroni, tra un tedesco impuro, uno spagnolo bavarese, un mattarellum comunale, un vassallum democratico e un porcellum caldaroliano, conferma che il suo sogno, in realtà, è un sistema elettorale da Quinta Repubblica francese. Certo è che se oggi dovesse scegliere tra il referendum e il sistema elettorale tedesco puro (cioè quello che piace a Massimo D’Alema, a Francesco Rutelli, a Franco Marini, a Pier Ferdinando Casini e quello che fino a qualche tempo fa piaceva anche a Fausto Bertinotti), Veltroni non avrebbe alcun dubbio, e sceglierebbe il primo. “Qui entriamo in un ragionamento che può essere delicato ma molto interessante. Ecco, io credo che se i miei avversari dicessero, in presenza del referendum, ‘ciascuno di noi va da solo’, introducendo per virtù personale ciò che l’assetto non ci consentirebbe, questo sarebbe un fatto molto importante”, spiega Veltroni. “Io per parte mia – prosegue – dico che, noi, la nostra vocazione maggioritaria intendiamo coltivarla quale che sia il sistema elettorale. Ma se Forza Italia e Alleanza nazionale, in ragione delle differenze che sono emerse negli ultimi tempi, avessero l’onestà politica di dire ‘se c’è il referendum ciascuno di noi va per conto suo’ e nessuno rifà le alleanze, questo introdurrebbe nella politica italiana un forte elemento di discontinuità”. Discontinuità, dunque, e sì al referendum, ma a certe condizioni. Veltroni, che concorda con Giorgio Napolitano quando il presidente della Repubblica dice che si deve andare a votare solo con riforme istituzionali e con riforma elettorale fatta (“puoi fare la legge elettorale più bella del mondo, ma poi se non si è fatta la riforma dei regolamenti parlamentari, da una sola lista nascono diciotto gruppi parlamentari. E se non si è fatta la riforma istituzionale i meccanismi di decisione restano lenti e rischiosi”), sembra voler fare questo discorso; sembra voler dire che, se si dovesse arrivare al referendum e se la destra dovesse formare una nuova Cdl, in nome della vocazione maggioritaria il Pd potrebbe addirittura presentarsi da solo per sfruttare i bisticci della destra e puntare su una proposta unica come quella del Pd. Veltroni ci pensa, e il Cav. lo ascolterà; e chissà se Berlusconi comincerà a parlare un po’ in francese come fa W oggi. Ma all’impossibile modello del CaW, Walter Veltroni, oggi, sembra crederci un pochino. Cioè molto.
Claudio Cerasa
19/12/07

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