"La tomba bianca senza nome, il funerale con la croce, il sacerdote, il cimitero, le ecografie
e le centosei ore nei due ospedali di Firenze. Biografia breve del bambino abortito vivo"
di Claudio Cerasa
Sulla tomba di Tommaso ci sono sei fiori appena raccolti e una lapide bianca senza foto, senza nomi, senza cognomi, senza date, senza lettere, senza numeri. In basso Attilio (1910-2004), a sinistra Dino (1920-2003), in alto due tumuli grigi di cemento. Sul primo il numero novantanove, sul secondo il numero cento, più in basso quattro tulipani rossi, due tulipani gialli, una statua in ottone con una Madonna in preghiera, un lumicino giallo e un’altra lastra di marmo bianca. Dietro quel marmo c’è Tommaso V., nato venerdì due marzo 2007 a Firenze (all’ospedale Careggi), morto a Firenze (all’ospedale Meyer) giovedì otto marzo 2007 dopo un’emorragia cerebrale e dopo essere sopravvissuto per sei giorni a un’interruzione di gravidanza. Tommaso pesava cinquecento grammi, era lungo venticinque centimetri e – ora – è sepolto a cinquantadue minuti da Firenze, in un paesino del Mugello. Doveva nascere morto, Tommaso, invece era vivo.
Al centro del giardino nel cimitero di Dicomano (cinquemila abitanti, sessanta chilometri da Firenze) il custode Daniele è seduto sopra una ruspa rossa. Tommaso doveva essere seppellito proprio lì, in mezzo alle altre tombe del giardino. O almeno così credeva Daniele fino al giorno in cui i genitori di Tommaso salirono in cima a via Sandro Pertini, si avvicinarono al cimitero e chiesero proprio a lui di poter entrare dalla porta nascosta sul retro del più importante dei tre cimiteri del paese. E’ il dieci marzo ed è sabato. Il cimitero di Dicomano sarebbe aperto dal lunedì al venerdì, ma quel giorno Daniele non ci pensò due volte e aprì il cancello sul retro proprio per Tommaso. Daniele, come la maggior parte degli abitanti di Dicomano, sapeva tutto della storia del bambino; sapeva che la madre desiderava quel bimbo, sapeva del problema al rene della madre, sapeva che la madre aveva scelto di abortire, sapeva che Tommaso era nato vivo, sapeva che era stato trasferito dal Careggi al Meyer e sapeva che Tommaso era vissuto per sei giorni dentro una scatola di vetro nel reparto di terapia intensiva neonatale, nell’ospedale Meyer. Il custode utilizza proprio questa parola; la stessa parola utilizzata da chiunque a Dicomano abbia voglia di parlare di Tommaso: “Visse”. Daniele quel giorno non ci pensò, aprì il cancello sul retro, fece entrare la mamma trentacinquenne, fece entrare don Collini, fece entrare il marito della mamma, i parenti di lui, i parenti di lei e il figlio di otto, quasi nove anni, che l’anno prossimo finirà la scuola elementare. Nel cimitero di Dicomano c’erano al massimo undici persone di fronte alla bara che qualcuno dice fosse nera, qualcun altro dice essere stata marrone, certamente non bianca e certamente abbastanza piccola da contenere i venticinque centimetri e i cinquecento grammi del corpo di Tommaso.
Tommaso sarebbe molto probabilmente andato nella stessa scuola del fratellino di otto anni, la stessa Giovanni Pascoli costruita a pochi metri dal cimitero di via Pertini e la stessa struttura a metà strada tra la via principale di Dicomano e la collinetta dove don Collini ogni domenica mattina alle dieci celebra la sua messa. Durante la settimana, don Collini si sposta dalla chiesa (costruita nei primi del Novecento) per andare a benedire le case del paese, per scambiare qualche chiacchiera con gli anziani in piazza e per raccontare le sua giornata alla banchiera del circolo di Mcl, cioè il circolo del Movimento Cristiano Lavoratori. E’ qui che don Collini ha parlato per la prima volta del funerale di Tommaso. O meglio, di Paolo Tommaso. A pochi metri dal circolo Mcl, di fronte al bar Grand’Angolo e a destra di piazza della Repubblica, al numero quattordici lavora il dottor Lucio Caselli – a cui “non interessa parlare di questa storia” – che il diciannove febbraio aveva spiegato a telefono alla madre di Tommaso cosa esattamente fosse quell’“atresia dell’esofago” che avrebbe potuto avere il bimbo dentro il pancione della mamma. Era il diciannove febbraio. Tommaso quel giorno aveva già ventuno settimane. Passano sette giorni e la mamma di Tommaso arriva dallo psichiatra di Borgo San Lorenzo. Doveva essere – ancora una volta – una normale visita di accertamento. Non lo fu affatto. Lo psichiatra di Borgo San Lorenzo comincia la visita, parla con la donna e poi chiama al telefono il ginecologo di famiglia. Finisce la visita, la mamma di Tommaso esce dal reparto, in mano ha un foglio e quel foglio è un certificato che conferma “il rischio di uno squilibrio della donna in caso di proseguimento della gravidanza”. Poche ore prima la mamma di Tommaso aveva deciso di abortire. E’ lunedì ventisei febbraio. Sette giorni prima la mamma aveva ricevuto una nuova conferma. L’ennesima. Aveva scelto di consultare un nuovo ginecologo (era il terzo) e aveva appena cercato di capire il significato della nuova ecografia. In poco più di due mesi, la mamma di Tommaso aveva già consultato nove specialisti. Ma anche quel giorno sentì quella frase: “Sospetto di malformazione”. La mamma di Tommaso era molto agitata, come ricorda chi era in quella stanza. La visita continua, dura ancora un po’, il ginecologo ripete che la malformazione potrebbe essere “di vari gradi di serietà”, ma ripete che la stessa malformazione potrebbe essere “correggibile chirurgicamente in maniera più o meno semplice”. Tutto dipende dal grado della malformazione, e per capire il grado della malformazione c’è solo un modo: partorire. La visita dura ancora un’ora, la mamma di Tommaso racconta al ginecologo che nella settimana precedente un chirurgo di sua conoscenza le aveva spiegato che l’atresia esofagea è in realtà una malformazione piuttosto grave. Trascorre un’altra ora, i medici propongono alla madre una risonanza magnetica. La mamma di Tommaso non accetta, è sempre più agitata, decide di lasciar passare ancora una settimana e poi – il ventisei febbraio – altra ecografia, lo stomaco non si vede ancora ed è quel giorno che la mamma di Tommaso parla con i medici. E’ in quel momento che decide di abortire ed è in quel momento che scopre che per farlo – dopo la ventunesima settimana, come previsto dalla legge 194 – serve il certificato dello psichiatra.
Tommaso nasce alle quindici e quarantadue minuti del due marzo. E’ un venerdì. La stessa mattina la mamma – che non sapeva ancora che sarebbe diventata madre per la seconda volta – aveva appena ricominciato il ciclo per “l’interruzione di gravidanza”. Poche ore dopo, l’ostetrica – come si legge dal referto – “riscontra l’espulsione del feto e della placenta e provvede alla separazione del primo dalla seconda”. Tommaso era nato, ma tra le quindici e quarantadue minuti e le quindici e cinquantacinque minuti l’unico a sapere di non essere un “feto non vitale” era lui. Passano tredici minuti, sono le quindici e quarantaquattro, l’ostetrica si alza, prende Tommaso e lo porta dentro una stanza. Qui, Tommaso, sarebbe stato sottoposto ai cosiddetti prelievi per la “citogenetica”, cioè gli esami in grado di studiare la morfologia dei cromosomi di Tommaso. Un esame che viene generalmente effettuato subito dopo le interruzioni di gravidanza. Alle quindici e quarantotto la mamma di Tommaso era ancora sveglia. L’ostetrica torna in stanza, le si avvicina con un modulo in mano. Tutto come da prassi. La citogenetica, l’espulsione, il ciclo con gli ovuli e poi il modulo. Il modulo si chiama “consenso all’interramento”. La mamma lo firma, l’ostetrica esce dalla stanza, il ginecologo anestetizza la mamma, l’ostetrica torna da Tommaso e gli passa un po’ di acqua sotto la fronte. Anche don Collini – circa ottant’anni, “sacerdote di Dicomano”, pochi capelli, pochissimi denti – ricorda il particolare dell’acqua. Tre schizzi, Tommaso si muove. E’ ipotonico, cianotico, con una scarsa attività respiratoria, è bradicardico, ha ottanta battiti al minuto. Ma è vivo. La mamma, in quel momento, è già sotto anestesia. Sono le sedici del due marzo. Il neonatologo procede alla rianimazione del feto non più “non vitale” e inserisce una sonda gastrica dentro la bocca. La rianimazione dura pochissimi minuti, il bambino è vivo davvero. In quel momento il padre è ancora lontano dalla stanza. All’infermiera, però, serve un nome subito. Ci pensa qualche minuto, pensa che se i genitori non lo riconoscessero il bambino potrebbe essere dato in affidamento, magari adottato e poi chissà. L’infermiera si ferma e sceglie il nome: “Paolo”. Paolo, continua a respirare, la rianimazione dura pochissimi minuti. Il neonatalogo estrae dalla bocca la sonda “orogastrica”. Paolo ha ventidue settimane, tra poco diventerà Tommaso, ha molti problemi ma non ha quello per cui non sarebbe dovuto nascere: nel suo stomaco non c’era nessuna “atresia esofagea”; il suo stomaco sta bene e anche se non lo fosse stato, Tommaso, avrebbe potuto vivere senza alcuna malformazione, proprio come era già successo il venti gennaio del 1995; l’ospedale era il Meyer, nel reparto di ginecologia nacque un bambino che pesava quattrocentoquaranta grammi, lungo venti centimetri e con una seria “atresia esofagea”. La stessa malformazione che Tommaso avrebbe potuto avere e che invece non aveva. Al bimbo venne fatto un intervento piuttosto semplice, rimase sei mesi in ospedale, uscì sano e con l’esofago a posto. Il ragazzo ora vive a Firenze e ha dodici anni.
Nella stessa settimana in cui Tommaso nacque come Paolo, nello stesso ospedale, nello stesso reparto e con la stessa equipe che aveva fatto nascere il futuro Tommaso, arriva una coppia di ragazzi. La coppia aveva scelto di far nascere un bambino con lo stesso problema che avrebbe potuto avere Tommaso. Il piccolo avrebbe potuto avere, anche lui, un’atresia dell’esofago. La famiglia aveva fatto analisi simili a quelle della mamma di Tommaso, aveva saputo che non era possibile avere una sicurezza su questo tipo di patologia, aveva saputo che l’atresia dell’esofago colpisce un neonato su tremila, ma la coppia aveva comunque scelto: voleva quel bimbo. Il bimbo nasce al Careggi, ha un bronco collegato all’esofago, nell’esofago c’è ancora molta acqua, per quel motivo l’esofago nelle ecografie precedenti sembrava non stare perfettamente a posto. Il bimbo del Careggi, il secondo, aveva trentasette settimane. In un giorno il suo stomaco è tornato come nuovo.
Don Collini è uno dei due preti di Dicomano. Dalla collina – dalla quale ogni giorno scende e sale a piedi in diciotto minuti – fino ai portici, quella è zona sua. L’altro parroco abita a Londa, che non è Londra, ma che quando viene nominata a Dicomano fa comunque un po’ impressione anche a chi ci abita da tempo. “Abita a Londa”, ripete serio chi lo ricorda. Don Collini conosce bene le famiglie che si trovano al di qua e poco al di là di piazza della Repubblica, conosce chi abita prima della discesa che porta a Londa e sa che la madre di Tommaso è sotto choc, sa che il padre è inferocito con i giornalisti, sa che l’avvocato Guido Dieci – l’avvocato della famiglia – ha querelato l’Espresso che il quindici marzo aveva rubricato come pezzo “esclusivo” un lungo servizio intitolato: “Così ho perso mio figlio”, che secondo l’avvocato e secondo la madre non era altro che la trascrizione degli atti coperti da segreto d’ufficio dell’inchiesta portata avanti dalla magistratura di Firenze. Non esattamente un’intervista. Don Collini, sabato dieci marzo, era lì al cimitero di fronte alla bara, con la mamma in lacrime, qualche parente, il custode e poi Tommaso, nato a Firenze il due marzo, morto a Firenze l’otto marzo. Sul funerale, a Dicomano, sono in pochi a sapere qualcosa. C’è chi ha provato a cercare la tomba, chi ha cercato di trovare il nome, chi ha girato tra i cimiteri del paese, chi si è informato su tutte le cerimonie funebri, chi ha curiosato tra le lapidi, chi ha provato a contattare la famiglia. Ma a Dicomano il nome di Tommaso non è scritto da nessuna parte.
All’interno del cimitero, dove Daniele ha appena finito di scavare una fossa, la lastra di marmo della tomba di Tommaso è completamente vuota. Ma non sono i marmisti a essere in ritardo. La famiglia di Tommaso ha scelto così, almeno per il momento, nessun nome, nessuna lettera, nessuna data, nessun numero. In fondo che cosa avrebbero dovuto scrivere sulla lastra di marmo i genitori di Tommaso?
A Dicomano esiste solo un posto dove si trova scritto il nome di Tommaso e dove si trova scritto il suo cognome che comincia con la lettera V. A piazza della Repubblica numero tre il certificato di nascita e quello di morte sono conservati all’interno dell’ufficio dell’anagrafe, proprio accanto al medico di base della mamma di Tommaso.
La famiglia sotto choc abita poco al di là di piazza della Repubblica. Questa – come detto – è zona di don Collini. Tommaso – ricorda don Collini – dovrebbe essere stato battezzato in ospedale; ma in casi come questi, quando un bambino muore così all’improvviso poco dopo essere nato, per poter svolgere un funerale cristiano al sacerdote basta sapere se almeno uno dei due genitori sia stato battezzato oppure no. Anche con Tommaso è andata così.
Don Collini è stato uno dei primi a conoscere la storia della madre, la sua paura, il suo choc, l’aborto e il funerale del figlio. Dice che la storia ha cambiato il paese, dice che nel paese sono tutti convinti che siano stati i dottori ad aver sbagliato, dice che il vero problema è che ormai una donna incinta è considerata come una donna malata, dice che la storia di Tommaso, la storia della malformazione che c’era e che però poi non c’era è la dimostrazione che “ormai Hitler ha vinto davvero”. Don Collini parla di eugenetica, e fa su e giù con la testa.
Sono le sedici e cinquantacinque minuti, è il due marzo, il trasporto protetto neonatale si allontana dall’ospedale Careggi per andare al Meyer – qualche chilometro a sud-est di Firenze – dove Tommaso viene ricoverato “data l’indisponibilità di posti all’interno della terapia intensiva neonatale del Careggi”. Il padre è appena stato avvertito del feto che è stato chiamato Paolo e che sarebbe diventato Tommaso. La mamma dorme ancora. Tommaso ora sta meglio, la frequenza cardiaca è arrivata a centotrenta battiti al minuto e in casi come questi i suoi parametri vitali vengono considerati stabili. La mamma si sveglia e alle diciotto e trenta Tommaso arriva nel reparto di terapia intensiva neonatale del Meyer. I medici spiegano alla mamma che Tommaso avrà poche probabilità di sopravvivere e nella notte tra il due marzo e il tre marzo dopo che a Tommaso era stato diagnosticato prima un problema eco-cardiaco e poi un’emorragia intraventricolare di terzo grado, i genitori esprimono verbalmente al direttore della neonatologia del Meyer “il desiderio di un non accanimento terapeutico”. Tommaso ha ancora cinque giorni di vita, la mamma è sconvolta, il direttore generale del Meyer convoca una conferenza stampa, la mamma di Tommaso non gradisce gli articoli prima di Repubblica (il sette marzo) e poi via via di tutti gli altri giornali. Dall’ospedale Meyer, chi era lì dentro in quei giorni, ricorda che le ricostruzioni dei fatti erano potenzialmente “adite a interpretazioni fuorvianti”.
Al Careggi c’è poi chi parla di un piccolo giallo che andrebbe a inserirsi in una lunga lotta tra i due ospedali più importanti della città. In particolare tra i due reparti di neonatologia, del Meyer e del Careggi. Entro pochi mesi, dei due reparti ne resterà soltanto uno e attualmente quello che rischia di chiudere sembra essere proprio quello del Careggi. E gli articoli di Repubblica, le inchieste dell’Espresso e la morte di Tommaso – raccontano – non hanno aiutato il Careggi a recuperare terreno. Il giallo è questo. Avviene nella notte tra il due e il tre marzo. Dal Careggi sarebbe partita la telefonata di una donna che avrebbe comunicato all’esterno il nome e il cognome della mamma di Tommaso. Una donna che lavora al Careggi ma con molte conoscenze al Meyer. La cartella della mamma di Tommaso – ricorda un medico che chiede di non comparire – era stata conservata con una certa attenzione.
Tommaso muore la mattina dell’otto marzo, alle quattro in punto. I genitori di Tommaso arrivano quarantacinque minuti dopo l’arresto cardiaco. Il primo a essersi accorto delle condizioni di Tommaso era stato il medico di guardia che alle quattro e un minuto aveva contattato i genitori. I genitori arrivano all’ospedale, capiscono che i medici vogliono svolgere analisi più approfondite, capiscono che dire “analisi più approfondite” e dire “riscontri diagnostici” significa dire autopsia, portano quindi il corpo di Tommaso al Careggi e il giorno dopo – i medici del Careggi – spiegano che il cuore di Tommaso ha smesso di battere per emorragia cerebrale. I genitori tornano in paese, hanno con sé Tommaso (qualcuno dice che il bimbo fosse proprio in macchina con loro), l’anagrafe registrerà il certificato di morte, Tommaso arriva a Dicomano, il giorno dopo il custode Daniele (ma questo non è il suo vero nome) apre il cancello del retro del cimitero per il funerale. I genitori ancora oggi preferiscono non parlare, i medici ancora oggi preferiscono non raccontare, i parenti di lui e i parenti di lei preferiscono dimenticare quanto successo nei sei giorni in cui Tommaso ha avuto due nomi, ha cambiato due ospedali, è stato registrato all’anagrafe due volte in dieci giorni, è nato non vitale, è diventato Paolo – come racconta don Collini – è diventato definitivamente Tommaso, è esistito per centosei ore e diciotto minuti e – come dicono a Dicomano – semplicemente ha vissuto per sei giorni.
Domani Tommaso avrebbe compiuto trentuno giorni.
30/03/07
lunedì 2 aprile 2007
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