lunedì 23 aprile 2007

"Il Foglio". La borgata del tycoon

L’amicizia con Bono, le simpatie politiche, il garage di Grottaferrata, i servizi segreti,
i capelli non più a caschetto e ora di nuovo il carcere. I quarant’anni di Danilo Coppola

Via Bolognetta numero novantuno, raccordo anulare, uscita Grottaferrata, via Casilina, periferia nord-est di Roma, borgata Finocchio, cappuccino ottanta centesimi, negozio abbigliamento-calzature, scuola parrucchieri, coltelleria arrotineria, birre Peroni, palestra il Cigno, tavolini bianchi, sedie di plastica, tramezzino un euroeventi, Elisir allunga i tuoi capelli, mutui, prestiti, solarium e lavori in corso; di fronte al bar Billy una Volkswagen, un’Audi, una Peugeot, una Ford, un’altra Volkswagen, due Fiat Punto: con la cassiera che non vuole mettere nei guai Danilo, il meccanico che non ha nulla da dire su Danilo, la sorella Sandra che adora Danilo, la mamma Francesca che soffre molto per Danilo e il parrucchiere (Sandro) che risponde solo via fax alle domande su Danilo; a sinistra il barbiere di via Militello (Pino), a destra la cantina con le acciughe della mamma, al centro i tre piani del primo appartamento, l’assegno del primo stipendio, la copertina del primo disco (quello dei Dire Straits), il cartoncino del primo poster (quello dei Duran Duran) e il comodino della stanza dove è nato e dove è cresciuto l’immobiliarista, palazzinaro, imprenditore, newcomer, raider, tycoon ed editore Danilo Coppola; arrestato lo scorso primo marzo con l’accusa di bancarotta fraudolenta, associazione a delinquere, appropriazione indebita, riciclaggio e falso in atto pubblico e quando ormai – Coppola – era diventato il ventunesimo uomo più ricco d’Italia, quando ancora aveva i capelli lunghi dietro la nuca, con quel taglio un po’ alla carrè e un po’ alla Paperoga che da una settimana, però, Danilo Coppola non ha più.
Danilo Coppola, dopo un mese di ospedale, è tornato in carcere (la scarcerazione è stata negata anche per le “recenti acquisizioni ritenute di rilevante interesse investigativo”), è dimagrito di otto chili, è rimasto con i capelli a spazzola, i polsi fasciati e con un patrimonio da ottanta milioni di euro sotto sequestro. In carcere, Coppola, ha tentato il suicidio. Coppola (che il 25 maggio compirà quarant’anni) dice di essere stato fortunato, dice di essere diventato ricco in un momento in cui il mercato immobiliare era esploso (tra il millenovecentonovantadue e il millenovecentonovantacinque), quando comprava i palazzi a quindici e li rivendeva a cinquanta e quando prendeva un palazzo il lunedì e lo dava via il sabato, tre volte più caro. Ma oltre agli alberghi, oltre alla palestra, oltre alla Roma Calcio, oltre alla scalata Antonveneta, oltre al nove per cento in Bnl, oltre al cinque per cento in Mediobanca, oltre al guardi, mi sono fatto tutto da solo, oltre al guardi, vado per cantieri da quando avevo diciassette anni, oltre ad aver conosciuto un cantante che martedì prossimo sarà ricevuto dal cancelliere tedesco Angela Merkel, oltre a tutto questo dietro al mondo di un palazzinaro che arriva da Finocchio fino a Mediobanca e che in vent’anni è diventato uno degli uomini più ricchi d’Italia, dietro a un uomo a cui sono bastati pochissimi anni di successo per meritarsi una memorabile colazione (compresa di intervista) insieme con Gad Lerner, c’è un dietro le quinte poco conosciuto.
L’ufficio di Danilo Coppola, a pochi passi da piazza di Spagna, è una palazzina di tre piani, con le pareti bianche, una pericolosissima scala di cristallo, tre segretarie, molti collaboratori (in tutto ne aveva settecentoundici), una sala d’aspetto, divani di pelle nera, niente libri, niente parquet, niente giornali, molte rassegne stampa con articolo sottolineato a pagina dodici, molti marmi e molte colonne bianche. Danilo Coppola, che ama molto Gucci e i negozi Beauty Farm, in ufficio era sempre vestito con un completo nero di Armani, con le scarpe Hogan e con le cinte Hermes. Il giorno in cui è stato arrestato, il primo marzo, Coppola chiese di attendere un attimo, prese il vestito Armani da dentro l’armadio (nelle sue case non devono mancare mai due cose: il colore rosa e tanti, tantissimi armadi), prese una busta con le forbici per tagliarsi da solo i capelli, fece aspettare la guardia di finanza sotto il portone di casa e poi, dopo trentadue minuti, scese giù nel cortile, pettinato, elegante, spaventato e con una cinta e una cravatta che, prima di salire sulla volante, la finanza gli consigliò di lasciare sulla cassapanca di casa. La cinta e la cravatta in carcere è meglio di no. Nel suo ufficio, Coppola, quel cazzo di Samsung nero, come lo chiamava lui, lo teneva appoggiato sul tavolino, a destra rispetto alla poltrona di pelle nera. Coppola non voleva cambiare quel telefono, perché si era sempre trovato bene e perché diceva ai suoi collaboratori di sentirsi sicuro. Ma negli ultimi sei anni qualcosa era cambiato, e non solo per quel cazzo di telefonino. Coppola diceva a tutti di essere spiato.
Di fronte all’ingresso principale dell’ufficio, Danilo Coppola non aveva mai voluto le guardie del corpo. Preferiva persone sempre diverse, perché lui non si fidava davvero di nessuno. Non si fidava neppure della polizia, della Digos o delle guardie del corpo. Proprio per questo, Coppola, scelse per il suo ufficio le guardie giurate della Mondialpol (che da qualche mese ha richiesto anche per una delle sue case, poco fuori Roma). Ma con la Mondialpol c’era un problema. Nel suo ufficio – raccontano – poteva arrivare davvero chiunque; poteva arrivare chiunque, ma tutti sarebbero sempre stati bloccati, spogliati e perquisiti. E questo rischiava di essere, spesso, un po’ imbarazzante.
Danilo Coppola non aveva mai avuto problemi con le banche (e una di quelle che più hanno prestato denaro a Coppola è stata la Unicredit, come si legge dagli atti dell’indagine), ma negli ultimi sette mesi aveva iniziato ad avere difficoltà anche per avere un fido per una nuova macchina (Coppola ne ha davvero molte, le più belle sono le Ferrari e la Aston Martin, anche se lui, naturalmente, preferiva il jet grigio metallizzato, di cui però non ama il colore). Coppola mangiava quasi sempre in bianco, quando lavorava era sempre sotto tensione, diceva di essere ipocondriaco, temeva spesso di sentirsi male, credeva di avere problemi al cuore e temeva di avere problemi al fegato (Coppola è rimasto diverse settimane in osservazione all’ospedale Sandro Pertini a Roma, ma secondo i dottori non “ha mai avuto alcun infarto”); un giorno a Torino – dove Coppola andava spesso (era socio della Bim, la banca interimmobiliare di cui faceva parte – tra i tanti – anche la Cofide di Carlo De Benedetti e la Premafin di Salvatore Ligresti e il cui amministratore delegato, Pietro D’Agui, è stato testimone del battesimo della figlia di Coppola, come si legge dagli atti dell’indagine), si fece accompagnare in ospedale per un elettrocardiogramma. Coppola aveva molta paura del suo cuore e per lui gli elettrocardiogrammi non erano certo una novità. Ma così all’improvviso non gli era mai successo. Coppola non aveva nulla, ma lui diceva di non sentirsi bene lo stesso. Un po’ di ansia, un po’ di battiti accelerati, un po’ di tachicardia, ma tutto qui. Negli ultimi anni, Coppola era diventato effettivamente piuttosto ansioso. Ma il lavoro non c’entrava nulla. Semmai era tutta colpa di quel tir. L’anno era il duemila o forse il duemilauno, Danilo Coppola viaggiava su una macchina nera, quel giorno non aveva voluto guidare lui, la macchina andava verso il centro, strada a doppio senso, da una parte lui, a destra il guard rail a sinistra l’altra corsia, di fronte il tir. Fu un attimo, la macchina si accartocciò di un botto. Coppola perse molto sangue, il mento finì dentro il parabrezza, il vetro era dappertutto. Coppola si operò una, due, tre, quattro, cinque volte. Da allora iniziò ad avere molti attacchi di panico. E la cicatrice sotto il labbro inferiore è un ricordo di quell’incidente.
Il primo terreno acquistato da Danilo Coppola si trova tra via Castellana Sicula e via Bonpietro (siamo sempre a borgata Finocchio), a sette metri dalla casa della vivacissima sorella di Danilo – Sandra – dove Coppola aveva detto di voler costruire ancora, dove voleva rimettere a posto le strade del quartiere, e dove aveva detto di voler costruire una ludoteca per bambini. Tre piani, quattrocento metri quadrati, tre balconi, tre terrazze color giallo ocra e non rosa come tutte le palazzine che da via Palmiro Togliatti fino a via Militello appartengono all’impero del romano di via Bolognetta. Danilo Coppola comprò questo terreno prima dell’ictus del padre Paolo, quando ancora si sentiva dire “Danilo, finisci Giurisprudenza”, “Danilo per favore lascia stare il mattone”. Coppola aveva ventuno anni, viveva da sempre a Finocchio (“quel nome vegetale passato poco gentilmente in proverbio nel gergo romanesco”, secondo un’indimenticabile definizione della scrittrice Melania Mazzucco), il padre aveva appena iniziato a costruire le prime case nella zona sud-est della Tuscolana, Coppola si era appena diplomato al liceo scientifico Pio XII (dove il suo insegnante, un prete, ogni mattina gli faceva leggere tre quotidiani), aveva deciso di voler fare Giurisprudenza, aveva deciso di voler a tutti i costi frequentare la Luiss (anche se poi non ci riuscì mai), aveva deciso che avrebbe voluto fare l’imprenditore, l’immobiliarista, magari anche lo scrittore (anche se ci fu chi ironizzò non poco quando sui giornali economici Coppola pubblicò un’inserzione a pagamento dove furono contati quattordici errori di italiano). Ma il sogno di Danilo Coppola, in realtà, era un altro. Coppola voleva entrare nei Nocs, il gruppo speciale della polizia di stato. Non ci provò mai, Coppola, ma negli ultimi anni riuscì ugualmente a organizzare una sua personale rete di controllo. Un piccolo servizio segreto. Coppola aveva fatto installare su tre Nokia 6600, un Nokia N 70, un Samsung SGH (poi distribuiti, secondo gli inquirenti, a terzi ignari) un software speciale con una scheda in grado di intercettare le comunicazioni che partivano e arrivavano su quei telefoni. Non solo. Grazie a una microspia inserita all’interno dei microfoni dei cellulari, Coppola era in grado di registrare tutte le conversazioni che avvenivano a sei metri di distanza dagli stessi telefonini. Coppola era davvero terrorizzato, credeva che qualcuno lo volesse incastrare, non si fidava di chi gli ricordava che la sua casa si trovava di fronte a quella del cassiere della banda della Magliana, Enrico Nicoletti, non si fidava di chi gli diceva che i suoi soldi chissà da dove erano arrivati, non si fidava di quelli che gli ricordavano del suo famoso furto di energia a una centralina dell’Enel (furto famoso, ma l’Enel non ha mai denunciato Coppola); non si fidava, Coppola, neppure di quelli che gli dicevano, attento Danilo, sei diventato un personaggio troppo scomodo. Non si fidava di nessuno e per questo, Coppola, iniziò a intercettare. (Anche se poi, l’unico vero risultato ottenuto grazie a quelle intercettazioni personali era stato un po’ imbarazzante, dato che, grazie alle chiamate registrate, una delle sue collaboratrici scoprì che il suo fidanzato aveva un’amante).
Quindici anni dopo quel terreno dietro via Castellana Sicula, Danilo Coppola inizia a mettersi nei guai. E non per colpa di una scalata, non per colpa di un finanziamento, non per colpa di un giornale, non per colpa di una banca, non per colpa di una squadra di calcio (Coppola pare che sia stato buon amico della famiglia Sensi, comprò da Rosella, figlia di Franco e attuale numero uno dei giallorossi, cinquecentocinquantamila azioni della Roma in un momento di difficoltà della famiglia, ma pur stravedendo per il bomber Roberto Pruzzo, Coppola non è mai stato un gran romanista, della Roma non gliene importava quasi nulla ed è per questo che allo stadio non andava così spesso e quando ci andava, racconta un suo amico, in molti lo prendevano in giro perché la Roma perdeva quasi sempre). Danilo Coppola si mise nei guai per colpa di una palestra a pochi chilometri da Grottaferrata, una palestra acquistata per un milione e duecentomila euro e venduta per sette milioni di euro, pochissimi giorni dopo. Il contratto di liquidazione, secondo l’accusa, sarebbe stato firmato da Trifan Doru, marito della domestica della mamma di Coppola e ufficialmente portiere, facchino e cameriere del Daniel’s Hotel, di proprietà di Danilo Coppola.
Dal millenovecentonovantuno al duemilauno, Danilo Coppola aveva iniziato ad accumulare molti soldi, ma non avrebbe mai immaginato di finire dietro le sbarre, esattamente come chi lo ha visto in questi giorni “non avrebbe mai immaginato che un tipo così gracile, timido, insicuro e silenzioso possa essere a capo di un impero del genere”. L’impero però c’è ed è anche piuttosto grande, tanto che la rivista Forbes, qualche anno fa, per la prima volta chiamò Coppola così: tycoon.
Danilo Coppola è proprio lo stesso Coppola che quando incontrò Diego Della Valle – a Roma, sul terrazzo dell’hotel Eden, in via Ludovisi – diceva che lui però non era così sicuro “che quel signore sia davvero più ricco di me”; lo stesso Coppola che ispirò un indimenticabile articolo di Gad Lerner (su Vanity Fair) che cominciava con un “l’economia italiana affetta da gracilità congenita, si fa largo uso di fisiognomica lombrosiana”. La fisiognomica lombrosiana di cui parlava Lerner – secondo la quale Coppola sarebbe discriminato per il suo aspetto estetico – si riferiva principalmente al curioso taglio di capelli di Danilo Coppola, taglio che ha scatenato una serie di leggende metropolitane pari soltanto all’appassionante lettura su che cosa ha davvero detto Marco Materazzi a Zinedine Zidane. Coppola ha un taglio a caschetto, capelli lunghi dietro, un po’ meno lunghi davanti, look definito carré francese dal suo barbiere Pino di via Militello, mento alla Robert De Niro, volto scavato, capelli brizzolati, taglio rapido, dodici euro, molto silenzioso, molte allergie, da vent’anni barbiere di riferimento della zona, molto riservato, molto simpatico anche se poi, a fine taglio, senza scherzare, ti chiede scusa, dietro come li facciamo? Un po’ più lunghi?
Prima ancora delle scalate e prima ancora delle banche e prima ancora di un curioso ma significativo acquisto fatto a Roma (quattro anni fa il costruttore romano acquistò una delle strutture più note nel panorama trash della capitale, ovvero i magazzini Mas, famosi soprattutto per gli spot televisivi con Alvaro Vitali, ora degnamente sostituito da un tonico Antonio Zequila, conosciuto anche come er Mutanda), prima ancora di tutto questo, Coppola era diventato celebre per aver comprato il Grand Hotel Rimini, lo stesso hotel dove Federico Fellini aveva girato Amarcord e lo stesso hotel che Danilo Coppola acquistò sei ore dopo la sua messa in vendita. Soltanto sei ore dopo. E a New York le cose rischiarono di andare più o meno allo stesso modo.
Sono le nove e trenta, è il dieci maggio del duemilasei. L’avvocato di Coppola si era svegliato da poco. Coppola aveva già sfogliato una rivista. Lui era a Torino, il suo avvocato a Roma, l’albergo era a New York. Quell’albergo sulla rivista era “mattone vero”, come dice lui; e poi costava settanta milioni di euro. E per lui, quella cifra, non era quasi nulla. Coppola voleva subito quell’albergo, voleva almeno un piano, si accontentava pure dell’attico. L’avvocato non capiva, anche perché era ancora molto presto. Coppola si fermò un attimo, ci pensò su e prima di riattaccare disse al telefono di avere un amico che, anche se era nato a Dublino, in quei giorni si trovava a New York. Non era un tycoon, non era un banchiere, ma era un cantante e si chiamava Bono. (Il cantante degli U2 ha ottime conoscenze tra i palazzinari e i costruttori del Nord America).
Fu proprio in quei giorni che Danilo Coppola aveva capito che così, al telefono, non poteva più parlare. Aveva capito che il suo Samsung (l’aggettivo che accompagnava la marca del suo telefono era oltre che “cazzo” anche “cesso”) aveva qualcosa che non andava. Ma il telefono non c’entrava nulla, quello era sempre una bomba. Coppola, però, sapeva che qualcuno lo stava intercettando.
Sono le sette e trenta, siamo ancora a maggio, Coppola è già sveglio (più di quattro o cinque ore a notte Coppola non dorme mai) e si trova nella sua casa di Grottaferrata. Nella zona di Finocchio, Coppola aveva un amico che lavorava alla Telecom. All’amico aveva chiesto un favore: se sai qualcosa su di me fammi sapere. Quel giorno la finanza, alle sette di mattina, inizia a tenere sotto controllo il suo telefono. La richiesta parte ufficialmente. Mezz’ora dopo, alle sette e trenta, Coppola riceve da un impiegato Telecom quattro squilli sul cellulare. Quello era il segnale per Danilo. Nelle settimane successive, Coppola, chiama chiunque; chiama gli amici, chiama gli avvocati, chiama i collaboratori, chiama i suoi soci, scrive alle agenzie, chiama anche Marco Tronchetti Provera, ma poi, dopo i quattro squilli, Coppola impugna il telefono, tasto verde e poi tre numeri: uno poi uno e poi nove. Danilo Coppola era furioso, doveva parlare con qualcuno, così non andava, così non poteva neppure lavorare, doveva risolvere la situazione e andava bene tutto per farlo. Andava bene pure il 119, il servizio clienti di Telecom Italia: buongiorno, come posso aiutarla?
Ma tra l’amicizia con Bono, la simpatia (non ricambiata) per Massimo D’Alema (Coppola, però, vota a destra), tra i memorabili pranzi lombrosiani con Lerner e tra la Roma, Mas, i telefonini e il 119, Danilo Coppola diceva sempre che un borgataro di Finocchio non poteva che essere guardato male, credeva che Luca Cordero di Montezemolo ce l’avesse con lui e che tutti i giornali lo avessero preso di mira. E questo lo fece capire, con una certa insistenza, in una storica telefonata a Claudio Gatti, giornalista del Sole 24 Ore, autore di un’inchiesta su Danilo Coppola (in un’intervista a Prima Comunicazione, Coppola ricorda che il pezzo di Gatti, annunciato come primo di una serie di articoli, in realtà si fermò lì, anche perché, dice Coppola “dopo aver parlato con De Bortoli lui stesso mi aveva detto che si era sbagliato sul mio conto”). Coppola era davvero convinto che i giornali lo volessero far fuori da tutti i giochi, pensava di essere scomodo dalle parti di Mediobanca e sapeva che quello che serviva, a lui, era un giornale tutto suo. Il suo compagno di scalate, Stefano Ricucci ci provò con Rcs (il cognato di Ricucci era un collaboratore di Coppola e Coppola in quei giorni fu sospettato di essere dietro alla scalata al Corriere), ma il piccolo colpo di Coppola fu l’ingresso con il diciotto per cento nel capitale di Editori per la Finanza, il gruppo a cui fa capo Finanza e Mercati (anche se, nello stesso giornale, nessuno ha mai capito davvero che cosa c’entrasse Coppola con l’editoria).
Una delle case più belle di Coppola è certamente quella di Grottaferrata. Coppola aveva da poco comprato anche una chiesa sconsacrata a Frascati, ma la casa che preferiva era però quella più a sud, quella costruita sui resti di un’antica villa del Console Lucullo, la stessa villa descritta nel volume “Il libro nero di Roma antica” come “una villa di Tuscolo, sita nel mezzo di una tenuta tipo latifondo e da dove sgorgano le acque Appia, Tepula e Virgo le quali, a mezzo di acquedotti, sono diventate pellegrine molto gradite dai Romani”. Ecco, lì sotto Danilo Coppola ha costruito un bellissimo garage.
Claudio Cerasa
21/04/07

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