Zhu aveva comprato un passaporto
falso, aveva passato otto settimane
in Ucraina, aveva dormito sulle mattonelle
della Slovenia, era stato sequestrato,
venduto, bendato e poi trascinato
su un pulmino al confine con l’Italia,
a pochi chilometri da Trieste. Tredici
dei suoi compagni, a quel punto del
viaggio, erano già morti. Zhu aveva
aspettato due anni prima di arrivare a
Milano. Aveva pagato venticinquemila
euro e aveva dormito in una casa senza
acqua, senza elettricità e senza finestre.
Passa una settimana, ne passa un’altra
e un’altra ancora. Alla quarta, Zhu viene
preso e portato via. Altra casa, altro
sequestro. Zhu, però, sapeva che funzionava
così. Sapeva che per arrivare in
Italia ci volevano due anni e sapeva che
per arrivare in Italia ci volevano i sequestri.
Tu paghi, poi un modo per arrivare
in Italia lo si trova. O almeno, così
gli avevano detto. In pochi mesi, Zhu,
aveva attraversato mezza Europa, aveva
visto le strade dell’Ungheria, della Romania,
della Slovenia, dell’Ucraina.
Zhu, come tutti i cinesi che arrivano da
clandestini nelle Chinatown di Roma,
di Prato, di Firenze e di Milano, sapeva
perfettamente che i quattro signori a
cui aveva consegnato i suoi soldi erano
quattro criminali. Sapeva che per partire
da Qin Tien, per scappare dalla regione
dello Zhejiang, funzionava sempre
allo stesso modo: cinquemila euro
per partire, quindicimila per arrivare.
Sapeva tutto. Ma sapeva soprattutto che
la regola, quando si arriva in Italia, è
sempre la stessa: silenzio. Non si parla,
non si protesta, non si litiga, si lavora e
basta. Niente scazzottate, niente risse,
niente pugni, niente disordini. La polizia
deve sapere il meno possibile, gli
avevano detto. Fino a due giorni fa, prima
del corteo, prima della rissa, prima
delle bandiere rosse, prima dei feriti e
prima dei disordini di via Sarpi (a Milano),
dei cinesi in Italia non si era mai
parlato per scontri con la polizia. Al
massimo, sui giornali, erano finiti i soliti
aborti clandestini, i soliti cinesi che
non muoiono mai, i soliti laboratori che
non sono mai in regola. Da giovedì,
però, qualcosa rischia di cambiare davvero.
Perché i cinesi scesi in strada erano
per lo più commercianti, non certo
criminali nè trafficanti, nè spacciatori.
Ma se i cinesi di Milano hanno scelto di
esporsi è anche perché l’equilibrio delle
comunità straniere italiane non è
più quello di prima. Ora c’è più sicurezza
di sè. E questo vale, naturalmente,
anche per quella criminalità organizzata
che negli ultimi sette anni non ha
mai smesso di crescere. Soprattutto a
Milano. E soprattutto grazie al traffico
dei clandestini come Zhu.
Per arrivare in Italia, tra i clandestini,
c’è chi è costretto a passare dalla Slovenia,
chi dall’Adriatico, chi dai Balcani e
chi dalla Puglia. Il 95 per cento dei cinesi
arriva da una zona a sud di Shangai
che si chiama Zhejiang. Un’area che, da
sola, conta poco più di quarantacinque
milioni di abitanti. Le città principali sono
When Zhou e Qin Tien, la città di Zhu.
Quando Zhu era partito da Qin Tien e
quando Xiao gli aveva detto: “tu in Italia
sarai uno schiavo”, Zhu sapeva che Xiao
non scherzava affatto. Zhu aveva attraversato
tutta l’Europa orientale ed era
arrivato al confine con l’Italia. Fino a
Trieste. Ma a Trieste non c’era nessuno
che potesse pagare il suo riscatto. Ogni
anno, anche grazie a quei quindicimila
euro pagati alla fine del viaggio e grazie
ai diecimila euro di pedaggio alla partenza,
la criminalità cinese incassa fino
a sessanta milioni di euro tra traffico
d’armi, droga, laboratori abusivi, sfruttamento
sessuale e trasporto di clandestini.
In tutto fanno quasi cinque milioni di
euro al mese. E un modo per far arrivare
quei soldi in Cina lo si trova sempre.
Dal duemilauno al duemilacinque, la
comunità cinese in Italia è passata da 46
mila persone a 111.712. Questo significa
che – in quattro anni – il numero dei cinesi
è aumentato quasi del centoquaranta
per cento. Lo scorso anno i cinesi
sono aumentati ancora (ora sono circa
120 mila) e sono diventati – dopo albanesi,
marocchini e rumeni – la comunità
straniera più forte d’Italia e una delle
più pericolose (e più invisibili) anche
per quanto riguarda la criminalità organizzata;
e non è certo un caso che – pur
crescendo sempre a ritmi impressionanti
– la criminalità organizzata ha sempre
rispettato la regola del silenzio; ed è
proprio per questo che prima dei disordini
di Milano, una delle pochissime risse
registrate tra cinesi era stata quella
scoppiata a Milano, in via Morazzone, a
quattro chilometri da Piazza del Duomo.
Ci furono dieci arrestati e tre minorenni
denunciati. Era il quattro gennaio. Da
quel giorno, tra morti sospette, idiomi
complessi e una serie di storie umane il
più delle volte inafferrabili, per l’antimafia
italiana il quadro della criminalità
cinese ha iniziato a essere sempre
più chiaro, soprattuto a Milano e a Roma.
E questa è la situazione descritta
anche dalle forze dell’ordine.
La nuova criminalità.“La criminalità
cinese si nasconde. Non si mostra, è attenta,
calibra tutte le sue mosse. Sembra
non esistere, o almeno fa di tutto per
non apparire. Per tessere le sue trame
malavitose, all’interno della sua comunità,
cerca di non entrare eccessivamente
nelle aree di influenza delle altre
bande organizzate”, racconta al Foglio
Alberto Intini, capo del personale della
squadra mobile di Roma.
Secondo l’ultimo rapporto nazionale
sulla criminalità cinese sul territorio italiano,
nei processi di immigrazione dei
cinesi verso l’Italia “gli intrecci con i
flussi finanziari sono maggiori rispetto a
qualsiasi altra forma di immigrazione
clandestina esistente”. Significa che non
esiste nessuno straniero, in Italia, capace
di spostare così tanto denaro come i
cinesi. Un viaggio clandestino, di media,
costa dagli ottomila ai ventimila euro.
Un viaggio che è clandestino nella sostanza
ma che – molto spesso – è legale
nella forma, dato che l’ingresso in Italia
(o nei paesi confinanti) viene favorito
dalle richieste di manodopera di quelle
ditte cinesi che in Italia già esistono da
un po’. Il permesso di soggiorno arriva
proprio grazie alle continue assunzioni
e al continuo ricambio di personale. Nove
assunzioni su dieci non superano mai
i trenta giorni. E trenta giorni sono più
che sufficienti per far sì che i clandestini
non siano più tali. Con Zhu è andata
più o meno così; era arrivato in Italia
con un passaporto vero, l’organizzazione
criminale lo aveva sequestrato e lo aveva
venduto per cinquemila euro a un’altra
organizzazione, e aveva usato sempre
lo stesso trucco. I passaporti per i clandestini
sono sempre gli stessi, per tutti i
viaggi. Si arriva al confine con l’Italia, si
restituisce il passaporto ed è in quel momento
si diventa davvero clandestini,
non prima. Sul passaporto, le foto sono
sempre le stesse e alla frontiera non se
ne accorge quasi nessuno. E non è uno
scherzo. A volte capita però che chi parte
dalla Cina abbia qualche soldo in più,
e in quel caso l’organizzazione criminale
dà la possibilità di scegliere tra un’identità
coreana, una giapponese e una
malese. Sono questi i passaporti più sicuri
ed è con questi passaporti che è
possibile transitare senza troppi problemi
e senza aver la necessità di avere un
visto nell’area Schengen. Una volta arrivati
al confine con l’Italia, i passaporti
vengono fatti rientrare in Cina. Dal duemilaquattro,
dopo l’accordo turistico tra
Unione europea e Cina, sui passaporti
che tornano in Cina i visti di reingresso
sono diventati obbligatori. Ma questo
non vale, ovviamente, se i passaporti tornano
in Cina chiusi dentro una valigia,
senza i proprietari di quei passaporti.
Il rapimento. La prima parte del viaggio
di Zhu si ferma a Kiev. E’ a Kiev che
si formano i gruppi che verranno affidati
alle nuove organizzazioni. Una per l’Italia,
una per la Slovenia, una per l’Ungheria,
una per la Serbia, una per la
Croazia, e una per la Romania. Chiunque
arrivi via terra dalla Cina si ferma
qui. Si aspetta qualche settimana poi
per qualcuno arriva il trasferimento.
Per qualcuno altro, invece, arriva il rapimento.
Uno degli incubi di Kiev e uno
degli incubi dei clandestini dell’Europa
centrale si chiamava Loncaric Josip. Josip
era a capo di un’organizzazione composta
da circa duecento persone e proprio
grazie ai sequestri era riuscito ad
acquistare una compagnia aerea a Tirana.
Loncaric Josip è stato arrestato a
Trieste sei anni fa. Il secondo arriva in
Italia; quando i clandestini devono affrancarsi
e pagare un riscatto che gli
permetta di entrare nel paese. Il costo
del riscatto è tra i dodicimila e i quindicimila
euro. A Milano, da una dozzina di
anni, la direzione investigativa antimafia
ha registrato un forte aumento dei
sequestri all’interno della comunità cinese.
I sequestri hanno quasi tutti la
stessa funzione. Chi non paga la quota
di ingresso non è libero di vivere in Italia
ed è costretto a lavorare – anche per
anni – per i propri sequestratori. Chi ha
i soldi è libero, ma solo a una condizione:
si paga in contanti, le transazioni sono
troppo pericolose.
La valigia e la transazione. Da un’indagine
svolta nel duemiladue all’interno
dell’aeroporto romano di Fiumicino, è
stato scoperto che nella quota complessiva
di trasporto di denaro illecito dall’Italia
all’estero, in trentaquattro casi su
cento a commettere il reato è stato un cinese.
La scena è la stessa dei film: valigetta
nera e banconote. Le transazioni
bancarie, come detto, sono piuttosto rare
e le si ritrovano soltanto quando si effettuano
“importazioni di merce”. L’ufficio
che si occupa della ricezione e dell’approfondimento
sul piano finanziario
delle segnalazioni delle operazioni sospette
(come previsto dalla legge antiriciclaggio
del 1991) è – da dieci anni –
l’Uic, l’ufficio italiano cambi. Dal giugno
del millenovecentonovantasette, il decreto
legislativo numero centoventicinque
prevede che i trasferimenti di denaro,
di titoli e di valori mobiliari di importo
superiore ai 12.500 euro devono essere
sempre dichiarati. Nei suoi primi
cinque anni di attività, su 23.500 segnalazioni
di operazioni sospette, l’Uic ne ha
riscontrate circa trecentosessanta riguardanti
la Cina. Il Marocco, che dal
1997 al 2001 era la comunità straniera
più presente in Italia, aveva appena
quindici segnalazioni in più. In quegli
anni la comunità cinese era ancora la
quinta comunità più grande d’Italia.
I rapporti bancari analizzati dai rapporti
dell’ufficio cambi risultano alimentati
– per quanto riguarda la Cina –
da continui versamenti in contanti. Gli
importi prelevati (o depositati) hanno
per lo più un valore unitario: cento milioni
di lire prima, centomila euro ora.
Sono queste cifre, sempre precise e
sempre uguali che hanno fatto scattare
i primi campanelli d’allarme all’ufficio
cambi. Il denaro cinese dall’Italia arriva
soprattutto nella provincia dello
Zhejiang e nelle filiali delle banche cinesi
di Wenzhou. Da questa zona provengono
quasi tutti i cinesi residenti in
Italia; e, quindi, proprio in questa zona
l’ufficio cambi si aspetterebbe di riscontrare
un rilevante flusso di contanti,
indirizzato verso le famiglie d’origine.
Ci si aspetterebbe una grande attività
di ricezione da parte della banche
o da parte dei money transfer. Questo
flusso è però assolutamente irrilevante.
E c’è di più: le dichiarazioni dei movimenti
in entrata e quelli in uscita non
sono affatto equilibrate, dato che i movimenti
in entrata (in Italia) superano
di gran lunga quelli in uscita. Semmai
dovrebbe essere il contrario. Il dato ha
poi un rilievo considerevole dato che
sul totale delle rimesse cinesi da e verso
la Cina lo scarto presente nel 2005 –
in Italia – tra debiti ed entrate è quello
più sproporzionato tra tutti i paesi del
mondo. Per capire: ogni diciannove milioni
di euro arrivati in Italia, ne torna
indietro solo uno.
Ma il modello della criminalità cinese
in Italia è molto diverso da quello cinese
in Cina. In Cina e a Hong Kong, le triadi
sono ormai state affiancate da gruppi criminali
più snelli, più moderni e più nascosti.
In Italia invece non è affatto così.
La triade cinese è una realtà completamente
autonoma da quella locale.
I veri rapporti con la triade. Nell’operazione
E-Meng portata avanti non molti
mesi fa dai Ros di Milano, è stato riscontrato
l’unico caso accertato di collegamento
tra la criminalità cinese italiana
e la triade cinese. I contatti con l’Italia
e con il nucleo criminale cinese lombardo
avvenivano attraverso una consorteria
chiamata “Società del Sole”. Ed è
proprio a Milano che la criminalità cinese
ha costruito una delle sue strutture
più forti. Sul territorio sono tre i gruppi
di riferimento: i Daxue, i Yu Hu e i Donpei.
Si tratta di piccole bande giovanili
che gravitano tra alcuni centri massaggi
dove, il più delle volte, sono ospitati in
maniera piuttosto informale le prostitute
e i loro clienti. Nell’operazione milanese
“Oro del Dragone” sono stati scoperti
alcuni sistemi parabancari per la
raccolta e lo smistamento del denaro
verso la Cina. In tre anni, solo da Milano,
le operazioni di trasferimento (abusivo)
di denaro hanno portato in Cina qualcosa
come trentuno milioni di euro.
Se Milano rimane l’area più attiva
dal punto di vista della criminalità organizzata
cinese, il distretto che va da
Firenze a Prato è senz’altro il primo polo
cinese dove è stato possibile riconoscere
una delle più importanti triadi
della criminalità cinese. Quella che,
volgarmente, viene chiamata mafia cinese.
In questa zona, l’organizzazione
criminale si è fatta notare dal momento
in cui è riuscita a inserirsi nella microcriminalità
fiorentinta riuscendo a
non pestare i piedi a quella locale. La
più solida realtà criminale della zona è
stata scoperta grazie all’operazione
“Loto Bianco”, una delle più importanti
svolte contro la criminalità cinese
nella provincia di Prato. La strategia
della zona si spiega facilmente, dato
che le armi e i clandestini – prima di
essere smistate nel resto d’Italia – passavano,
fino a qualche anno fa, quasi
sempre da qui. E’ proprio la zona di
Prato, al pari di quella milanese, l’area
criminale cinese più influente nel panorama
europeo. I collegamenti con le
nazioni straniere sono tra i collegamenti
a cui presta più attenzione la polizia
italiana. Soprattutto per il traffico dei
clandestini che viaggiano tra l’Italia e
Parigi. Il nome più conosciuto dalla polizia
locale è quello di Chen Chi Hwu.
Il caso di Roma. Il primo procedimento
contro la criminalità cinese romana è
arrivato nel corso degli anni Novanta
contro l’associazione “Testa di Tigre”,
un’associazione specializzata nel controllo
delle attività commerciali cinesi
attraverso estorsioni, sequestri e controllo
di immigrazione clandestina. Il
principale imputato, allora, era il rappresentante
cinese della comunità,
Zhou Yi Ping. Nel corso della campagna
elettorale della comunità cinese romana
contro Liao Zhou Lin, Ping si servì anche
del gruppo armato che faceva capo
a Zhang Zhi. Ping operava all’interno
della storica Chinatown romana: zona
Esquilino, Piazza Vittorio, dove oltre ai
negozi, ai ristoranti, alle botteghe, i cinesi
hanno da pochi mesi avuto la possibilità
di usufruire di un tempio buddista,
a pochi passi dall stazione Termini.
I residenti cinesi ufficiali presenti a
Roma sono poco più di ottomila e quasi
quarantamila si trovano nell’area della
provincia.
Antonio Dong, presidente dell’associazione
dei commercianti cinesi di Roma
e per anni punto di riferimento dei
cinesi nella capitale, da diversi mesi
porta avanti un progetto nella zona di
Tor Cervara che dovrebbe far da tramite
tra gli imprenditori italiani e quelli
cinesi. Proprio nella zona di Tor Cervara,
periferia romana, dodici chilometri a
sud della Stazione Termini, i cinesi stanno
comprando nuove strutture. A dicembre
duemilacinque, sempre in questa
zona, la squadra mobile di Roma ha portato
a termine importanti blitz in laboratori
clandestini di tessuti – soprattutto
nella zona di via dell’Omo – dove gli operai
cinesi venivano sottoposti a durissime
condizioni di sfruttamento. Ma tra gli
arrestati per favoreggiamento si trovano
anche i nomi di molti italiani.
Al contrario di quanto si possa pensare,
Roma pesa meno di Milano all’interno
della realtà criminale cinese in
Italia. Roma, negli ultimi anni, è diventata
più che altro un importante centro
di passaggio. Sia per i clandestini diretti
verso gli Stati Uniti, sia per il denaro
da mandare in Cina. Oltre agli intermediari
con la valigetta nera, lo scorso anno
la direzione distrettuale antimafia
all’interno dell’“Operazione Ultimo Imperatore”
ha scoperto che la società
“Centrale Fiduciaria” gestita da Marco
Quadri e Giuseppe Scognamiglio era il
più importante centro di smistamento
di denaro verso la Cina. I soldi che venivano
spediti, illegalmente, in Cina arrivavano
direttamente da evasione fiscale,
violazioni doganali, contrabbando e
contraffazione. Quadri e Scognamiglio
sono stati poi arrestati.
A Roma, proprio nella zona di Tor
Cervara – la zona in cui il famoso imprenditore
Dong (che a Roma ha una
nota farmacia a pochi metri da via Marmorata)
– sembra si stia sviluppando
una forte struttura di smistamento di
merce contraffatta. Per i cinquecento
mila container provenienti ogni anno
dalla Cina in Italia, Roma è uno snodo
fondamentale dato che il nostro paese,
da solo, ha in pancia quasi il nove per
cento dell’intero mercato del contrabbando
mondiale. E la squadra mobile di
Roma, da moltissimi mesi, tiene ormai
sotto stretta osservazione alcuni capannoni
sospetti, dove ogni mattina si assiste
alla stessa scena: alle sei e trenta arrivano
i tir, i tir si fermano di fronte a un
capannone e dal capannone escono
moltissimi cinesi che in pochi minuti
svuotano una quantità tale di merce difficilmente
giustificabile con le dimensioni
del capannone. Troppo piccolo il
capannone, troppo grandi e troppo carichi
i tir. E proprio tra quei capannoni
potrebbero trovarsi le più importanti
strutture di smistamento della merce di
contrabbando (cinese) in Italia. Il contrabbando
– va ricordato – non è nulla
se confrontato con le cifre che girano attorno
al traffico di immigrati. Tremilacinquecento
euro per un permesso di
soggiorno falso, duecentocinquantamila
euro per ogni gruppo di clandestini e
sessanta milioni di euro all’anno raccolti,
nascosti e spediti illegalmente in Cina.
Anche se poi i soldi, i passaporti e i
clandestini come Zhu, dalla dogana ufficialmente
non sono mai passati.
Claudio Cerasa
14/04/07
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