Uno, due, tre. Terza linea, di fronte la meta, mischia, spalle basse, le clavicole spezzate, la palla in mezzo, i pugni nello stomaco, i calci sulle palle, le orecchie maciullate, il pallone lì, fermo in mezzo alle gambe. La terza linea esce fuori, a poco a poco, non se ne accorge nessuno, è solo un attimo, lui è già lontano, lancio lungo, palla all’ala, a destra c’è l’out, di fronte la meta, in mezzo c’è Mauro, centottantatre centimetri, cento chili. Arriva lui e non si passa più. Arriva lui e ogni volta, ti guarda un attimo, capisce dove stai andando, conosce le tue finte, conosce i tuoi dribbling. Ed è fermo. Sta lì e aspetta gli altri e ha il tempo di capire tutto, di guardare prima la mischia e poi di guardare te. Mauro Bergamasco non si volta mai perché la terza linea ti guarda negli occhi e poi capisce. E si chiede: chi ha più paura? Chi la prende prima? Chi la fa la meta? Chi si spacca prima la testa? Mauro Bergamasco ha paura, come tutti. Anche se sei un rugbista, anche se sei la terza linea più forte d’Italia, una delle più forti del mondo, anche se ti sei già spaccato tutto, anche se hai già visto tuo fratello Mirco spaccarsi le clavicole tre volte, tuo padre Arturo spaccarsi tutto un paio di volte. Qui non si scherza. Nel rugby tutti hanno paura di spezzarsi una gamba, di sfasciarsi la testa, di maciullarsi le orecchie e di spaccarsi un femore. Hanno tutti paura, ed è per questo che il placcaggio perfetto, la meta perfetta, lo scatto perfetto, il lancio perfetto non nasce mai dalla calma. Vince chi arriva prima, vince chi ne prende di meno e chi ne fa di più. Vince chi ha più paura e chi fa più paura agli altri. Gli All Blacks quando entrano in campo, cosa cantano? Cantano un passo in su, un altro passo in su, il sole splende, batti i piedi più forte che puoi, cantano: “Ka mate! Ka mate!/ Ka Ora! Ka Ora!/ Ka mate! Ka mate!/ Ka Ora! Ka Ora!” E poi: “Nana nei i tiki/ mai Whakawhiti/ te ra A upa...ne! A upa...ne!/ A upane kaupane whiti te ra!/ Hi!!! Cantano, io muoio, io muoio, io vivo, io vivo. Hanno paura loro ma fanno paura agli altri.
Di qui non si passa. Con Mauro, lì dietro non si passa quasi mai. Era contro la Scozia anche sei anni fa, come sabato scorso a Edimburgo. Di quà, sfondo blu, croce bianca al centro. Di là verde, bianco, rosso. A sinistra Mauro, a destra la palla, di fronte la meta, al centro la mischia, seimila tifosi italiani, la città un po’ italiana e poi il Murrayfield, lo stesso stadio dove gli scozzesi non perdono quasi mai. Quell’anno, nel 2001, la Scozia era la squadra più forte di tutti, più forti pure degli All Blacks. Lo erano anche quest’anno, poi è arrivato Bergamasco. Di qui non si passa. Di qui non passano neanche gli All Blacks, o almeno ci si prova.
Sono passati diciannove secondi, siamo a Edimburgo, lo scozzese Godman si ferma: guarda a destra, poi a sinistra, guarda avanti, lancio lungo. Nel rugby si chiama apertura. Davanti c’è Mauro, ventisette anni, padovano, cinquantadue caps, nazionale, un po’ francese, un po’ italiano, diciassette placcaggi in un solo pomeriggio, ruba palla, dieci metri e palla in meta. In trecento secondi la partita era già finita, ventuno punti l’Italia, zero punti la Scozia, il Murrayfield continuava ad applaudire, anche se la Scozia la palla non l’aveva ancora vista. Sei anni prima stesso stadio, stesse squadre. Scozia-Italia, la Scozia aveva vinto, ma Mauro quel giorno, con una meta incredibile, entrò nella storia. Proprio come sabato scorso. Mauro esce fuori, si sposa a sinistra, corre lungo l’out e per un attimo giocò all’ala, ma meglio non ricordarglielo. Era il 2001, Mauro Bergamasco realizzò una delle sei mete più belle del Sei Nazioni, la Bbc gli dedicò uno speciale inserendolo tra i “Six Nations’ Greatest Ever Tries Competition”. Lui come Rory Underwood (1993, Inghilterra), come Philippe Saint-Andrè, (1991 Francia), Brian O’Driscoll, (2000 Irlanda), Jim Calder, (1982, Scozia), Phil Bennett, (Galles, 1977). Trenta metri, palla sull’ala, scatto, progressione, dieci, venti, trenta metri e poi meta. Meta, come sabato scorso. E ora tutti che dicono come è bello il rugby, mi sento come un rugbista, complimenti al rugbista, bisogna prendere esempio dal rugbista, bisogna prendere esempio da quegli stadi, da quella serietà, da Lo Cicero e da Mauro Bergamasco. E quindi chiama Ciampi, chiama Gattuso, chiama la Melandri, chiama Tiziano Ferro e anche Prodi “si sente molto rugbista”. Ma il problema è che si tifa rugby per un risultato, non per lo sport. Si tifa rugby quando arriva la medaglia, quando arriva il momento di andare vestiti di bianco ad alzare una coppa, quando si arriva davanti alla telecamera e si dice, che bravi questi rugbisti, io lo avevo sempre detto, non vi ricordate? Si tifa solo per un punteggio, al massimo per i ricciolini di Bergamasco, per i pettorali di Lo Cicero, per la grande storia del rugby che però va bene ma solo quando tutto il resto va male. Va bene in prima pagina solo se chissenefrega del calcio, della Formula Uno, del Tennis, del ciclismo. Perché i rugbisti, come Mauro Bergamasco, – ma in Francia per esempio non è affatto così –, finiscono sui giornali per dire, guardate un po’ quanto vanno di moda i rugbisti che non si mettono con le veline e che sono gentili, bravi e anche belli. Ma questo capita solo dopo partite storiche come quelle di Edimburgo (l’Italia non aveva mai vinto una gara del Sei Nazioni in trasferta). I fenomeni, però, esistono anche quando gli altri non vincono. Esistono anche quando l’Italia non ne vince una, prende le sberle dalla Francia, dall’Inghilterra e le perde tutte, ma si diverte sempre.
Mauro Bergamasco ama il rugby anche per questo, anche se poi ogni tanto anche lui pensa alle isole Fiji. Si ricorda delle Fiji, Mauro, perché tre anni fa arrivarono a Monza e gli raccontarono che nelle Fiji quando la Nazionale vince una partita di rugby si proclama un giorno di festa nazionale. Gli raccontarono che nel 1987 il tenente colonnello Sitveni Rabuka occupò il Parlamento con un colpo di stato, ma venne ugualmente apprezzato dai suoi concittadini perché per sette anni, in fondo Rabuka, aveva giocato a rugby ad alto livello. Qui no. Si tifa rugby per un campione, per un trionfo, per uno come Mauro Bergamasco, per uno come Andrea Lo Cicero, per uno come Diego Dominguez. Se si vince in Scozia siamo i migliori, se non si vince non si esiste più.
A Roma, a Parigi, al Flaminio
Quella volta con gli All Blacks a Roma c’era anche lui, aveva giocato in Francia, abitava già a Parigi, a cinque minuti dallo stadio Jean-Bouin, a cinquecento metri da Bois de Boulogne. Il francese lo ha imparato in due mesi, a Parigi insieme al fratello Mirco ora ha aperto un blog: un po’ francese e un po’ italiano, non si capisce nulla. A Parigi, confessa Mauro, non si faceva granché: ogni giorno lo stesso programma, lunedì si recupera, poi piscina, cyclette, pesi, video della partita, allenamenti, palestra, allenamento il mercoledì e il giovedì, il venerdì fisioterapia, il sabato in campo, la domenica a riposo. E non era davvero granché, come ritmo. Dopo la Francia Mirco e Mauro hanno fatto anche un calendario. Lo hanno presentato nel megastore parigino dello Stade Français, al megastore arrivarono trecento ragazze, c’era anche qualche mamma, ci si siede al tavolino, Mirco e Mauro sono molto belli e dopo novanta secondi, avevano già sedici numeri di telefono e cento calendari autografati, anche a qualche mamma.
Gli All Blacks erano arrivati a Roma due sere prima del 13 novembre 2004. Il giovedì sera giravano per via Veneto, chi era lì quella sera racconta che alle due di notte erano completamente ubriachi. Cinque bottiglie di birra a testa, suppli, arancini, ristorante napoletano. Mauro, invece, era andato a dormire alle 23.30. Anche lui era un All Blacks, però ancora non glielo aveva detto nessuno. Due giorni dopo si va in campo, maglia numero sette, mano aperta, gomito stretto sul petto, pallone sotto l’avanbraccio. C’è chi dice che Mauro assomigli a William Webb Ellis. Ellis correva così, il braccio teso quando ancora non si poteva portare la palla in avanti sotto il braccio. Lui però decise che non era giusto, prese la palla, andò dritto e andò in meta. Lo decise lui, cambiò le regole così perché fino a quel giorno si segnava con le punizioni e la palla in mano la si poteva portare solo se si andava indietro. William se ne fregò, prese la palla e andò in meta. Sulla sua lapide a Londra si legge: “This stone commemorates the expolit of William Webb Ellis, who with a fine disregard for the rules of football as played in his time first took the ball in his arm and ran with it, thus originatinc the distnictive feature of the rugby game”. E cioè, colui che con fine disprezzo delle regole del footbal così come veniva giocato ai suoi tempi per primo prese una palla nelle sue braccia e corse via con questa.
“Il Lomu italiano”
Bergamasco in fondo è simile a William. Ha rivoluzionato la terza linea, con uno scatto, una meta e il placcaggio. Di mete in Nazionale ne ha realizzate dieci in tutto. Mauro è un fenomeno, lo era anche prima, ma sabato se ne sono accorti anche gli altri. Perché Mauro ha vinto lì dove il rubgy un po’ è stato inventato. Nel rugby si dice caps, si dice match, si dice, number, si dice out, si dice in, si dice flanker. Nel rugby si parla inglese, al massimo un po’ di scozzese e Mauro Bergamasco ha vinto proprio a casa del rugby. C’è arrivato con i number, con gli in, gli out, con i match e con i caps (i caps, nel rugby sono le presenze in Nazionale, un tempo erano dei berrettini che venivano consegnati dopo ogni incontro a chi aveva disputato la partita, ma i caps valgono soltanto per le partite contro le nazionali vere, non valgono per le amichevoli contro il Pontedera).
Lui cinquantacinque caps, il fratello Mirco (con cui gioca tutt’ora in Francia) trentotto, papà Arturo quattro caps tra il 1973 e il 1978. Perché anche il papà di Mauro e Mirco giocava. E Mauro ricorda spesso quel giorno. Lui aveva sei anni, il papà arrivò a casa e gli disse che in famiglia bastava così, di rugbisti in famiglia ne bastava uno, di costole orecchie maciullate ce ne era a sufficienza, ora ragazzi pensate all’atletica, agli attrezzi, basta con il rugby. Mauro aveva provato con il nuoto e pure con l’atletica. Però niente calcio. Poi a tredici anni arriva una squadra, lui aveva continuato a giocare a rugby, papà lo sapeva ma faceva finta di non vedere. La squadra si chiamava Terrac Padova, giocava esterno, poi mediano di mischia. La maglietta era tutta nera. Poi Mauro diventò una terza linea, ma c’era chi lo voleva da un’altra parte. Con l’ex allenatore dell’Italia, John Kirwan andò così. Kirwan aveva detto che lui, Mauro, era il Lomu bianco. Lomu è stato il giocatore di rugby più forte degli ultimi dieci anni, era il duro degli All Blacks, l’haka non partiva se non iniziava lui, con la lingua di fuori, la testa scura, completamente pelato e un ciuffo al centro, bruttissimo, fortissimo. Poi Lomu entrò in dialisi per una malformazione ai reni, fu operato, ora è tornato. E’ sempre Black, ma non più All. Lomu, quando giocava, era ala sinistra. Kirwan voleva Bergamasco lì sull’ala ma Mauro non voleva. Giocò qualche partita poi disse no grazie, ritornò in Francia, iniziò a firmare molti autografi. Senza di lui l’Italia non vinceva più. Kirwan se ne andò via, Mauro tornò in Nazionale. L’Italia non iniziò a vincere, ma almeno iniziò a prenderne un po’ di meno. Nel 2004 con gli All Blacks c’era ancora Kirwan e c’era anche Bergmasco. Era una delle prime partite senza Diego Dominguez e nel rugby dire Diego Dominguez è come usare un’unica parola per dire, tutti insieme, Baggio, Rivera, Facchetti e Totti. Con gli All Blacks, a Roma, al Flaminio, in tribuna c’era Lomu, accanto Woodward, Ct campione ddel mondo. Arriva l’haka, i primi punti, le mete, sugli spalti si balla, ci sono i campioni, poi c’è anche Bergamasco. Non finì come a Edimburgo, l’Italia perse 10 a 59 ma a fine partita Dominguez ricordò che Mauro era il suo erede e poi Graham, l’allenatore che con gli All Blacks aveva vinto tutto, si alzò e disse: “Quel Bergamasco potrebbe essere uno di noi”. Era il 13 novembre, l’Italia fece una sola meta. Ma anche quella fu storica. Indovinate chi la fece?
Claudio Cerasa
1/3/07
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