"No". Campo, seduta, palestra, palestra, campo, pedana. Il gesso sotto la mandibola, la testa sempre inclinata, uno, due, tre, quattro passi, il peso va via, così ogni giorno. Il successo sono i millimetri, ogni mese uno in più. Ma quel giorno nulla, non c’erano i millimetri, c’era solo l’occhio. “No”. Assunta Legnante aveva ventisei anni e aveva già vinto tutto quello che poteva vincere. Con quel braccio e con quel peso non poteva che andare così. Aveva i suoi obiettivi, gli Europei, i Mondiali e i Campionati italiani. Assunta vinceva sempre, il braccio andava sempre meglio, lei aveva perso dieci chili, la caviglia non le faceva più male, il ginocchio neanche, il doping – ormai – era roba vecchia e la gamba, anche quella, era passata. Le mancavano gli Europei (quelli indoor) e le mancava una medaglia, quella d’oro. Tre anni dopo quell’agosto del 2004 sono arrivate anche quelle: domenica scorsa a Birmingham, finale del lancio del peso, diciotto metri e novantadue centimetri, quasi record italiano e centodiciotto chili di tricolore.
I record da battere, per Assunta, sono sempre quelli suoi. Anche nel 2004 era così. Una settimana prima delle Olimpiadi, una settimana prima della pedana con i cinque cerchi, con le gambe ormai a posto. Non era mai stata così concentrata e non era mai stata così sicura. C’era l’occhio, è vero. Ma quelli erano solo fatti suoi. Lei saliva sul suo ring, andava in pedana e l’impressione – così la chiama lei – era sempre quella giusta. La settimana filava alla grande, come sempre. Lei ci scherzava, diceva di essere così, un’atleta di peso, che fa pesare le sue vittorie, con colpi di peso, lanci di peso. Ci scherzava, ma al Coni non scherzavano. Assunta era sicura di farcela semplicemente perché era la migliore. Lei voleva andare alle Olimpiadi di Atene e doveva essere così. Perché il braccio, lei, lo sentiva meglio del solito. Si chiedeva come mai le bielorusse e le tedesche non riuscissero mai a prenderla. Loro la guardavano e non capivano come era possibile non prendere mai una così. La sua settimana era sempre la stessa: campo, seduta, palestra, palestra, campo, pedana. Ogni giorno un millimetro in più. Sembra impossibile e un po’ lo era, ma Assunta ci provava e ci prova ancora. Oggi con il peso, ieri con il giavellotto e prima ancora con il disco. Mai – o quasi mai – un euro, solo passione, campetti senza erba, un po’ di terriccio e gli amici che ti incontrano e ti dicono, scusa che sport fai? Tu rispondi “peso”, e gli altri: “Ho detto che sport fai”.
Il record, la stagione, l’ex doping
Nel peso si va avanti così. Si va avanti pensando al Mondiale, all’Europeo e ovviamente all’Olimpiade. Perché se non sei lì, scusi lei chi è? Che sport è questo? Dov’è la palla? Dov’è la squadra? Lì ci sei tu e se perdi, perdi soltanto tu. Ma se non vinci non vai avanti, se non hai soldi e se non hai un po’ di successo resti lì a casa. Anche quest’anno era così. Le tedesche e le bielorusse non vincevano allora, tre anni fa, ma non vincevano neanche quest’anno. Assunta non capiva e anche ora fa finta di non capire. Era lei il problema delle altre. Era lei, con quel braccio un po’ grassottelo, che vola via insieme al peso. Ogni lancio quasi come un gancio.
Il ventitré gennaio Assunta con diciannove metri e zero uno aveva realizzato la miglior prestazione mondiale della stagione. Con poca tecnica, poca eleganza e poca grazia. Il record italiano lo aveva fatto pochi giorni prima di Atene, nel 2004, diciotto metri e novantadue centimetri, ventotto centimetri in meno di Birmingham. C’era però chi le diceva: sei una dopata. Nel 2002 era stata fermata per qualche mese, era appena diventata campionessa italiana degli assoluti, ma in quel periodo non andava granché, si era scusata con l’allenatore e si era scusata anche con la Nazionale. In una delle ultime gare aveva fatto tre lanci, uno nullo, due pessimi. Era a pezzi, ma non solo per il doping. Il doping si chiamava “sinefrina”, una sostanza che ora dice lei, si trova anche nei succhi d’arancia e che ora, dice Assunta, non è più nemmeno doping. Però allora lo era. Lei si ferma, continua ad allenarsi ma non poteva gareggiare. Lei ci credeva davvero, pensava ad Atene e alle Olimpiadi. Non per vincerle, ma per esserci, almeno per esistere. Tre giorni prima di partire per le Olimpiadi di Atene arriva al Coni per le visite mediche, le guardano quel maledetto occhio, passa qualche ora e le dicono: “No”. Niente Olimpiadi. “Per noi non sei a posto”. Assunta ha un glaucoma all’occhio sinistro, non potrebbe partecipare a nessuna gara, secondo il Coni, e a quelle Olimpiadi effettivamente non la fecero partecipare. Era l’italiana più forte ma rimase a casa. Tre anni dopo: centodiciotto chili, più di cento gare, la retina sempre a rischio ma per il momento solo vittorie, lanci e medaglie. Il doping è passato, i controlli ora sono più duri e lei ha continuato a migliorare. Ha continuato anche a mangiare, ma ogni mese un millimetro in più. Tra le sue colleghe ogni mese ne viene beccata una e non per Sinefrina. Lei dice che il doping è quello delle altre, le altre dicono che il doping non esiste. I record però li batte Assunta, con una caviglia spezzata, l’occhio così, il glaucoma. Ma oltre i venti metri è difficile andare. Quella è roba per altri, per fenomeni, per gente fuori dal normale. Assunta migliora i suoi record perché – dice – i suoi record sono record veri, non truccati. “Oltre i venti metri c’è qualcosa che non va”. Lei continua a migliorarsi, ora vuole provare con Pechino, con le Olimpiadi del 2008. Ma il record del mondo è troppo in là: sono i ventidue metri e sessantatré di Natalya Lisovskaya; il prossimo sette giugno saranno vent’anni che nessuno riesce neppure a sfiorarlo.
Claudio Cerasa
7/3/07
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