sabato 24 febbraio 2007

Il Foglio. "La fatal Vicenza. Catalogo aggiornato dei più bei tipi da piazza"

L’ha compilato il nostro cronista osservando il popolo dei no Base, no Tav, no Vat, no Cav. Fenomenologia a colori della manifestazione che ha dato la spallata al governo Prodi

Di Claudio Cerasa

No base, no Tav, no Vat, no Cav, no
Global, no Usa, no Nato, no Onu, no
Prodi, no Rutelli, no gas, no war, not in
my name, no Bush, no Condi, no scuola,
no Bersani, no Dico, no, no, no. Il primo
sì della manifestazione di Vicenza arriva
alle 17.15, cinque chilometri dopo la
questura, la polizia, il petardo, lo striscione
del centro sociale Gramigna che
un po’ c’era e un po’ non c’era, il fiume
con i poliziotti nascosti lungo l’argine, il
primo cordone, poi il secondo, ma quando
cade Prodi?, Ferrando che fa il pugno,
avanti compagni, hasta la victoria
compañeros, la bandiera del Chiapas, la
stella a cinque punte, yankee go home,
americani vaffanculo, ma scusate dov’è
la testa del corteo?, dove sono i centri
sociali, dove sono i Cobas, dov’è la Cgil,
e no, questi sono i Verdi, no, con tutti,
ma con i Verdi no. Dopo tre ore di corteo,
dopo cinque chilometri, al lato della
strada c’è un poster con una bimba,
un uomo e una donna. Si legge: “Sì, questa
è la famiglia”. C’è il simbolo dell’Udc,
i no Base non c’entrano ma questo
è l’unico “sì” in dieci chilometri di
marcia pacifica o, come si dice, di protesta
non violenta, ma anche un po’ girotondo
(perché tutti intorno a Vicenza),
ma anche un po’ no Global e un po’ no
Tav (perché per carità l’alta velocità) e
anche un po’ no Vat perché al massimo
le moschee, ma no, niente chiesa, niente
guerra, niente Afghanistan, niente
Iraq, niente Bersani. Ah, certo, naturalmente,
anche un po’ “no Base”. Ma a
una settimana di distanza, ora, a bocce
ferme, con un Prodi che si è dimesso (e
Vicenza c’entra, ma fino a un certo punto),
con un D’Alema che è stato bocciato
(e non certo soltanto per Vicenza dato
che il ministro degli Esteri – mercoledì
al Senato – della Base ne ha pure parlato,
anche se non gli è bastato), con un
presidente della Repubblica che due
ore prima di ricevere Prodi al Quirinale
era a Bologna e aveva detto che attenzione,
“la piazza non è il sale della democrazia”,
una settimana dopo, ora, cosa
rimane della piazza? Cosa rimane
della base di Vicenza? Perché la base a
Vicenza si farà, magari non nella spianata
del Dal Molin, magari non nell’aeroporto
civile, ma si farà, punto. E non
basterà un Prodi Due, un Cav. Tre, un
D’Alema Due, un Amato Tre, un Fassino
Uno, una consultazione o una crisi di
governo per cambiare idea. E a Vicenza
gli ottantamila o centomila o duecentomila
o quanto diavolo erano i manifestanti
del corteo di sabato scorso, que sto
lo sanno e lo sapevano perfettamente.
Perché se la base, a Vicenza, si farà
davvero, la base di Vicenza, quella fatta
dai duecentomila, centomila, ottantamila
manifestanti, quella fatta dai no Global,
dai no Tav, ma anche dai poliziotti,
dai giornalisti, dai Ferrando e dai no
Vat, se quando c’era il Cav a Vicenza si
capiva cosa voleva se quando c’era Prodi
a Vicenza si capiva chi non voleva,
ora tutti quei manifestanti che (anche se
non lo volevano affatto) in fondo in fondo
hanno dato una spallata al governo
Prodi, chi erano, cosa facevano e soprattutto
volevano davvero qualcosa?

L’organizzatore e il capannone. Ha una
maglietta con la manica corta, nera,
stampa con la scritta “Carletto-Giulianipiazza,
ragazzo”, tatuaggio a ragnatela
sotto il gomito destro, un orecchino nero
incastonato nel lobo, non è mai il più alto
del gruppo, ha i capelli corti, non ha
mai l’accendino, la mattina parte dalla
base Dal Molin, sono le 10.30, sabato, 17
febbraio, la base è circondata da poliziotti,
il presidio permanente è stato
montato due martedì fa, un capannone,
trenta metri quadrati, tanti volantini, un
po’ di fango, di fronte un camion con megafono,
“compagni, prendete lo stereo”,
per terra un cestino, si montano gli striscioni,
“Fuori la Nato dalla storia”, gli
elicotteri si abbassano, si alzano molte
dita medie, due signori hanno il manifesto
sotto braccio, passa una donna, cinquant’anni,
capelli rossi, ha un cartello,
“I giornali sono la ferrovia delle bugie”,
molte magliette nere, si comincia a cantare,
si legge su uno striscione “filoamericano
uguale anti italiano”, ci sono anche
gli amici di Beppe Grillo, però non
c’è Beppe Grillo, c’è un “Galan terrorista”,
si suonano le pentole, dentro il tendone
parte la rassegna stampa “con
quello che i giornali (non) dicono”, altri
manifesti, l’organizzatore ripassa con lo
spray “politici italiani servi e schiavi del
padrone Bush”, due giornalisti di una
radio slovena gli chiedono: “Ma voi cosa
volete?”, risposta, “non vogliamo loro”,
“sì però, che volete?”, risposta, “non vogliamo
la guerra, peace e anche love”. Si
canta il mio nome è mai più (Ligabue,
Jovanotti, Piero Pelù), sulla grata di
fronte a via Ponte di Marchese, ha appena
finito di appendere alcuni striscioni,
sono ancora lì, devono ancora asciugarsi.
“No finanziaria”, “No Silvio”, “No
Ederle”, “No Cav”, “No guerra”, “Non
abbiamo governi amici”, “No basi”, e
poi anche un “Non si parcheggia”.

Il poliziotto in borghese. Il poliziotto in
borghese si riconosce dalle Nike nere
con il baffo rosso, ultimo modello, centottanta
euro, cuscinetto arancione, marsupio
Invicta verde (con molte tasche e
parecchie cerniere) pantalone molto
giovanile ma non troppo, jeans chiaro
ma non scucito, la piega non è ai lati ma
è al centro, la giacca nera very young ma
poco credibile, stile: “Mi scusi, mi dà
una giacca da giovane?”, occhiale nero a
goccia, capello a spazzola, nero, una mano
in tasca. Il poliziotto è perfettamente
integrato con il resto del corteo ma riesce
a rimanere sempre nella stessa posizione
e per tutti i dieci chilometri lui rimane
lì, si chiama palo, lo chiamano appostamento,
loro dicono che è un approccio.
Ha un telefonino Motorola, con
l’antenna, appoggiato sopra la mandibola,
si cerca un contatto, hai da accendere
uno spinello?, bella fratello, ragazzi
che si dice, accento un po’ forzato, movimento
goffo, è bravissimo, si mantiene in
una posizione un po’ defilata, sorride, a
volte balla la musica tecno, gli occhiali
sempre sul volto. Poi però arrivi al chilometro
numero otto, poco prima del rettilineo,
sei ragazzi parlano tra di loro, un
signore è appoggiato al muro sotto la
macelleria “Carne bovina”, è distratto, è
appena passato il carro con Ariel Sharon
che si mangia un paio di palestinesi,
e con un Prodi di cartapesta, piuttosto
grande, che sorride. Si avvicinano i sei
ragazzi, “Digos boia, Digos-Digos-Digos,
boia, boia, boia”. Si girano in cinque, tutti
vestiti uguali, sono tutti e cinque in
borghese, macchina fotografica in mano,
intanto la questura continua a contare i
manifestanti, sono trentamila, quarantamila,
ottantamila, dall’altra parte i partiti
dicono no, siamo centomila, duecentomila.
Quando i poliziotti stimano non
si scherza, il loro è un calcolo molto preciso,
vedono i treni, vedono i pullman, e
appuntano. Ogni pullman ottanta manifestanti,
poi sommano i pullman, i treni
e le macchine, leggono le cifre che dà
l’Ansa, tolgono un po’ da quei numeri e
dicono la loro. E loro dicevano, i poliziotti,
dicevano ottantamila, gli altri minimo
centomila, e quelli in mezzo?, i
ventimila in più?, bella ragazzi, che hai
da accendere uno spinello?

Manifestante Primo Maggio. Non è un
no global, non è un no Tav, non è uno da
“Fuori gli Usa”, “yankee please go home”,
“americani terroristi”, “servi di
Bush”, “l’Italia non si Usa”. Se va a Venezia
e si trova di fronte alla stazione di
Santa Lucia una vetrina con una scultura
di una Madonna che tiene un Cristo
che le muore in braccio (firmata Micheal
Angels) e vede che sotto la scultura
c’è una didascalia che spiega che gli
americani “riempirono già tre anni fa
sterminati campi di battaglia di cadaveri”
e se poi vede che il sangue di Cristo
è stato sostituito dal rosso e celeste della
bandiera americana, a lui non gliene
importa nulla. Lui va in piazza perché
se l’era scritto sull’agendina ed era uno
di quelli che lui chiama “appuntamenti
da non perdere”. Chissenefrega della
base, ma non scherziamo. Il profilo: non
guarda la tv, non ama quelli che dicono
che gli altri sono turisti della democrazia,
è stato il primo a dire che Fidel Castro
è un pezzo di merda, apprezza Silvio
Muccino ma non può dirlo in giro,
viene spesso a queste manifestazioni
(come Matteo, Bergamo, centro sociale,
32 anni) perché “con una giornata e un
sole come questo non potevi proprio
non venire”, legge Anthony Giddens (su
Repubblica), compra il manifesto, non
vota quasi mai, se vota vota Ds o al massimo
sulla scheda elettorale scrive Luciano
Moggi o magari Pippo Franco (fino
a quando Pippo Franco era solo un
comico, poi si è candidato davvero ed è
passato a Jerry Calà). Lui non ama Diliberto,
dice di non sentirsi rappresentato,
si è candidato due volte alle elezioni
di rappresentante di classe quando
ancora era al liceo, non ama neanche
Rizzo, sfoglia i giornali e si accorge che
a ogni manifestazione Rizzo di fronte a
una macchina fotografica mette in pratica
la geniale “operazione didascalia”.
E cioè: arriva il fotografo, lui si piazza a
sinistra di Diliberto, sorride, click e poi
tutti i giornali, ma proprio tutti (a parte
Libero di domenica) nella didascalia
prendono e scrivono in ordine di apparizione,
“A sinistra Rizzo, a destra Diliberto”
lui se ne accorge ma non gliene
importa nulla. Il manifestante Primo
Maggio va a Vicenza ma va anche a Firenze
per il social Forum, va ad Assisi
per la marcia della pace soltanto se c’è
una giornata che proprio era un peccato
non andare, ama il Primo Maggio ma
non ama più “Il Primo Maggio”, dato
che ormai il Primo Maggio a Roma piove
sempre, Claudio Bisio non fa più ridere
e quindi meglio andare in trasferta,
come per le partite. C’è chi lo chiama
“turista della manifestazione”, a Vicenza
ha fatto amicizia con i ragazzi
della Lega, non gliene importa nulla
della Base, non gliene importa nulla di
quelli che c’erano e che non c’erano,
degli “impegni inderogabili” (di Giulietto
Chiesa), “dello spettacolo di Pordenone”
(di Beppe Grillo), del “sono
troppo vecchio per sfilare” (Massimo
Cacciari), del volevo ma proprio non
potevo (Fausto Bertinotti), del potevo
ma non dovevo (Paolo Cento). Il manifestante
Primo Maggio viene da Roma, o
comunque ci ha vissuto almeno due anni,
a Vicenza non ha trovato nessun bar
con aperitivo, poi però si accorge che
negli ultimi dieci giorni tutti, davvero
tutti, hanno detto qualcosa su Vicenza,
sulla base e sull’America, tranne uno,
incredibilmente oscurato per quasi
due settimane, superato come interviste,
commenti o lettere anche dai disob-
bedienti, da Luca Casarini, dai conduttori
di Radio Sherwood, dai militari del
Dal Molin. Incredibile. Poi però lui
prende il giornale e il giorno dopo la
manifestazione accanto ai “Corteo pacifico”,
a Prodi che parla, Amato che dice
è una vittoria mia, Rizzo (e a destra
Diliberto) che dice no la vittoria è mia,
Prodi che dice la vittoria è nostra, trova
anche Galan (governatore del Veneto)
che si chiede il perché del “miserabile
silenzio” di qualcuno che “si maschera
da americano ma da dieci giorni non
parla”. Il manifestante continua a sfogliare
i giornali, finalmente capisce, arriva
a pagina trenta del Corriere di domenica
e legge “Betancourt, un oblio
scandaloso”, con richiamo in prima e
firmato – dopo due settimane di “miserabile
silenzio” – Walter Veltroni.

I due giornalisti. Esistono due tipi di
giornalisti da manifestazione. Quello in
tenuta da sommossa e quello in tenuta
da fuga. Quello in tenuta da sommossa
ha uno zaino piccolo piccolo, dentro ha
un casco, la mattina si sveglia alle 6.30,
colazione rapida solo con carboidrati, oggi
si corre, anzi, magari oggi si scappa,
pantalone chiaro, scarpa da ginnastica
con calzino ad altezza ginocchio con funzione
da parastinco, ascolta Radio Uno
convinto che Radio Uno aggiorni il giornalista
per tutta la manifestazione, la accende
alle 13 ed effettivamente c’è il notiziario,
l’accende alle 14 e c’è ancora il
notiziario, indossa una felpa sportiva blu,
parte il corteo, ha una cinta rinforzata
(hai visto mai), cammina lateralmente e
attraversa il corteo da una parte all’altra
per poter dire, sto in mezzo, sì ragazzi, ieri
stavo proprio in mezzo a quel delirio,
ha una sciarpa legata alla cinta che usa
per tener nascosta la cinta e per avere i
pantaloni più aderenti. Ma la sciarpa
può tornare molto utile in caso di fumogeni
o lacrimogeni. Dice molte volte “che
succede?”, “hai sentito che diceva quello?”,
si guarda intorno e chiede, “sei un
collega?”. Parte il corteo, alle 15 prova
ad ascoltare il notiziario, sempre su Radio
Uno, come alle 13 e alle 14, solo che
alle 15.00 – come ogni domenica e ogni
sabato quando ci sono gli anticipi – parte
“Tutto il calcio minuto per minuto” ed
entra nel panico, si spaventa e inizia a
smanettare con il telefonino abbonandosi
ad ogni tipo di servizio di aggiornamento
in tempo reale. Spende molti soldi
ma non riesce a leggere neanche una
news in diretta. Poi però si lamenta perché
è stato un pomeriggio molto noioso.
Il giornalista in tenuta da fuga, invece,
non ha tempo per la radio, è un ingombro
inutile, se poi mi incastro, se poi i fili
mi si attorcigliano sulla gamba? Il giornalista
in tenuta da fuga non riesce a
camminare da solo. E’ perfettamente mimetizzato,
non ha sciarpe, non ha felpe
con la zip. Ha quarantadue anni, lo stile
è simile a quello da agente Digos, solo
che lui riesce a sembrare in borghese
pur non avendo una sua divisa, e nessuno
capisce bene come diavolo faccia. Un
genio. La sera prima in albergo aveva
passato tutta la notte a pianificare (“sei
un collega?”) le sue strategie di fuga,
spiegando poi che Ezio quella lettera forse
avrebbe dovuto gestirla meglio, che
forse Dario a Milano chissà cosa avrebbe
potuto fare, conosce tutti gli agenti della
Digos, li saluta, gli agenti ricambiano, i
bar sono aperti, te lo fai un tiro?, Ronaldo
ha segnato il primo gol, Napolitano fa
pace con il presidente croato, passa il
cartello dei “N.a.t.o. per uccidere”, ancora
altri no, ma lui non si spaventa, è
pronto a tutto, il suo abbigliamento è studiato
in maniera scientifica, massima integrazione
con gli altri, nessun rischio,
entra al bar, due Heineken, poi però gira
tutto il corteo accanto a un no global vero,
o almeno un perfetto modello di no
global con cappellino, kefia, giacca colorata,
con i rasta, la felpa di Camden
Town, il pantalone strappato, le scarpe
con i lacci bianchissimi nuovi (ma che
sembrano vecchi) comprati due giorni
prima del corteo. Ma i no global non sono
mai stati così, a lui però non gliene
importa nulla, fa il conto di quanti no
Tav si trovano in giro e appunta, appunta
ancora, dice “grande afflusso dei no
Tav”, ma non si accorge che molti “No
Tav” sono solo dei “No Vat” letti al contrario;
il no global continua a scortarlo,
per tutto il tragitto, lui gli chiede consigli,
lavora in trasmissioni tipo Ballarò, ha
appena comprato il libro di Al Gore,
però non l’ha ancora finito.

Tipologia uomo/donna dello spettacolo.
Si chiama sindrome Nanni Moretti. Da
piazza Navona in poi, da quel febbraio
del 2002, un attore sul palco deve arrivare
all’improvviso in maniera imprevista
(anche se l’attore preferirebbe dire inaspettata)
e deve dire, scusate, non volevo
farlo ma sono stato costretto. Se è un
comico deve essere molto bravo e deve
provare a non far ridere quasi mai (e
Dario Fo è molto bravo in questo), se
non è un comico deve provare a essere
brillante ma senza sembrare neppure
eccessivamente colto per non correre il
rischio di rientrare in quota da “Intellettuale
del Partito democratico” (e Franca
Rame riesce piuttosto bene a non destare
alcun sospetto). Ma da Nanni Moretti
in poi un attore sul palco è costretto
a sforzarsi in tutti i modi per provare
a creare qualcosa, e ci si accontenta davvero
di tutto, va bene il nome di un movimento,
va bene il nome di uno slogan,
va bene una battuta contro un nemico.
Ma se non c’è un Cav. con cui prendersela,
un articolo diciotto contro cui scendere
in piazza, un girotondo, una finanziaria,
una legge truffa, un referendum, una
base ancora da approvare, qualcuno che
per favore, dica qualcosa di sinistra, come
si fa? Non è certo semplice fare nella
vita l’attore in quota antiCav e riuscire
a essere brillante anche prendendo
in giro quella che si fa chiamare la “serietà
al governo”, quella stessa serietà
che in fondo in fondo per quasi nove mesi
ha tolto a molti attori la possibilità di
far successo solo per il semplice motivo
di essere considerato antiCav, e quindi
un sacco fichissimo. E dunque, a Vicenza
c’era Sabina Guzzanti, c’era Dario Fo,
c’era Franca Rame e alla fine hanno
suonato anche i Punkreas. Salgono sul
palco, urlano un po’, “questa canzone è
per loro”, la dedichiamo ai nostri vicini,
quelli della base, su le mani” e poi partono:
“Io il vicino lo devo eliminare, il vicino
è il mio nemico”. La canzone fa proprio
così. Franca Rame, sedici giorni dopo
i suoi autorevoli otto minuti al Senato
contro l’America e le basi e i voli e le
guerre e “grazie signor presidente, ci
penserei bene prima di fare questa base,
ci sono già 850 basi nel mondo, 480 testate
nucleari e 113 strutture militari
americane”. Poi sale sul palco anche Sabina
Guzzanti, arrivata, così un po’ all’improvviso.
Lei direbbe in maniera
inaspettata. Franca Rame torna a parlare
e dice che Prodi dovrebbe chiedere
scusa a Vicenza, poi arriva anche Dario
Fo, in piazza scoppia un petardo, c’è
molto fumo, ma non dipende dal petardo,
il fumo. Si distinguono con una certa
semplicità, e vengono tutte dal palco, le
parole “faccia”, “ira”, “ipocrisia”, “petrolio”,
“soldi”, “consumi”, “guerra”,
“andate”, “via”, “ma quanti”, “siete”, poi
partono ancora i Punkreas, Dario Fo fa
il punto della situazione e spiega che
qui a Vicenza, qui in Italia, con gli Stati
Uniti, Ronald Spogli, Romano Prodi ovviamente
Silvio Berlusconi, gli aerei, le
armi, il problema vero è la chiesa locale.
Dario Fo ride molto ma la sua non voleva
essere una battuta (e infatti non lo
era), si rende conto che da sotto il palco
si cerca un leader, si cerca un nome, si
cerca la scintilla e si cerca di capire che
fine farà e semmai si incontrerà ancora
questa base. Dario Fo lo capisce ma fa
finta di nulla, si diverte e inizia a un po’
a urlare, anche lui. Solo che in piazza
non è rimasto ormai praticamente nessuno;
gli ultimi se ne erano andati poco
prima che Fo iniziasse a ridere da solo.

Tipologia più casse meno guerra. Scrive
cose così: “Interessi dei padroni”,
“profitto generato”, “massimizzare risorse
altrui”, “aggressore israeliano”,
“repressione”, “pace sì ma non con i padroni”,
“interessi realmente antagonisti”,
“autorganizzazione dal basso”,
“mobilitazione popolare”, e quindi
“contro tutte le basi militari”, “contro il
finanziamento alle missioni di guerra
Nato e Onu” (con punto esclamativo),
“contro l’imperialismo italiano e i suoi
governi”. Li distribuisce così, non è molto
convinto, scusa vuoi questo giornale?,
è un giornale di compagni, un giornale
di pensiero anticapitalistico-marxistapopolar-
trotzkista, sono tre euro, passano
due ragazzi e pisciano per strada,
dov’è la cassa?, sono le 17.45, mancano
due chilometri, musica tecno, si balla, si
cerca il centro sociale Rivolta, passa un
camioncino, attorno tre ragazze che distribuiscono
altri volantini. Il primo: “Il
nemico è in casa nostra”, il secondo: “Il
governo Prodi-D’Alema-Rutelli-Bertinotti-
Padoa Schioppa-Diliberto-Pecoraro-
Di Pietro- Mastella-Pannella si genuflette
ai padroni di Washington” (segue
accurata descrizione geopolitica del significato
capitalistico dell’impatto ambientale),
il terzo: “Feti-cismi contro le
guerre e contro una classe politica che
sta in Parlamento inginocchiata e con
l’elmetto sulla testa”, il quarto: “Via le
truppe italiane da tutte le missioni di
guerra all’estero”. Il camioncino passa
avanti, “più cassa meno guerra”, da un
furgoncino spunta un cartello, birra due
euro. Ci sono tanti bambini, sono le
17.55, arriva anche Tommaso, piedi scalzi,
viene dal presidio, ha i capelli unti,
sorride, non si lava, non si cambia i vestiti
e non parla tanto, ma (la storia è vera)
non è uno scemo, perché lui al no
base, no America, no Bush no niente, ci
crede davvero, si è fatto assumere da
una base americana in Germania, lavorava
lì proprio in una base come quella
che potrebbe diventare il “Dal Molin”,
poi si è fatto licenziare, ma prima – raccontano
– aveva spaccato l’abitacolo di
due aerei americani. Tommaso cammina
ed è davvero contento, distribuisce
qualche volantino, attacca qualche adesivo
sui cartelli “zona militare”, abbraccia
molti compagni, non guarda Porta a
Porta, legge “Lotta operaia”, ma lasciateli
stare i compagni. Il pullmino si ferma,
lo conduce Mirko, trentacinque anni,
con una mano guida, con l’altra parla
al telefono, con l’altra beve una birra,
con l’altra fuma la sigaretta e dice a Stefania
di Sky che “le armi dei compagni?
Si sapeva, ovvio, c’erano da tempo quelle,
chi non lo sapeva”, come da tempo?,
“Sì da tempo”. Trent’anni fa, un po’ prima
di quest’ora, Luciano Lama era uscito
dalla Sapienza, ci sono ancora molti
striscioni, i volantini vengono strappati,
qualcuno li conserva, dopo quattro ore
si sente anche “un mio amico che mi ha
chiesto: me la tieni! Devo andare all’aeroporto
e lei non va d’accordo tanto con
i cani”, sono gli “articolo 31”. Tutti i volantini
hanno lo stesso problema, sono
tutti contro qualcosa, no Vat, no guerra,
no Tav, non c’è un no preciso, non ce ne
è uno più importante dell’altro, non c’è
un volantino più tosto di un altro. Non
va bene Prodi, ma non c’è nessun’altro
che possa andare bene. Nessuno. E ora,
una settimana dopo, tre giorni dopo la
relazione politica di Massimo D’Alema,
dopo le consultazioni, dopo la crisi del
governo, la base di Vicenza rimarrà lì,
ma della base degli ottantamila o centomila,
non è rimasto quasi nulla, c’è chi
dice solo una bella scampagnata pacifica,
un Primo Maggio senza musica, un
social forum senza forum, una base che
si farà e un’altra che forse già non c’è
più, quella con tanti no ma nessun no
più importante degli altri, che ora avrà
l’illusione che, in fondo in fondo, se il
governo è caduto il merito è anche un
po’ nostro, anche se non volevamo, anche
se non dovevamo anche se – come
scritto da Liberazione giovedì scorso –
“Non ci piaceva ma non volevamo la crisi”.
E intanto tutti sono tornati a parlare,
di governo, di crisi, di maggioranze
ma non di basi. Sono tornati a parlare
proprio tutti e, martedì, il giorno prima
delle dimissioni di Prodi e due giorni
dopo il richiamo in prima sul Corriere,
arriva un’altra lettera di Walter Veltroni,
prima pagina della “Gazzetta dello
Sport”, “Etica e show”, si legge che
“l’All star game è ciò che potrebbe essere
per un orso l’invito a visitare una fabbrica
di miele”, parlava di basket, Walter,
la base di Vicenza, la bellissima
giornata, i manifestanti e i palloncini
colorati ormai sono stati già dimenticati.
Anche se forse, senza volerlo, una
spallata a Prodi l’hanno data davvero.
24/02/07

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