domenica 25 novembre 2007

Il Foglio. "Le riforme viste dal taxi"

Ricordate il pacchetto delle liberalizzazioni? Sembrava l’anticamera di una rivoluzione per farmacie, mutui, treni, aerei. Cinquecento giorni dopo, il tassametro conferma che la rivoluzione è partita ma non è arrivata. E il tassinaro spiega perché

Fiumicino. Tredici novembre. Cinquecento
giorni dalle liberalizzazioni.
Cinquecento giorni dal decreto
che cambierà “la vita degli italiani”
(Romano Prodi), che diventerà un “terremoto”
per noi tutti (Francesco Rutelli),
che favorirà sia la “concorrenza
che la competitività” (Livia Turco) e
che rivoluzionerà professioni, negozi,
trasporti, farmacie, barbieri, benzinai,
parrucchieri, ferrovie, aerei, banche,
mutui, carburanti, imprese, commerci,
professioni, avvocati, farmacisti e naturalmente
tassisti. Tassisti. Più concorrenza,
più servizi, prezzi più bassi.
Semplice. Ore ventidue e cinquanta,
aeroporto Leonardo da Vinci, ventitré
chilometri da Roma: due vigili urbani,
sei trolley portati a mano, una valigetta
ventiquattrore, un volo Milano-Roma
(centoventitré euro, dieci minuti di
ritardo), una corsia verniciata di giallo,
due cartelli con scritta “Taxi”, quindici
passeggeri in fila, sette tassinari
abusivi (“cinquanta euro Roma Fiumicino-
Roma centro”), zero “Taxi” in corsia
e sedici minuti di attesa. Sedici minuti;
poi il primo: compagnia Samarcanda,
06.5511. Luigi, trentacinque anni,
capelli neri tipo Danilo Coppola,
felpa verde, Citroen C3, tredici anni di
licenza, 1.350 euro al mese e tassametro
bloccato. Tragitto: aeroporto Fiumicino-
Piazza Mazzini, Roma; fuori
dalle mura Aureliane, zona dove la tariffa
fissa semplicemente non si usa,
non è prevista. Il costo. Ieri, cinquecento
giorni fa, prima del “terremoto”
e prima della rivoluzione delle professioni,
della concorrenza e della competitività,
il costo era trentadue euro.
E oggi? E oggi le liberalizzazioni? E le
rivoluzioni annunciate? E la rivoluzione
delle farmacie, dei treni, dei taxi?
Che succede? Sono percepite? Ci sono.
Sì, oppure no?
Radio. Musica dei Black Sabbath, voce
di Ozzy Osbourne, tassametro spento,
tariffa fissa anche se fissa non dovrebbe
essere. Si parte. Sono le ventitré e sei
minuti, è il tredici novembre.
“Certo, li leggo i giornali: sapevo
quello che volevano da noi; sapevano
che volevano aumentare le macchine,
che volevano aumentare il numero delle
vetture in circolazione, che volevano
accumulare, o cumulare, come si dice?
Sì, ecco: ci volevano ‘liberalizzare’, volevano
darci il satellitare, volevano
metterci la doppia targa, volevano lasciarci
tutti per strada. Me lo ricordo.
Me lo ricordo cosa ci dicevano. ‘Ottimizzare
i turni’, ‘aumentare il numero di
vetture in circolazione’, ‘rilasciare permessi’,
‘localizzare autovetture’, ‘qualità
del servizio’. E invece no. E invece il
sindaco nostro c’ha fatto il regalo bello
bello. C’è venuto incontro, sì: ha capito
che dovevamo trattare tutti e che di liberalizzare,
o come si dice, non se ne
faceva nulla. Sì, è vero: ci sono 1.500 licenze
nuove, tassista più tassista meno;
ma non è cambiato nulla, perché doveva
già cambiare tutto da prima, e perché
quelle licenze erano previste già da
un po’. Quanto. Mah, da quattro, da cinque.
Da cinque anni, più o meno”. Anno
duemilauno, l’assessore alla Mobilità
a Roma si chiama Simone Gargano,
il Comune annuncia proprio 1.500 licenze
in più: arriveranno sei anni dopo;
le liberalizzazioni, con quelle licenze,
non c’entrano proprio nulla. “E noi certo
che lo sapevamo: certo che ci sono un
po’ di macchine in più, oggi: ma alla fine
siamo noi che abbiamo vinto. Perché?
Perché avevamo chiesto di aumentare
le tariffe, avevamo chiesto il 25
per cento in più, il Comune ci voleva
dare solo 12 per cento ma ora, tra 25 e
12 la media, su per giù, quant’è? Diciotto.
Diciotto per cento di tariffa in più.
Questa sarà la nostra vittoria. E si va
avanti. Perché il cinque dicembre siamo
tutti in piazza: e se proprio vogliono
mettere qualche macchina in più in giro
che aumentassero anche le tariffe e
che aumentassero anche i prezzi; semplice,
no?”. Semplice. Pochi taxi in più
e prezzi più alti. A Roma, ma anche a
Milano. I dati sono questi. Si parte dal
taxi e poi si arriva alla “rivoluzione”
annunciata ma non esattamente percepita.
Perché. Perché a Milano, per i
taxi, le tariffe sono aumentate del 12,9
per cento in un anno: e dal centro di
Milano, per raggiungere Malpensa, oggi
ci vogliono settanta euro; da Malpensa
per raggiungere la Fiera ci vogliono
cinquantacinque euro; da Linate alla
Fiera sono quaranta euro e, infine, da
Malpensa a Linate gli euro sono ottantacinque.
E a Roma? A Roma sono 1.450
le licenze in più; e in tutto, oggi, ne girano
7.450, di taxi. Più taxi, sì: ma a prezzi
più alti. Quindi esattamente il contrario
di quel “più libertà, più scelta e prezzi
più bassi e più opportunità di lavoro”,
di cui parlava Bersani, ministro per lo
Sviluppo, lo scorso luglio. Diceva così,
qualche mese fa, chi a Roma conosce
bene il problema e chi, per anni, ha lavorato
sia con Francesco Rutelli che
con Walter Veltroni: “Qui si parla di
turni, non di rivoluzione e non di liberalizzazione.
Perché qui viene tutto stabilito
così: con un’ordinanza, con una
decisione dall’alto; e questo non significa
liberalizzare; significa imporre
qualcosa; significa che ciascuno può fare
il turno che vuole: e questo, purtroppo,
vale per il taxi come per il resto.
Perché il taxi sarebbe la cosa più semplice
da rivoluzionare. E se vogliamo
entrare nel dettaglio, a Roma, così come
a Milano, l’unica cosa che la legge
può modificare è questa: è che il titolare
può mettere alla guida della sua
macchina un dipendente, ma solo nel
caso in cui ci sia un turno aggiuntivo;
qui però, per i taxi, si tratta semplicemente
di piccole aggiunte fatte ai turni
esistenti; turni che, tra l’altro, quasi sicuramente
verranno gestiti dai titolari
attuali. E cosa avrebbero liberalizzato
dunque?”. Così è andata. E i taxi sono
solo un esempio di rivoluzionaria liberalizzazione
annunciata e non percepita.
Del prezzi più alti e meno concorrenza.
E per di più, almeno a Roma,
l’aumento era stato già previsto, quasi
sei anni fa; così come era stato previsto
che più licenze sarebbero arrivate solo
con i prezzi un po’ più alti. Suona un po’
male, no? Certo, qualche vettura in più
c’è davvero: ma il rapporto tra numero
di vetture e numero di abitanti rimane
questo: 2,1 taxi per ogni mille romani e
1,6 taxi per ogni mille milanesi. E a
Londra? 8,3. E a Barcellona? 9,9. Liberalizzare,
si diceva. Più servizi, più concorrenza,
più libertà, più scelta, prezzi
più bassi, più opportunità di lavoro.
“Non si torna indietro”, spiegava Francesco
Rutelli a metà del 2006. E’ andata
davvero così? E’ stata percepita davvero
la “rivoluzione”?
Raccordo anulare, ventitré e dodici
minuti tassametro off, Rolling Stones,
“Exile On Main Street”: oggi tariffa fissa
40 euro, ieri tariffa non fissa, dieci
euro. Il taxi. Le liberalizzazioni. Riprende
Luigi. “Perché? Perché accanirsi
così su di noi, perché accanirsi
sul taxi? E il resto? E gli aeroporti, le
stazioni, le strade, i telefonini? Perché
tu scendi dal treno, accendi il telefonino,
prenoti un aereo, chiudi un conto
in banca, fai benzina e ti senti così: ti
senti come se un medico ti avesse promesso
un elisir di vita eterna e poi nella
boccettina ti ritrovi un po’ di cianuro.
Sì, ci sarebbe la storia del telefonino.
Certo, è solo un esempio ed è vero,
hanno tolto il costo della ricarica. Ma
poi? Ma poi succede che ti arriva un
sms sul cellulare. Succede che ti tagliano
i costi di ricarica, e poi? Poi così,
all’improvviso, il gestore ti informa
che ‘aumenteranno le tariffe’. Aumenteranno
le tariffe? E tu che fai? Cambi
gestore? Chiami il numero verde? Cerchi
un altro telefono? Fai causa al gestore?
No. Ti attacchi, è naturale”. Telefonini,
dunque. Dallo scorso cinque
marzo Tim, Wind, Vodafone e Tre sono
state costrette a eliminare il costo fisso
della ricarica. Il risparmio? Da uno
a cinque euro per ogni erogazione.
Con un ma. Il ma è che con “un preavviso
di trenta giorni” le compagnie
possono “attuare” una “modifica contrattuale
concedendo al cliente il solo
diritto di recesso”. Detto e naturalmente
fatto. Gli aumenti, tra tariffe,
collegamenti ai portali mobili, scatto
alla risposta, vanno dal dieci al venti
per cento. Impossibile prevederlo? Così
così. Ventotto gennaio del 2007, dichiarazione
del presidente dell’Antitrust
Antonio Catricalà: “Mi auguro
che le tariffe telefoniche, che un po’
saliranno, non aumentino così tanto da
sminuire il vantaggio”. Un po’ saliranno,
diceva Catricalà. E un po’, va detto,
erano davvero scesi i costi: del 14 per
cento secondo i dati Istat di giugno.
Poi, però, i costi sono saliti ancora. Ed
è andata così per i telefoni, così per i
taxi, così un po’ anche per le farmacie.
E il trucco, in fondo, si trova anche qui.
Perché i farmaci, finendo sui banchi
dei supermercati (“vendita dei medicinali
da banco al di fuori dalle farmacie”,
si legge nel decreto Bersani) potrebbero
portare a un risparmio totale
di 150 milioni di euro all’anno e a un
abbattimento dei costi del 20 per cento
circa. Ma quanti sono gli esercizi
commerciali dove si trovano i farmaci,
davvero? Millecentoquarantotto in
tutt’Italia, come scritto nell’ultimo rapporto
pubblicato a settembre dal ministero
dello Sviluppo economico. Meglio
di niente, ma non granché. Il problema
però si trova anche qui. Come
ricordato qualche mese fa in una lettera
a Repubblica dal deputato della
Rosa nel Pugno Sergio D’Elia, uno dei
punti più importanti in questa liberalizzazione
era ed è quella che si riferiva
ai farmaci “di fascia C”, cioè ai farmaci,
si chiamano così, “generici”. Doveva
funzionare in questo modo: i nomi
commerciali dei prodotti dovevano
sparire dalle ricette e i medici avrebbero
dovuto indicare, sulla ricetta, non
il farmaco ma il suo principio attivo; e
in questo modo i farmaci sarebbero
stati scelti non tanto per il nome, quanto
per il prezzo. Ecco, così non è andata,
sulle ricette troveremo ancora i nomi
dei soli farmaci, e la manifestazione
organizzata dai farmacisti lo scorso
lunedì – contro la liberalizzazione – è
stata dunque annullata. “Davvero un
paese che non riesce a liberalizzare la
distribuzione del farmaco, sarà in grado
di separare Snam da Eni o di privatizzare
le fondazioni bancarie”, si
chiede Alberto Mingardi dell’istituto
ultraliberista Bruno Leoni.
Raccordo anulare, uscita numero
uno, Aurelia-Città del Vaticano. Venti
euro ieri, quaranta oggi. Un tassista non
liberalizzato e le liberalizzazioni che in
fondo in fondo tanto liberalizzate non lo
sono state proprio. Sono le ventitré e
quindici minuti. “Non so, ma quando
guardi i giornali a volte non capisci. Ma
come è possibile che, in quanto?, tre,
quattro, cinque anni, lì sulla Manica
hanno fatto un buco dove passa un treno
che ti porta da Londra a Parigi in
due ore mentre qui, da dieci anni, si
parla di quella roba lì; della Tav, dei treni
lenti, dei ritardi, dei prezzi che salgono
e di quei cazzo di no Tav che non si
capisce che vogliono, lì in Piemonte. E
uno apre qui i giornali e che vede? Vede
i treni che arrivano in ritardo, vede i
treni che costano di più, vede i ponti
che non si fanno, vede gli intercity che
vanno più lenti dei taxi e vede i telefonini
che dovevano costare di meno e
che ora, invece, semplicemente costano
di più. E lo vedi, tu: perché parti dall’aeroporto,
arrivi alla stazione, viaggi in autostrada,
parli al telefonino e non te ne
frega nulla né di partiti, né di fusioni,
né di niente. Il partito lo voti una volta
ogni cinque anni, il telefonino lo usi
una volta ogni due ore, la macchina la
prendi una volta al giorno, il treno lo usi
una volta al mese. Cos’è più importante?
Cosa mi costa di più? Cosa mi interessa
di più? Parlare di un partito nuovo
o arrivare in due ore a Londra?”.
Due ore, cinque virgola nove miliardi di
sterline investite, 299 chilometri orari di
media. E qui invece la Tav. “L’obiettivo
è stato raggiunto”, spiegava qualche
giorno fa il ministro Antonio Di Pietro,
parlando di treni, di Tav e dei 671 milioni
stanziati dall’Unione Europea per finanziare
il progetto della Torino-Lione;
già presentato undici anni fa dal governo
di centrosinistra e che, se si farà, si
farà non oggi, non domani, ma tra quattro
anni: quindici anni per una ferrovia.
Semplice. Quando invece, nel pacchetto
Bersani, tra le tante cose, tu leggevi
anche questo: “Apertura al mercato del
settore ferroviario”, “separazione fra
autorità regolatrice e gestore della rete”,
“efficiente gestione della stessa rete”,
“allocazione non discriminatoria
della capacità di rete e dei terminali”.
Efficiente gestione della rete, dunque.
E poi, anche qui: i costi. Un esempio.
Dal prossimo nove dicembre le tariffe
sulle tratte regionali dei treni italiani
aumenteranno del dieci per cento. Il
quotidiano la Stampa ha fatto questi
calcoli: da Bologna a Bolzano, in prima
classe, si passerà dai 16,80 euro di oggi
ai 27,95 di domani. In seconda classe dai
12,90 di ieri si passerà ai 18,80 di domani.
Dieci per cento di aumenti oggi, il
dieci per cento in più già dallo scorso
gennaio e il cinque per cento di aumento
previsti tra il 2009 e il 2011: quando in
Germania i treni probabilmente faranno
concorrenza agli aerei e quando qui,
a Torino, si parlerà ancora di buchi nelle
montagne e quando l’Economist, come
fatto tre mesi fa, parlerà ancora di
una “new era of international rail travel”
dove Svizzera, Belgio, Germania,
Austria, Olanda e Francia si metteranno
lì a tavolino per disegnare il futuro
del trasporto ferroviario del continente
e per progettare un “high speed revolution”
con i treni che “faranno concorrenza
agli aerei” e le ferrovie che, privatizzate,
diventeranno sempre più low
cost: ecco, l’obiettivo – come dice Di Pietro
– sara stato pure “raggiunto”, ma l’Italia,
nella era of revolution, semplicemente
non c’è.
Chilometro numero diciannove, via
Baldo degli Ubaldi, tassametro off, 26
euro ieri, 40 euro oggi. Musica dei Planet
funk, voce di Dan Black. Treni, taxi,
farmacie, telefonini. Il tassametro è
bloccato. Luigi: “Cioè. So du anni che
me pare che ‘r gobbo vede la gobba dell’artri
gobbi, ma nun riesce mai a trovasse
la sua. I problemi sono sempre gli
altri: sono i tassisti i problemi, non i politici;
mai uno, chessò, che dica ‘abbiamo
sbagliato’. Certo, tu ci pensi un attimo
e un po’ ci fai caso; perché chi sale
qui in macchina capita spesso che ti
parla di queste cose e che si, magari a
telefono, magari ad alta voce, magari
con qualcuno a bordo, arriva si chiede
che fine ha fatto Telecom? Che fine ha
fatto Alitalia. Sì. Che hanno fatto?
L’hanno privatizzata? L’hanno vennuta?
E a chi va? E su che aerei viaggiamo?
Di chi sono? E ora: che succede? Scioperano,
non scioperano. Boh. E poi, altra
promessa: e il mutuo? Ecco, il mutuo.
Che storia è questa? ‘Trasportabilità’,
m’avevano detto, giusto? Trasportabilità
gratuita dei mutui, m’avevano
giurato. Bene: a me, per spostarlo, il
mutuo, me l’hanno fatto pagare. Rispondetemi.
Come mai?”.
Ad aprile, nella lenzuolata firmata
da Pierluigi Bersani, si legge anche
questo: “azzeramento dei costi per i
sottoscrittori dei mutui che vogliono
passare da una banca a un’altra per ottenere
migliori condizioni”. Lo scorso
cinque novembre è successo che l’Abi
– l’Associazione bancaria italiana – si è
rifiutata “di affrontare il problema dei
costi”. Ora, la stessa Abi, ha “suggerito
che i costi di portabilità dei mutui dovranno
essere a carico della banca subentrante”.
Si suggerisce. Si rimanda.
E si aspetta ancora un po’, per quella
rivoluzione per quel terremoto che
avrebbe travolto negozi, trasporti, farmacie,
barbieri, benzinai, parrucchieri,
ferrovie, aerei, banche, mutui, carburanti,
imprese, commerci, professioni,
avvocati, farmacisti e naturalmente
tassisti, quella rivoluzione che, come
spiegava Romano Prodi, avrebbe
“cambiato la vita degli italiani” e che
invece, cinquecento giorni dopo, se ne
va in giro con i taxi che costano di più,
con i treni che costano di più, con i farmaci
che un po’ ci sono e un po’ no e
con una tariffa, quella del taxi, che da
Fiumicino a Roma centro, prima della
rivoluzione, costava trentadue; e oggi
invece costa quaranta.
Claudio Cerasa
24/11/07

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