Gre, No, Li, e poi Rivera, Ancelotti, Pruzzo, Capello, Baresi, Maldini, Conti e ora Totti. Era naturale, quasi automatico: la squadra saliva, quattro rimanevano indietro, quattro si fermavano al centro e due lì, che aspettavano davanti. Era la Roma, il Milan, la Fiorentina, il Varese, il Monza, il Verona, erano gli ottantacinque anni di Nils Liedholm, il maestro, morto ieri, con cui il Milan vinse lo scudetto della Stella: il decimo, quello con il rosso del diavolo e quello con gli occhi del Barone. Era la maglietta giallo, rosso e Barilla di Bruno Conti, quella della Roma del 1983, del primo anno dopo il Mondiale spagnolo e dell’anno della Coppa Campioni all’Olimpico persa sul dischetto con i diavoli del Liverpool; quella Roma con cui Liedholm vinse lo scudetto e che l’allenatore svedese avrebbe ritrovato nel 1996 con i vent’anni e i capelli corti di Franceso Totti. Era Nils Liedholm, era la zona disegnata senza lavagne, senza gessetti, senza uomo da seguire, era la rivoluzione con quel dribbling che non era mai un peccato, con il fantasista che doveva fare il quarto in difesa e che Liedholm invece no, prima della partita lo fermava, lo prendeva e gli diceva sì, tu giochi al centro, giochi un po’ più avanti. E lo faceva con Di Bartolomei (alla Roma) e lo avrebbe fatto, oggi, anche con Andrea Pirlo, al Milan. “Lo guardavi e tremavi. Poi però sorrideva – dice Roberto Pruzzo, bomber della Roma di Liedholm dal 1980 al 1984 – Ero io che la sera lo riaccompagnavo a casa in macchina: e lui era sincero, ti difendeva sempre, aveva un grande ascendente sulla stampa, si divertiva molto con quel suo accento che sembrava sempre così poco italiano. Era il suo stile, aveva cambiato il calcio con la qualità e senza catenacci. Era anglosassone, scopriva i talenti. Scoprì Falcao, scoprì Cerezo, e ne scoprì tanti, scoprì anche me; ed era bello, perché allenava semplicemente con lo sguardo”.
“Non lo vedevi ma lo sentivi”
Diceva così, diceva ancora forza Roma, forza Milan il “Li” del Gre-No-Li; era arrivato in Italia dalla Svezia, era arrivato al Milan con Gunnar Gren, Gunnar Nordahl, erano loro i Tre; tre come gli olandesi Gullit, Van Basten e Rijkaard, tre come quei capitani del Milan passati accanto al Barone Nils: quindi Rivera, Baresi e Paolo Maldini. Sembrava qualcosa di più però, Nils. “Era impressionante. Lo guardavi e aveva qualcosa di più. Era il grande capitano del Milan, era il fenomeno con quella fascia grande grande, era il campione che inventava campioni, era quello che tu guardavi e lui non parlava, ma ti dava sicurezza; non lo vedevi ma lo sentivi. E tu crescevi, e lui ti spiegava. Dolce, non duro. Sembrava un vescovo. Allenava, insegnava. Nils giocava con noi, scendeva in campo con i giocatori: si allenava, tirava in porta, poi esultava. Eravamo il Milan, eravamo una squadra: allenatore e giocatore. Tutti insieme. Era così anche a Firenze. E lui non era come qualcun altro oggi: non era uno che metteva un terzino a centrocampo, o un’ala in difesa. Lui conosceva i ruoli, e li rispettava. Al massimo li inventava, i ruoli. Perché il libero vero è quello che fu fatto da Liedholm: ed è vero, con lui c’era anche molta libertà: se c’era un dribbling si sorrideva, non ci si arrabiava. E poi mai un errore, mai un problema, mai uno scandalo, lui. Era la zona, quella di Nils, ma sembrava la rivoluzione”, dice al Foglio Nevio Scala, scoperto a Milanello nel maggio del 1963 proprio da Liedholm e suo grande allievo in quegli indimenticabili sei anni passati da Scala come allenatore del Parma.
Il vescovo. Il maestro. Entrava così, con il pallone sotto braccio, con i capelli tirati indietro, con la testa alta, gli occhi giù in basso, le gambe lunghe, il sorriso, la maglia col collo a V. Funzionava così, in campo con Nils. “Sapevano come muoverci, ma dovevamo decidere noi in campo. Perché noi eravamo diventati professionisti per scelta, non per obbligo. E Nils voleva i piedi buoni, i passaggi, le marcature non fisse, il possesso palla. Ma soprattutto, in campo, voleva allenatori”, scrive Gianni Rivera nell’introduzione del libro “Nils Liedholm e la memoria lieve del calcio”. Perché Liedholm ha attraversato la prima e la seconda repubblica del pallone rimanendo sempre l’allenatore più antico: quello che ha inventato un calcio quasi impossibile, con quindici tocchi a centrocampo, con i passaggi fitti fittti e con un calcio con cui – da allenatore – ha vinto in fondo solo uno scudetto a Milano e uno a Roma. Ma è questo il calcio poi ereditato da Arrigo Sacchi, da Capello, da Anceleotti. Il calcio veloce, quasi impossibile di Zeman, il calcio con la squadra che saliva, i quattro indietro, i quattro al centro e quei due lì davanti e con quella rivoluzione così antica che anche ora che è scomparso, Nils continuerà a inventare il pallone del futuro, ancora per un po’.
Claudio Cerasa
6/11/07
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento