martedì 27 novembre 2007

Il Foglio. "Northern Rock ‘n’ Roll".

La banca inglese finita al tappeto per i subprime trova un salvatore. E’ Branson, il re della Virgin, delle mongolfiere e del bungee jumping. Tra aerei e Sex Pistols fa una cosa quasi inaudita da noi: mette i quattrini

Londra. L’ultima volta che aveva promesso di non farlo più, Richard Branson aveva quarantasette anni, aveva rischiato di morire due volte e aveva già trasformato il suo impero musicale della Virgin in un’azienda che dai dischi dei Sex Pistols arriva oggi fino agli sportelli della Northern Rock. E ogni volta, sir Branson, il grande colpo lo anticipa così: salendo in cielo con la mongolfiera, ieri; scendendo giù con il bungee jumping, oggi. E’ andata così negli anni Novanta, quando Branson, dopo aver fondato la sua casa discografica, annunciava i suoi affari con pomeriggi di sport estremo. E’ andata così oggi, con Branson che a 57 anni, dopo essersi lanciato giù da un palazzo di Los Angeles, è diventato il possibile salvatore della Northern Rock: la banca inglese che più di tutte ha rischiato di finire al tappeto dopo la crisi estiva dei subprime e dopo quel crollo del 39 per cento (18 settembre) che costrinse la Bank of England a prestarle 24 miliardi di sterline.
Ieri è stato il giorno della svolta: la banca inglese ha detto “sì” alla sua offerta. Branson controllerà il 55 per cento dell’istituto di credito, con un aumento di capitale previsto di 1,3 miliardi di sterline, e il titolo della Northern ha fatto un balzo del 38 per cento. Ha deciso il nuovo nome della banca (sarà assorbita da una sua società finanziaria, Virgin Money), il nuovo capo esecutivo (sarà Anne Gadhia, attuale vertice di VM) e invece che appoggi o garanzie politiche – come si farebbe da noi per entrare in una banca, per quanto semifallita – l’imprenditore inglese ha offerto agli azionisti della Northern l’unica cosa che le serviva davvero: quattrini.
Soldi che Branson ha cominciato a incassare oltre trent’anni fa, nel 1970, quando in un negozio di sessanta metri quadrati all’incrocio tra Oxford Street e Tottenham Court Road (a Londra) iniziò a vendere dischi per corrispondenza e cominciò a mettere da parte quelle sterline con cui, pochi anni dopo, fece la sua prima mossa, producendo il suo primo disco: Mike Oldfield, “Tubular Bells”, vendette cinque milioni di copie. Fu da quel giorno che decise di investire sul brand Virgin. E’ diventato uno degli inglesi più amati al mondo (qualcuno lo vorrebbe come sindaco di Londra), ha colorato di rosso Virgin treni, aerei, bibite, tv, sport center e soprattutto radio. E’ un tipo molto simpatico, Branson. Si finanzia da solo di solito. Prima di investire in una nuova operazione, lo dice lui, preferisce “vendere piuttosto che ricevere soldi in prestito” (la casa discografica la cedette, piangendo, nel 1992) e c’è chi continua a chiamarlo sia il capitalista hippy (per via dei capelli lunghi e per il suo passato un po’ ribelle, finì anche in carcere per una notte) sia lo Steve Jobs del megastore. Si fa intervistare con i calzini bucati (è successo con il Times), si fa accompagnare dai genitori alle conferenze stampa, vestito da uomo ragno, da cow-boy o da pirata. E’ legato ai labour da una vecchia conoscenza con Blair (si dice sia stato il primo ad arrivare alla festa quando divenne premier), ha conosciuto Brown, ha attaccato più volte Murdoch e il suo impero (“un pericolo per la democrazia”, lo definì un paio di anni fa). Luca Valotta, il direttore generale di Virgin Active Italia, racconta al Foglio che Branson, oltre ad aver creato una specie di merchant bank, “ha anticipato di parecchi anni sia il modello culturale del low cost di Ryan Air sia il modello un po’ friendly senza cravatta e senza camicia di Steve Jobs”. E Jobs, due anni fa per una campagna Apple che cercava l’identificazione con i volti più importanti del XX seolo, accanto al Mahatma Ganhdi, ad Albert Einstein e Martin Luther King scelse proprio la faccia un po’ a forma di brand di Richard Branson.
Claudio Cerasa
27/11/07

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