“Il governo ci ha regalato lavoro nero
legalizzato”.
Piazza San Giovanni, Roma, manifestazione sabato 20 ottobre, contro il precariato
legalizzato”.
Piazza San Giovanni, Roma, manifestazione sabato 20 ottobre, contro il precariato
Sono diventato precario il tre gennaio
del duemilasette, un mese prima di
ricevere la mia prima busta paga stampata
su un foglio bianco in formato A4,
con le caselle orizzontali occupate da
una serie di numeri progressivi con ore
lavorative, giorni retribuiti, posizione
Inail, ferie godute, ritenute, competenze,
detrazioni, imponibili e altre undici
voci – di sicura importanza – ordinate
sotto un piccolo timbro blu dell’Istituto
nazionale per l’assicurazione contro gli
infortuni di lavoro. Sono diventato precario
a ventiquattro anni sette mesi e
due giorni, con uno stipendio né troppo
basso né troppo alto, con un contratto a
tempo determinato né troppo corto né
troppo lungo, che un tempo si chiamava
cococo che oggi invece si chiama cocopro
– o contratto a progetto, se volete – e
che nel corso degli anni, gli ultimi quattro
in particolare, è diventato il simbolo
di una legge firmata nel febbraio del
2003, scritta da Marco Biagi e approvata
dal ministro del Welfare del governo
Berlusconi, Roberto Maroni; una legge
che qualcuno vorrebbe abrogare, qualcun
altro vorrebbe cambiare e qualcuno
altro ancora vorrebbe semplicemente
dimenticare; una legge accolta con vivacità
da Eugenio Scalfari, nel giugno
del 2003 (“crescerà una generazione dura,
egoista, ansiosa, nevrotica e malvissuta”,
scriveva il Fondatore) e diventata
ora equivalente, quasi sinonimo di
frasi come “giovani in difficoltà”, “mercificazione
del lavoro”, “flessibilità da
pezzenti”, “occupazione usa e getta” e
soprattutto “precarietà”. Precarietà,
precarietà, precarietà. No alla precarietà.
No a una vita da precari. No ai nostri
figli precari. No. No. No.
Sono diventato precario dopo tre anni
di università, dopo uno stage di due mesi
in un giornale sportivo, dopo uno stage
di tre mesi in una tv regionale, dopo
due mesi di stage per un sito Internet nazionale
e dopo un anno di stage trascorso
nel giornale per cui scrivo oggi. E lo
sono diventato pochi mesi prima che
Francesco Caruso si convincesse che
Marco Biagi e Tiziano Treu fossero “armatori
degli assassini”, pochi mesi prima
che il governo rischiasse di cadere
proprio sul pacchetto welfare (e sui contratti
di lavoro) e pochi mesi dopo l’ultimo
appello elettorale di Romano Prodi,
del 7 aprile 2006, quando il futuro premier
sosteneva che “la Biagi impedisce
a una generazione di progettare il futuro”
e quando io, sette mesi dopo, diventando
effettivamente “precario” con un
fantastico contratto a termine, avrei scoperto
– come centinaia di migliaia di ragazzi
in giro per l’Italia – che la precarietà
così, così come la si intende, così
come la si vende, non c’è, non esiste, è
una farsa, un mito, un imbroglio, semplicemente
una truffa. Semplicemente una
grandissima balla: una bugia costruita
con l’aiuto di un’equazione un po’ truffaldina
che come per magia ha fatto diventare
la parola “flessibilità” sinonimo
di “precarietà”, “mercificazione”, “occupazione
usa e getta” o “vita da pezzenti”.
Sono sinonimi? Sono davvero la stessa
cosa? No, naturalmente; sono cose molto
diverse: perché quando si parla di
“precarietà” non si parla di uno status
lavorativo, non si parla di uno status giuridico,
si parla più che altro di una percezione,
di una sensazione o di un’idea
di instabilità diffusa; perché lo stesso
contratto, lo stesso identico tipo di foglio
formato A4, con le caselle orizzontali e
con le ore lavorative, i giorni retribuiti,
la posizione Inail, le ferie godute, le ritenute,
le competenze, le detrazioni, gli imponibili,
in Svezia, in Inghilterra, in
America, in Spagna, in Francia è semplicemente
considerato un lavoro e in Italia,
chissà perché, sembra essere quasi
un delitto. E lo capisci così, lo capisci
quando prendi le forbici, apri il tuo contratto,
e poi lo tocchi, lo guardi, lo sottolinei,
lo poggi sul tavolo, lo metti nel cassetto:
e che sia di una settimana, di un
mese, di due mesi, di un anno o poco più,
fa lo stesso; perché, molto banalmente,
l’alternativa sarebbe non averlo proprio;
perché l’alternativa sarebbe stare fuori,
non dentro; perché l’alternativa non sarebbe
“occupato”, sarebbe quella con le
tre paroline davanti: “dis” e poi “occupato”.
E ha ragione il senatore di Forza Italia
Maurizio Sacconi quando dice al Foglio
che “precariato e apprendistato preludono
a un rapporto di lavoro stabile,
prevedono un investimento”. Molto spesso
è proprio così. E’ un’opportunità, è il
poter avere una possibilità quando al
contrario potresti dire soltanto un’altra
cosa: “No”. E questo non vuol dire che
non ci siano situazioni precarie o che
non ci siano lavoratori in difficoltà, è evidente.
Ma dire “a termine”, e poi pensare
“precario” è semplicemente una bugia.
E te ne accorgi quando compri il
giornale, quando compri per esempio
Repubblica, quando guardi la prima pagina,
e ne sfogli una, ne sfogli due e arrivi
a pagina sette; e leggi. Leggi (era il 20
ottobre 2007) che “l’esercito dei precari
è a quota due milioni”, poi guardi in alto,
guardi a destra e trovi un grafico molto
grande con una linea nera che va su,
su, su e da sinistra a destra attraversa come
una diagonale tutto il diagramma, e
poi ti ritrovi un rettangolino piccolo piccolo,
dove leggi qualcosa; e tu capisci tutto,
capisci l’inganno e capisci che si scrive
“esercito di precari” ma si legge, anche
qui, semplicemente “contratti a tempo”.
Il discorso è più o meno questo: ci
sono più contratti e quindi c’è anche più
precariato. Suona un po’ male, no? E
suona un po’ male anche perché se da
un lato c’è chi vorrebbe far credere che
il contratto a termine sia ormai la prassi,
dall’altro c’è anche chi ancora non capisce
che non solo questa non è la prassi
ma che il problema che rende il nostro
mercato del lavoro così fragile rispetto
a quello di molti altri paesi europei
è che i contratti a termine sono –
cioè, siamo – per giunta pochi pochi.
Troppo pochi. Quanti? Vediamo.
Nella fascia di età compresa tra i 15 e
i 24 anni, i contratti a termine (l’anno di
riferimento è il 2006) toccano il 40,3 per
cento dei contratti complessivi. Tanti?
Non esattamente; perché la differenza
con gli altri paesi precari, contenti e meno
brontoloni è davvero impressionante,
come si legge anche tra le righe del libro
di Angela Padrone, “Precari e contenti”
(Marsilio Editore): 9 punti in meno rispetto
alla Francia, 26 (ventisei) punti in
meno rispetto alla Spagna e 16,8 punti
percentuali in meno rispetto alla Germania.
E fosse solo questo il punto. Il
punto, invece, è che i contratti a tempo
determinato rimangono pochi anche se
ci spostiamo sul totale dei lavoratori a
tempo determinato in Italia. Esempio:
sapete quanti sono quelli che chiamano
i “precari” in Italia? Sono quasi il 13 per
cento degli occupati totali, sono poco
meno di quelli che si trovano in Francia,
13,8, e quasi un terzo di quelli che si trovano
in Spagna, 34,4 per cento. E per chi
volesse annoiarsi un po’ è dai dati precisi,
è dalla scomposizione di quel 13 per
cento da cui si comprende come i contratti
puri a tempo determinato siano
una percentuale ridicola nel mercato
del lavoro, purtroppo; perché tra il 2,9
per cento dell’apprendistato, il 4,7 per
cento dei contratti di formazione, lo 0,4
per cento di quelli a inserimento resta
un totale – nientemeno – del 5,7 per cento
di contratti a tempo determinato. Cinque
punto sette: il dato dei precari è
questo, e c’è poco da discutere. E un po’
strano, dunque, che un governo così europeista,
il cui premier è un ex presidente
della Commissione europea e il
cui ministro dell’Economia è un ex
membro del board della Banca centrale
europea, non stia lì a rivendicare un importante
accordo firmato nel 2000 a Lisbona.
Un accordo molto, molto europeo
che – come naturalmente ricorderanno
Romano Prodi e Tommaso Padoa-
Schioppa – aveva fissato l’asticella del
tasso di occupazione a quel 70 per cento
da raggiungere entro il 2010. Ma non solo.
Perché proprio l’accordo di Lisbona,
pubblicato all’inizio della presidenza
Barroso, fu poi revisionato con un successivo
rapporto – il rapporto Kok – fortemente
voluto dall’allora presidente
della Commissione europea: Romano
Prodi, naturalmente; che anche per questo
dovrebbe quindi ricordare che quella
legge Biagi che (come detto il 7 aprile
del 2006 dallo stesso Prodi) “impedisce
a una generazione di progettare il futuro”
è anche quella legge che ha portato
il tasso di occupazione al 58,9 per cento;
quella legge che ha permesso al Consiglio
nazionale dell’economia e del lavoro
di scrivere, nel suo ultimo bollettino
pubblicato a settembre, che “il numero
dei lavoratori temporanei ha ormai raggiunto
livelli quasi il doppio del numero
dei disoccupati”; quella legge che ha
fatto scendere la disoccupazione dall’8,2
per cento del 2005 al 5,7 per cento del
2007. (I dati sono tutti riportati all’interno
degli archivi dell’ADAPT/ Fondazione
Marco Biagi e del Centro Studi Marco
Biagi diretto dal giuslavorista Michele
Tiraboschi, da molti considerato come
uno degli eredi dello stesso Biagi).
Ecco, dire no ai contratti a tempo indeterminato,
o quanto meno volergli
mettere la museruola, significa non capire
che la stabilità non può essere e
non ci può essere garantita per legge;
perché il diritto al lavoro è un conto, il
diritto al lavoro indeterminato è un altro;
e sulla Costituzione non c’è mica
scritto che “la Repubblica riconosce a
tutti i cittadini il diritto al lavoro a tempo
indeterminato”, visto che sarebbe un
po’ come incontrare una ragazza bellissima
e poi guardarla, avvicinarla, osservarla,
presentarsi da lei con un foglio in
mano e chiederle di sposarti prima ancora
di averle dato un bacio, e poi incazzarsi
se quella prende e ti dice di no. Sarebbe
un po’ strano, no? Mica si vorrà
chiedere a una ragazza di fidanzarsi o di
sposarsi solo perché si è uomini potenzialmente,
diciamo, occupabili. Giusto?
“C’è un altro punto però che andrebbe
spiegato meglio – spiega al Foglio il
presidente della Commissione attività
produttive della Camera, Daniele Capezzone,
ideatore del network Decidere
– E’ che la precarietà, così come ce la
raccontano, non esiste. Perché? Perché
da quattro anni siamo l’unico paese che
in Europa registra un costante incremento
dei tassi di occupazione e una significativa
contrazione del lavoro precario,
quello vero. Da quattro anni! Non so
se è chiaro. E questo perché l’obiettivo
del mercato del lavoro è in effetti quello
di includere, includere, includere, e
dare modo alle persone che si trovano ai
margini della società di trovare un’occupazione.
Includere, non escludere. Semplice,
no?”. Funziona così: si lavora di
più, si assume di più. Sarà mica per questo,
sarà mica perché i contratti a tempo
determinato funzionano, funzionano benone
che il sindaco di Bologna, Sergio
Cofferati – che ai tempi della segreteria
della Cgil la parola più elegante che
aveva trovato per definire il Libro Bianco
di Marco Biagi fu “limaccioso” – ha
deciso di applicare all’interno del suo
Comune la “limacciosa” Biagi anche per
i contratti dell’amministrazione pubblica,
di per sé non previsti nel pacchetto
votato nel 2003? Sarà mica per questo
che il politico più alto in grado due sabato
fa a Piazza San Giovanni – Nichi
Vendola – nell’aprile del 2006 si è ritrovato
una sentenza su carta intestata della
Consulta che faceva notare al governatore
della Puglia come non applicare
la legge Biagi e non utilizzare le norme
sull’apprendistato previste dalla legge
30 semplicemente non sia costituzionale?
Chissà, magari è soltanto una coincidenza,
magari no: ma secondo i dati pubblicati
a metà ottobre dall’Eurostat, tra
tutte le regioni d’Europa quella che “più
di tutte penalizza l’inserimento dei giovani
e delle donne nel mercato del lavoro”
è proprio la Puglia del compagno governatore;
che forse, più che continuare
nella sua crociatina contro i contratti a
termine e contro la Biagi, dovrebbe spiegare
alla sua piazza che se il “governo ci
ha regalato lavoro nero legalizzato”,
cioè se il governo (quello precedente,
però) ha fatto scendere il lavoro in nero
a quota quattro milioni, quel governo lo
si dovrebbe semplicemente ringraziare,
e non attaccare. E invece no.
E invece il ministro della Solidarietà
sociale, Paolo Ferrero, continua a ripetere
che in Italia ci sono “trenta milioni
di famiglie precarie” (Repubblica, 30
settembre 2007), i giornali continuano a
titolare con “il precariato dà forza alle
mafie” (Orazio La Rocca, Repubblica,
20 ottobre 2007) e Pecoraro Scanio continua
e continuerà a proporre i suoi
“young day contro il precariato”. E si
capisce, perché il “precariato” è una
parolina che fa sempre comodo; perché
dire “precariato” (cosa diversa dal dire:
“precarietà lavorativa”) è come dire “la
pace è bella”, “la povertà è brutta”, “le
malattie sono cattive”, “la palla è rotonda”,
ed è difficile trovare qualcuno che
ti fischi o qualcuno che ti dica no, la pace
è brutta, la povertà è bella, il precariato
mi piace; ed è molto facile trovare
qualcuno che ti ricopre di applausi se
tu stai lì a ripetere per cinque volte in
un monologo di due ore la parola “precarietà”,
come successo anche a Walter
Veltroni al Lingotto di Torino. Un po’
meno facile è invece dire cose come
queste, dire che “ignorare le richieste
di modernizzazione provenienti dall’Europa
sarebbe in fondo una scelta
egoistica propria di chi pensa a se stesso
e non immagina un futuro migliore
per i propri figli”, come scritto sul Sole
24 ore da Marco Biagi il 19 marzo del
2002, poche ore prima di essere ucciso
dalle Brigate rosse con tre colpi di pistola
alla nuca.
E se il problema fosse un altro? E’
soltanto un caso che politiche come
quelle sul lavoro pensate per chi ha tra
i 20 e i 25 anni funzionino meno bene
per chi di anni ne ha 30 o 35? E’ soltanto
un caso che in regioni come la Basilicata,
il Molise, la Puglia e la Sicilia, nei
vari contratti di formazione lo status di
“giovane” sia stato esteso da 32 a 45 anni,
come scritto da Maurizio Sacconi e
Michele Tiraboschi nel libro, edito da
Mondadori, “Un futuro da precari?”. E’
solo un caso che se tu lavori a 25 anni in
Italia ti dicono: “Ma scusa? Così giovane
e già lavori?”. Probabilmente no, non è
solo un caso. E non è nemmeno troppo
difficile capire il perché, visto che in
Italia il periodo di transizione tra scuola
e lavoro è ben al di sopra della media
europea (undici anni contro sette), visto
che il 22,4 per cento degli iscritti all’università
ha oltre 30 anni, visto che dei 200
mila laureati l’anno (in Italia) soltanto
uno su quattro tra loro trova davvero lavoro,
visto che nel nostro paese il 60 per
cento dei ragazzi tra i 25 e i 30 anni vive
ancora con i genitori (in Francia il 18
per cento, in Inghilterra il 13 per cento)
per il semplice motivo che tre su dieci
ancora studiano e quattro su dieci
“stanno bene così, per conservare la
propria libertà”, come scritto in una
lunga inchiesta riportata sul Sole 24
Ore, quasi due anni fa.
Non è dunque così difficile capire
che più si esce in ritardo dall’università
e meno si è disposti a essere flessibili, e
meno si è disposti a dire di sì a uno stage
o a un apprendistato o magari a un
piccolo contrattino. Ed è anche per questo
che il lavoro temporaneo è percepito
come “cattivo”, “sbagliato”, “ingiusto”;
perché pensi: “Ma come? Ho passato
sette anni all’università e ora mi
vogliono far perdere tempo con contratti
e contrattini del cazzo quando ormai
ho quasi trent’anni?”.
Ora, se proprio si vuol parlare “di
giovani”, se proprio si vuol parlare di
“lavoro”, di “welfare” e di “precariato”
più che ispirarsi a piazze rosse o a
young day, più che continuare a dire cose
come “siamo caduti nella precarietà
perenne” (Romano Prodi), “io so solo
che c’è un malessere profondo” (Franco
Giordano), “i lavoratori si sentono soli”
(Oliviero Diliberto), ecco: forse il modo
migliore sarebbe riprendere il discorso
fatto da Nicolas Sarkozy al Gran Meeting
dei giovani, in Francia. Era il 18
marzo del 2007: eccolo, Sarko. “Io sono
venuto a dirvi che non credo a una politica
dei giovani, ma che credo a una politica
che permette ai giovani di costruirsi
un avvenire che sia all’altezza
delle loro speranze e dei loro sogni. Io
sono venuto a dirvi che non voglio aiutarvi
a restare giovani il più a lungo possibile
ma a diventare degli adulti che
realizzano i sogni della loro giovinezza”.
E poi. “Non si rende servizio ai giovani
quando si fa loro credere che hanno tutti
i diritti, che tutto è loro dovuto, che
non è necessario fare nessuno sforzo”.
Ma è così difficile? E’ così difficile
capire che più contratti a termine significa
semplicemente più possibilità
di avere contratti non a termine? E’
possibile che sia così difficile capire
che essere “precari” sia uno dei modi
migliori per poi non esserlo più, “precari”?
Certo, detta così in effetti potrebbe
sembrare quasi un controsenso.
Ma come? Come fanno ad aumentare
i contratti a tempo indeterminato se
aumentano anche quelli a tempo determinato?
E allora tu ti ricordi di
averle già sentite, ti ricordi di averle
già lette queste parole; e quindi sfogli,
cerchi, riapri i giornali, torni al 2003,
ritrovi Repubblica, ritrovi Scalfari, ritrovi
l’editoriale del 6 giugno del 2003
(“Gli allegri cantori del lavoro flessibile”)
e leggi che con la Biagi “crescerà
una generazione furba e dura, egoista
e ansiosa, nevrotica e malvissuta”, leggi
che il “dilagare di queste figure contrattuali
avranno come conseguenze la
polverizzazione del mercato del lavoro,
lo sfarinamento delle rappresentanze
sindacali e un’ondata di precariato
diffuso a tutti i livelli in tutte le
dimensioni produttive”; quindi ci pensi
un po’, cerchi un po’ di dati e scopri
che, nonostante tutto, tra il 2003 e il
2007, negli anni della “mercificazione
del lavoro”, della “flessibilità da pezzenti”,
dell’“occupazione usa e getta”,
i contratti a tempo indeterminato sono
aumentati del 3,5 per cento e che le assunzioni
previste per il 2007 interesseranno
circa 840 mila persone, di cui il
45,4 per cento saranno impiegati stabilmente,
e il 42,6 invece a scadenza.
Ecco, poi torni di là; poi torni al Fondatore
e leggi ancora quelle parole e
leggi così: “Il ministro del welfare (Maroni)
si è addirittura arrischiato ad affermare
che il ‘decreto sulla flessibilità
provocherà una potente spinta
verso la stipula di contratti a tempo indeterminato,
che è come sostenere che
luglio sia il mese più freddo dell’anno”.
E in effetti quest’estate, a luglio,
non è che facesse proprio caldissimo.
Claudio Cerasa
03/11/07
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