mercoledì 7 febbraio 2007

Il Foglio. Le orecchie ricucite del Barone di Catania e le mischie che non non sono risse

Lo zio aveva una gamba spezzata. Ginocchio e menisco e rugby mai più, dicevano gli altri. Andrea era lì e lo guardava. Sei un pilone, tu sei un pilone, gli diceva lo zio. Andrea aveva appena iniziato a giocare a Catania. A diciassette anni la Nazionale minore, ora quella maggiore, sabato scorso ancora il Sei Nazioni. Lo zio aveva ricominciato subito con il rugby perché il rugby, ripeteva lo zio, non ha tempo da perdere con i menischi e con le gambe spezzate. Passano pochi anni, lo zio smette, dei due Lo Cicero resta soltanto il nipote. Resta Andrea, e non è poco.
Andrea Lo Cicero, ora, ha trent’anni, è uno dei rugbisti più famosi d’Italia, non ama il Super Bowl e sabato scorso ha perso con la Nazionale la prima gara dell’anno. Ma capita, nel rugby capita spesso, all’Italia capita un po’ troppo spesso, però mai un fischio, mai una contestazione. Si gioca, poi si perde, ma non si protesta. A fine gara, nel rugby, si applaude, si esulta, si piange, poi i tifosi bevono insieme con i poliziotti, gli italiani con i francesi, i francesi con gli scozzesi, i catanesi con i palermitani. Niente risse in campo e niente risse fuori. La rissa, se proprio arriva, sul prato si chiama mischia. Il rugby è così, non è come il calcio. Se giochi a rugby non cambi squadra perché tua moglie ti dice tesoro andiamo a Londra i nostri figli devono imparare l’inglese, oppure tesoro andiamo a Milano, con tutte quelle sfilate, oppure, amore mio andiamo a Madrid, sai che shopping che si fa laggiù. Nel rugby è un po’ diverso. Chi gioca a rugby pensa a qual è il posto migliore dove prenderne di più, pensa a qual è il posto migliore dove trovare una mischia, dove correre in meta, dove potersi fasciare un orecchio, stringere i denti, testa bassa, palla laterale, passaggio, scatto, meta, altro che shopping.
La differenza con il calcio è tutta qui. Pensi al gol più bello, al più grande di tutti, a quello che ha fatto la storia e pensi a Maradona contro l’Inghilterra, pensi a George Weah contro il Verona, pensi a Ronaldo con il Barcellona, al colpo di testa di Pelé, a Zidane nella finale di Champions; pensi a un gol e pensi a un giocatore, ma soltanto a uno, soltanto a lui. Si dice: ricordi quel gol di Maradona? Non si dice: ricordi quel gol dell’Argentina. Pensi al gol e pensi al goleador. Pensi alla meta e pensi alla squadra, al passaggio, al placcaggio, palla a destra, poi a sinistra, uno, due, tre, ancora placcaggio, mischia, scatto laterale, pochi secondi e palla in meta, altro che touchdown. Pensi alla squadra non al giocatore, pensi agli scatti non allo scatto, alle azioni, non all’azione. Pensi a Gareth Edwards, ai Barbarians e pensi agli All Blacks, non a un solo All Blacks. Pensi ad Andrea Lo Cicero, il Barone come lo chiama Paolo Cecinelli nel libro dedicato proprio al pilone catanese (Baldini Castoldi Dalai, 17.50 euro), pensi a lui ma non puoi non pensare anche all’Italia, allo Stadio Flaminio, alla squadra, allo spogliatoio, ai denti spezzati, le orecchie maciullate, la mischia, i caschetti, le orecchie ricucite dal chirurgo. Come quelle di Andrea.
Andrea Lo Cicero non ha una faccia da attore e non ha un fisico per posare su cavalli bianchi della Disney, come ha fatto David Beckham non appena arrivato negli Stati Uniti. Andrea Lo Cicero è un rugbista e basta. Usa la dentiera, usa il caschetto ma non usa le protezioni. Perché, dice lui, gli uomini fanno così. Il rugby, dice, non è football americano, non è calcio. Quando fai una mischia devi sentirlo l’avversario. Ci devi essere tu, il tuo petto, la maglietta e i muscoli di chi ti sta davanti. Le imbottiture non servono, il materasso non serve. Se prendi un calcio quel calcio devi sentirlo bene, devi sentirlo dentro lo stomaco. Dice Lo Cicero: “In una rissa si entra con la testa, il tuo avversario deve capire che il suo pomeriggio brutto è appena cominciato”. Le imbottiture a cosa servono? Servono a far finta di non aver paura. I pugni arrivano sempre e tu non sai mai dove arrivano prima. Devi accettarli perché poi finisce lì. Poi si discute, ma senza risse. Palla o avversario, mischia o meta, poi una chiara piccola per tutti, grazie.
Il rugby non è Super Bowl, non è calcio; non ci sono tanti soldi e fino al 1996 i soldi non c’erano proprio. Ora i soldi ci sono, Andrea Lo Cicero non ne guadagna pochi, ha girato l’Europa, gioca da dieci anni in Nazionale, ha giocato sette volte il “Sei Nazioni” e due volte la Coppa del mondo. Nel 1999 la sua prima volta contro gli All Blacks, che guai a dire che sono come il Brasile per il calcio, gli All Blacks sono gli All Blacks perché il Brasile ha la samba e gli All Blacks hanno l’“Haka” e l’“Haka” gli All Blacks non la ballano per divertirsi, l’“Haka” è il ballo della distruzione, della morte dell’avversario. Andrea ci gioca con gli All Blacks, prima partita 101 a 3, seconda 53 a 23. Va in meta anche Lo Cicero, Lo Cicero va in meta quasi sempre, è andato in meta anche sabato scorso con la Francia, magari andrà in meta anche sabato contro l’Inghilterra. Va in meta lui, ma la meta che si ricorda è quella dell’Italia, non di Lo Cicero.
Nel rugby capita che si giochi anche una, due volte alla settimana. Si gioca tanto ma non c’è nessuno che si lamenta, nessuno che dice non ho tempo di allenarmi, non ho tempo per preparare la partita. Nel rugby giochi e non hai paura di essere squalificato, non esci prima dalla partita perché mister, ho una fitta alla coscia.
I quindici anni di Andrea Lo Cicero eccoli qui: cinquantacinque punti in testa, ventuno solo a un orecchio, sei dita spezzate, quattro costole rotte, un gomito uscito fuori, spalle lussate, una clavicola rotta, distorsioni, collaterale, sublussazione al ginocchio, ma Lo Cicero non ha mai chiesto un cambio. Una volta sola ha chiesto di non giocare, ma non era un cambio. E’ successo tre anni fa. Andrea era depresso. Giocava al Tolosa, si rompe un ginocchio come lo zio, come lo zio torna a giocare, arriva fino alla fine della stagione, nuovo contratto, poi la depressione. Per un po’, dice, basta rugby. Poi arriva la chiamata in Nazionale, lui va, il Tolosa non vuole, la Nazionale dice non ti preoccupare, Lo Cicero non si preoccupa, la Nazionale non risolve il problema, il Tolosa lo caccia, Lo Cicero gioca, entra in depressione. Poi ritorna. Ritorna e gioca proprio lì, la sua prima gara la rigioca in Francia. Il pubblico lo applaude, nessun fischio. Ora Andrea è guarito. Gioca all’Aquila dopo essere stato a Catania, in Francia, a Roma. E’ un pilone, un uomo di mischia, lancia i compagni, ma va anche in meta. Come Gareth Edwards, che giocava nei Barbarians, una squadra non come le altre. Nei Barbarians non si può chiedere di entrare, non ci sono contratti e neanche ingaggi; l’invito arriva per posta e non ricevi un euro. E’ solo un onore, devi essere bravo, potente ma non diventi ricco. Devi essere solo bravo, non c’è bisogno che tu vada sui cavalli bianchi. I Barbarians sono stati fondati nel 1890, da allora sono arrivati più o meno duemila giocatori, da 25 paesi. Li chiamano i baa-baas. Lo Cicero ci gioca da tre mesi.
Claudio Cerasa

7/2/07

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