Roma. Sono le quattordici e quarantasette quando a Palazzo Madama, ascoltate le comunicazioni del ministro Massimo D’Alema sulla politica estera, il Senato non approva, respinge la mozione presentata dall’Unione, batte la maggioranza per la seconda volta in venti giorni e costringe il presidente del Consiglio Romano Prodi a salire al Quirinale per rimettere il suo mandato nelle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che dopo venticinque minuti di colloquio “si riserva di decidere sulle dimissioni”, invita il governo a rimanere in carica “per il disbrigo degli affari correnti” e apre le consultazioni. Nove mesi dopo le elezioni di aprile. Sono le venti e diciassette minuti.
La cronaca. Ieri il ministro degli Esteri ha spiegato al Senato la strategia internazionale dell’esecutivo di Romano Prodi. Il giorno prima, in Spagna, lo stesso D’Alema era stato piuttosto chiaro e aveva detto che “senza maggioranza sulla politica estera andiamo tutti a casa” perché “questo è un principio costituzionale”. E cioè la stessa cosa richiesta, ieri, per tutto il pomeriggio dall’opposizione. D’Alema ha diviso il suo intervento in due parti: alle nove la relazione, poi alle dodici e venticinque la replica agli interventi dei gruppi parlamentari. In quasi due ore totali di monologo, D’Alema ha concentrato il suo discorso intorno a tre concetti chiave: “Il rilancio dell’unità dell’Unione europea”, “la svolta nella crisi mediorientale e nella lotta al terrorismo” e “l’allargamento degli orizzonti internazionali”. Incalzato dall’opposizione D’Alema ha però parlato anche di Vicenza (“non rimettiamo in discussione l’orientamento preso e apriremo un dialogo con i cittadini di Vicenza”), di Afghanistan (“restando possiamo batterci per una conferenza internazionale”) e di Iraq (“è legittimo sull’Iraq avere un’opinione diversa, gli Usa sono divisi da questo dibattito ma non è giusto presentare il nostro punto di vista come in continuità con il governo precedente).
Pieno appoggio o tutti a casa
Per approvare la mozione (a voto palese) presentata dalla capogruppo al Senato Anna Finocchiaro, servivano centosessanta voti favorevoli. Ne sono arrivati centocinquantotto, con centotrentasei senatori contrari e ventiquattro astenuti. Due voti in più e il centrosinistra avrebbe approvato l’unica mozione rimasta al Senato nel corso della giornata (la Cdl aveva ritirato la propria tre minuti prima che l’Unione presentasse la sua). A far cadere la maggioranza sono stati i voti dei ventiquattro senatori astenuti. Perché dopo il no di Sergio De Gregorio, dopo il no di Francesco Cossiga (arrivato a Palazzo Madama con una spilletta della centosettantatreesima brigata aviotrasportata di Vicenza) e dopo che Fernando Rossi (Pdci) e Franco Turigliatto (Prc) avevano scelto di non partecipare al voto (Turigliatto poi ha anche rassegnato le sue dimissioni da senatore), tra gli astenuti ci sono stati alla fine anche due senatori a vita: Giulio Andreotti e Sergio Pininfarina (assente a Palazzo Madama dal giorno della fiducia al governo Prodi). Ed è per questo che Anna Finocchiaro (Ds) ieri sera ha fatto capire che tutto l’ottimismo con cui D’Alema aveva preparato la sua relazione al Senato forse non era giustificato: “Io lo ripeto da tempo che non abbiamo più la maggioranza. Era ovvio che prima o poi sarebbe accaduto. Questa volta è accaduto davvero anche se nel voto avevamo tenuto conto dei dissenzienti residui. Noi contavamo sul voto del presidente Andreotti e del senatore Pininfarina, ma non è andata così”. Sei minuti dopo il collasso al Senato, Roberto Calderoli, vicepresidente a Palazzo Madama e autore della mozione con cui la Cdl aveva messo in minoranza l’Unione lo scorso primo febbraio sulla base di Vicenza, è stato il primo a chiedere le dimissioni del governo “per coerenza”. Nel pomeriggio arrivava la dichiarazione del leader della Cdl Silvio Berlusconi, per il quale “il paese è stato esposto da una maggioranza che non c’è e da un governo incapace, che ha rifiutato perfino il dialogo parlamentare, a una grave umiliazione internazionale”.
Alle venti, rientrato di corsa a Roma, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – dopo aver lasciato Bologna, dove aveva detto che “la piazza non è il sale della democrazia” – riceve un Prodi dimissionario. Napolitano si è riservato di accettare le dimissioni del presidente del Consiglio, ma intanto ha indetto le consultazioni che inizieranno questa mattina alle dieci e trenta. In serata il portavoce di Prodi, Silvio Sircana, ha detto che il premier “ha preso atto che questa è una crisi grave e che egli non dispone di una maggioranza al Senato. E’ pronto a restare se, e solo se, d’ora in avanti gli sarà garantito il pieno appoggio di tutta la maggioranza”.
Claudio Cerasa
22/02/07
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