giovedì 15 febbraio 2007

Il Foglio. "Puskas, l’Ungheria, i carriarmati e la rivoluzione della squadra che perdeva solo se lo chiedeva Stalin"

Millenovecentocinquantasei, l’Ungheria, Budapest, la Honvéd, l’Aranycsapat e Puskas. Il capo del governo, Rákosi, aveva promesso duemila fiorini a testa, il partito aveva appena varato il suo piano quinquennale, con lo statalismo, il collettivismo, la Russia, la squadra, la patria. La Honvéd, era la squadra dell’esercito, e i giocatori – così li chiamavano – erano i difensori della patria. Questo voleva dire, Honvéd. A Budapest di squadre vere ne erano rimaste solo tre, fino al 1956. C’era l’Honvéd (con Puskas), c’era il Vörös Lobogó e la M.T.K. 1952, 1953, 1954 e poi ancora 1955 e 1956, primo campionato, secondo, terzo e poi quinto. Dal 5-3 contro l’Austria fino alle Olimpiadi del 1952 la Nazionale e la Honvéd, che praticamente erano la stessa cosa, non avevano perso neanche una partita, qualche pareggio poi solo vittorie e una sconfitta a Mosca ma con un arbitro russo e con Stalin, dicevano così, che non ci teneva particolarmente a perdere. E infattì non perse. Ma dal 1950 al 1956 la Nazionale ungherese non ne aveva perso neppure una di partita. Honvéd voleva dire soldato, Puskas voleva dire cecchino. Anche quella fu una rivoluzione, anche quella fu una delle squadre più forti di sempre. La Honvéd vinceva ovunque, e Rákosi sapeva che quella era davvero una rivoluzione, e sapeva che la squadra era il partito che il partito era lo stato e che a Helsinki, alle Olimpiadi, contro la Jugoslavia di Tito una sconfitta non sarebbe stata tollerata, soprattutto perché quella era la Jugoslavia e perché quella era la finale del 1952. Puskas e i suoi compagni erano, tecnicamente, dilettanti perché, ufficialmente, facevano parte dell’esercito e dipendevano tutti dal ministero (anche se quando andavano al poligono per sparare le armi tendevano a nasconderle) mentre Gusztav Sebes, l’allenatore della Nazionale, oltre che essere coach lavorava anche al ministero dei Beni culturali, come racconta Luigi Bolognini in “La squadra spezzata” (edizioni Limina, 14 euro). Come se Rutelli allenasse Totti. L’Ungheria vinse anche quella gara, continuava a segnare, a non perdere, a essere – come dicevano nel partito – “la perfetta applicazione del socialsimo”. Se vinceva la Honvéd vinceva anche tutto il partito e tutto funzionava e tutto era perfetto. Solo che poi iniziarono a perdere, due anni prima che i carriarmati russi arrivassero a Budapest, pochissimi anni dopo che Puskas diventò il primo uomo nella storia ad attraversare il ponte delle Catene che collegava la città vecchia, Pest, con quella nuova Buda. Era il 1954, l’Ungheria era in Svizzera, coppa del Mondo, di là la Germania Ovest, di quà la grande Aranycsapat di Puskas e Bozsik. Alle 17.15 Radio Budapest aveva già trasmesso prima l’Himnusz, poi l’Internazionale e quindi tutta la formazione ungherese. Si comincia, due a zero, poi due a uno e ancora due a due. Era l’ottantaquattresimo, quel fottutissimo arbitro non fischiò, Bozsik perse la palla, si fermò lì al centro del campo, arrivò Schafer, Bozsik rimase a terra, palla a Rahn, passa un secondo, cross, poi il sinistro e palla in rete. Dopo due minuti l’Ungheria pareggia. Sarebbe tre a tre, ma il gol era in fuorigioco e l’Ungheria perse dopo sei anni di vittorie, due anni prima che i carriarmati arrivassero a Budapest e due anni dopo uno dei più grandi successi, quello di Wembley, quando l’Aranycsapat aveva giocato con l’Inghilterra, aveva vinto per sei a tre, Puskas aveva già iniziato a contrabbandare rasoi per arrotondare lo stipendio da operaio e Sebes continuava a dire che una squadra così non poteva perdere. Non poteva perdere mai. Come l’armata rossa. Poi arrivò la Germania e arrivarono i carriarmati, perse anche la Honvéd e Puskas andò in esilio, tornò a Budapest e poi a Madrid, prima di morire, lo scorso novembre. Il 2 aprile avrebbe compiuto 80 anni.

16/02/07
Claudio Cerasa

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