L’insopportabile grandezza di Steve Jobs, il mago di Apple. Lì dove c’era il computer, lui ci ha aggiunto il colore, la voce, la musica, le immagini. Poi ha inserito l’iPod nelle Nike
Steve Jobs arrivò di fronte alla sede di Microsoft il 4 gennaio 1997, ventuno anni dopo aver rivoluzionato la new economy, tredici anni dopo il primo personal computer, quindici anni dopo la prima copertina su Time, due anni prima di diventare la rock star della Silicon Valley e tre anni dopo aver trasformato una mela un po’ morsicchiata in un impero a colori. La sede di Microsoft di Palo Alto Steve Jobs l’aveva già vista, almeno un paio di volte. Steve non amava Microsoft (cioè la più importante azienda al mondo produttrice di software), ma Steve non amava neanche l’Ibm (cioé la casa produttrice di computer più importante del mondo). L’ultima volta che gli era capitato di passare sotto la sede dell’Ibm di New Orchard Road a New York, Steve aveva i capelli lunghi, un po’ a caschetto, la giacca di pelle nera, i jeans scoloriti, la mano destra in tasca, la sinistra sopra la testa un po’ spostata in alto rispetto al caschetto, qualche centimetro sotto le lettere di colore grigio su sfondo nero che componevano la parola “Ibm”. Era il 1985. Steve sorrideva, raccontano che poco prima di scattare una foto stesse dicendo queste parole: “Fuck the Ibm”. Steve alza ancora la mano sinistra, pugno chiuso, alza il dito medio, sorride, vaffanculo Ibm e click. Steve però era cambiato; dopo il licenziamento, l’esperienza alla Next, il fallimento di Next, le donne, gli acidi, l’India (dove Steve fece un lungo viaggio da lui stesso definiti come “contemplativo”), l’Lsd, il garage di San Francisco, la figlia che prima aveva riconosciuto, poi non aveva più riconosciuto e per la quale comunque pagava ogni mese un assegno da 385 dollari. Steve era cambiato, non era più quel manager duro, quello che non aveva finito l’università del Reed College, che si faceva di acidi, che aveva inventato la new economy a colori, che andava a letto con la prima che capitava, che aveva inventato il personal computer e che aveva inventato l’informatica creativa, non quella pallosa e grigia, come quella di Microsoft o come quella dell’Ibm. Steve era cambiato, era cambiato davvero. Era diventato un vero “stronzo”, come ricordano con affetto i suoi migliori amici. Quella sera, il 4 gennaio 1997, Steve era tornato alla sede di Microsoft. Con lui c’erano due persone. La prima si chiamava Gil Amelio ed era il numero uno di Apple. Steve la gente come Gil la definiva così: “Tutti arrampicatori sociali”. Gil non dava problemi. Steve parlava, lui eseguiva. Pochi mesi dopo Gil sarebbe andato via. Dall’altra parte Steve aveva Heidi Roizen. Gil l’aveva ingaggiata per fare da tramite tra la Apple e la Microsoft, tra Steve Jobs e Bill Gates. Steve conosceva già da tempo Heidi. La conosceva da dieci anni, quando Heidi era ancora single ed era pazza di Steve. Steve aveva ancora i capelli lunghi, Heidi voleva uscire con Steve, Steve voleva conoscere Bill ed Heidi conosceva la ragazza con cui usciva Bill Gates (si chiamava Ann Winblad, era una delle amiche più care di Heidi). Steve, Heidi, Bill e Ann si incontrarono per la prima volta al Four Season Clift Hotel, a due passi da Union Square a San Francisco. La serata finì molto male, Steve litigò con tutti, Bill non capiva chi era Steve e tutti e due lasciarono le ragazze da sole.
Steve Jobs non è un tecnico, non è un ingegnere, non è laureato, non è un programmatore, non è uno scienziato, non è un imprenditore e non è uno smanettatore come lo era Bill Gates. Steve Jobs è semplicemente un genio. Jobs ha cambiato il mondo della tecnologia con una rottura, con il marketing, con il design, con un’idea e riuscendo a creare attorno a un singolo prodotto una vera e propria identificazione sociale. Steve Jobs ha fondato Apple, ha creato l’iPod, ha creato l’iPhone e ha creato l’iTv. Ha creato un mito, non ha creato un prodotto. Aveva i soldi per diventare un genio di massa, un fenomeno pop, un mago del consumo. Ma Jobs non voleva questo, non voleva diventare il più ricco o il più famoso. Voleva essere solo il più bravo, il migliore di tutti.
Succede che pensi alla tecnologia, pensi al progresso, al computer, alla routine, al lavoro, alla posta, a Internet, alla scrivania, le cartelline, il desktop, la stampante, la tastiera e pensi a Gates, pensi a Microsoft, pensi alla routine, ai chip, ai computer, ti colleghi, apri il file, cambi il desktop, un giorno, un intero giorno sul computer, ascolti musica, vedi un film, scarichi la posta, on oppure off, acceso oppure no, ora basta con questo computer, e poi lo spegni. Pensi a Microsoft e non ti ricordi se il computer è bianco o giallo, se il desktop ha le nuvole oppure no, se le icone sono grandi o piccole, se la tastiera è ovale o rettangolare. Pensi a Microsoft e pensi a Bill Gates, ai soldi, alla beneficenza, al colosso, all’uomo più ricco del mondo, a quello più generoso, più rassicurante, i capelli ordinati. Pensi alle foto di Gates da giovane, gli occhiali enormi, il sorriso da studente secchione, i dentoni di fuori. Pensi a Microsoft e pensi alla routine, on oppure off? Pensi a Apple e, invece, pensi al colore. Pensi al fuoriclasse, non pensi al mediano (fortissimo) che non salta mai una partita. Pensi ad Apple e pensi subito a Steve Jobs, alla maglietta nera a collo alto, all’iPod infilato nelle orecchie, lo schermo enorme dietro alle sue spalle, il grande evento, la grande presentazione. Microsoft si compra perché si deve comprare, Apple si compra perché non si può far a meno di comprarla, di provare il nuovo computer, quelle cuffiette, quell’iPod, quel costumino in pelle con il lettore in mezzo alle mutande, quel portafoglio con l’iPod nano, quel lettore incastrato in mezzo al porta documenti, quell’iPod sulle scarpe o sulla lampada o sulla cravatta. Con Gates e con Microsoft non è così. Apple significa Jobs, Microsoft invece non è solo Gates. E’ per questo che Gates (che fino al 1987, come riportato dal New York Times, utilizzava nel suo ufficio un Macintosh) può dire senza troppi problemi che dal prossimo anno si occuperà di altro, che dal luglio 2008 si occuperà di beneficenza e un po’ meno di Microsoft senza creare troppi problemi a Microsoft. Ed è per questo che, come stimato dall’analista di Piper Jaffray Gene Munster, senza Jobs, Apple cadrebbe in borsa del 25 per cento. Cioè, senza Jobs Apple non sarebbe più Apple. Senza Gates Microsoft sarà ancora Microsoft.
Dieci anni dopo quel 4 gennaio di vent’anni fa, Microsoft stava per investire 150 milioni di dollari nella Apple. Gates avrebbe prodotto software per il Macintosh per i successivi cinque anni. Steve entrò nella stanza dove era seduto Bill. Iniziò a parlare, si alzò in piedi, spiego a Bill perché il mercato era tutto loro, perché avrebbero potuto conquistare il mondo, perché avrebbero potuto prendere tutto quello che volevano, loro due, cinquanta uno, cinquanta l’altro. Bill rimase affascinato, disse che quell’uomo era incredibile, davvero incredibile. Disse che come venditore era un vero maestro, che c’era molto da imparare da Steve, se non fosse che Microsoft aveva il 97 per cento del mercato mentre Apple aveva il tre per cento. Ma era un dettaglio, niente di più. Otto mesi dopo Steve diventò direttore generale ad interim della Apple e si trasferì nel piccolo ufficio accanto alla sala riunioni del consiglio di amministrazione. Le azioni intanto erano salite a trentadue dollari, aumentando del ventitré per cento in un solo giorno. Bill era già diventato l’uomo più ricco del mondo, Steve no (anche se ora, secondo la rivista Forbes, Jobs è il quarantanovesimo più ricco del mondo). Steve voleva semplicemente provare a cambiarlo il mondo e continuava a ripetere: “Datemi una tastiera, una tastiera alla volta e ve lo cambierò davvero il mondo”. Steve, non appena fu nominato direttore generale, iniziò a girare senza scarpe e senza calzini nella sede di Apple, fece cambiare tutte le penne della cancelleria, ed era serio, estremamente serio. “Che ci fai tu qui?”, chiese al suo vecchio amico Wharton, che era stato assistente di Gil. Steve lo conosceva bene Wharton, sapeva bene quante lauree aveva e Wharton di lauree ne aveva tre. “Sto imballando le mie cose, me ne vado”, disse Wharton. E Steve. “Vuoi dire che non avrai un lavoro? Molto bene, ho proprio bisogno di qualcuno che mi faccia del lavoro di merda” e Wharton rimase lì in ufficio. Quella fu la prima assunzione di Steve, prima che Steve decidesse di cambiare la Silicon Valley e riuscendo in solo tre anni (nell’ottobre del 1998) a rivoluzionare la già rivoluzionaria Apple, portandola per la prima volta a tre trimestri consecutivi di utili (si parlava, allora, di cifre vicine ai 105 milioni di dollari). Jobs aveva un’idea più che un gran computer. Ed è proprio con un’idea che Jobs ha creato l’iTunes, l’iPod, l’iTv e l’iPhone. Con un piano geniale, più che costoso, grazie al quale, ad esempio, in novanta giorni è riuscito a vendere 450 mila scarpe Nike con iPod incorporato e grazie al quale è riuscito ad assicurarsi il settanta per cento del mercato degli mp3 nelle macchine americane quando il mercato degli mp3 nelle auto americane non era ancora neanche partito. Così, solo con un progetto, nato a Cupertino ma che poteva nascere, per dire, anche a uno Steve Jobs di Frosinone. Perché Jobs ha fatto molti errori, ha pagato, ha presentato un progetto che si chiamava Lisa e che aveva lo stesso nome della prima figlia che non voleva riconoscere perché sua solo “al 94 per cento”. Jobs ha anche sbagliato, ma non si è mai fermato. Dopo il progetto Lisa (che è stato un fallimento), Jobs non ha più smesso di essere la rock star della Silicon Valley, non ha più smesso di creare un impero che comincia con la Mela, comincia con Apple ma non si ferma a Cupertino. Steve ha fondato Apple ma ha praticamente fondato anche la Pixar (è entrato pochi mesi dopo che Lucas aprisse l’ufficio a Emeryville in California), che ha avuto il suo momento di maggior successo proprio quando ha messo in pratica tre intuizioni di Steve, tre cartoni animati come “Nemo”, “Toy Story” e “Gli Incredibili”. Poi, il 24 gennaio dello scorso anno, la Disney ha comprato per 7,6 miliardi di dollari la Pixar di cui Jobs era azionista di maggioranza con il 50,6 per cento. Dopo la fusione Jobs è diventato azionista numero uno di Walt Disney, società di cui ora è consigliere direttivo (il Ceo di Disney si chiama Robert A. Iger). Ma dire Disney più Jobs significa ovviamente dire Disney più Apple. E questo cosa significa? Significa che Jobs ha creato un mercato di convergenze piuttosto importante, e dato che Apple ora è anche un po’ televisione (grazie all’iPhone e grazie all’iTv) non è certo difficile immaginare uno scenario futuro in cui Apple potrebbe trasmettere sugli schermi del suo iPhone i film e lo sport prodotti dalla Disney (Disney è proprietaria anche del canale sportivo Espn sport).
Jobs è partito da un sogno, dal suo famosissimo garage di San Francisco dove, assieme all’amico Stephen Wozniak, utilizzò i primi programmi, progettò i primi computer, fumava moltissimo, provava anche gli acidi (in un’intervita rilasciata nel libro “What the Dormouse Said”, Jobs racconta che l’Lsd è stata una delle due o tre cose più importanti fatte nel corso della sua vita), ascoltava Bob Dylan (Steve va pazzo per Bob Dylan e pare che, durante i primi sei mesi passati al Reed College, ebbe anche una relazione con l’allora compagna di Dylan, Joan Baez) e dove per la prima volta, leggendo il nome della casa di produzione dei Beatles (l’Apple Corps Project, di cui forse già la prossima settimana per la prima volta nella storia potrebbe iniziare a distribuirne le canzoni), pensò a come chiamare il suo piccolo gioiellino: come una apple, come una mela.
Scrivono Roger McNamee, finanziere, opinionista e ora consulente di Bono degli U2, e il giornalista Alan Deutschman: “Steve Jobs è la personalità che meglio rispecchia la Silicon Valley. L’evoluzione di Steve Jobs è andata di pari passo con quella della Silicon Valley. Negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta Steve e la valle erano dei ragazzi terribili che facevano le pernacchie ai giganti. Ma entrambi persero slancio sul finire degli anni Ottanta, quando nuove potenze emersero altrove: la Microsoft a Seattle, la Dell e la Compaq in Texas, poi verso la fine degli anni Novanta tornò Steve e il nord della California divenne il centro nevralgico della riserva tecnologica”.
L’iPod è stato il colpo più importante messo a segno negli ultimi anni da Jobs. Jobs, al contrario di quel che si può pensare, non ha mai fatto una corsa per inseguire Microsoft. Apple inseguiva solo Apple. Ma con l’iPod poi è cambiato tutto. Con il lettore di musica digitale, Jobs ha attualmente l’80 per cento della quota di mercato degli mp3 (ma nel solo periodo che va dal 19 novembre al 23 dicembre Apple avrebbe conquistato il 57,3 per cento del mercato e oltre il 15 per cento in più rispetto allo scorso anno, anno in cui era già arrivata al 42 per cento). Ora sono gli altri che inseguono Apple, sono gli altri che provano a togliere utenti all’iTunes e possibilmente anche all’iPod. Inseguono tutti perché tutti vogliono controllare il mercato della musica digitale. Insegue Bill Gates con il suo Zune, insegue Google grazie a You Tube, insegue Murdoch con MySpace.
Per comprendere per quale motivo sia così importante il mercato della musica digitale basta capire che cosa si può fare oggi con l’iPhone, il gioiello lanciato da Jobs all’inizio dell’anno. Con l’iPhone si può ascoltare la musica, si possono scrivere e-mail, si possono inviare messaggi, si possono vedere video e magari anche film. Con l’iPhone si può anche telefonare. Questa si chiama convergenza e la convergenza è al centro dei nodi che girano attorno al mondo delle nuove tecnologie. “Ma la musica è solo un pretesto, come il calcio con il digitale terrestre. Per poter fidelizzare un cliente su un prodotto occorre prima trovare un oggetto di consumo particolarmente accattivante e particolarmente conveniente. E, in questo momento, chi controlla la musica controlla anche i dispositivi con cui attualmente si ascolta per lo più musica ma con cui in futuro si potrà fare davvero di tutto”, dice al Foglio il professor Alberto Marinelli, docente di nuove tecnologie all’Università la Sapienza di Roma. Steve ora è tornato a essere quello che era quando aveva cominciato, quando a vent’anni voleva cambiare il mondo e quando a ventuno il mondo lo cambiò davvero.
Steve non ha mai avuto un buon rapporto con chi prova a parlare di lui o con chi prova a raccontare la sua vita. Non è come Bill, sempre friendly, o come i due sorridenti fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin. Quando Steve incontra un giornalista lo chiama e prende un appuntamento, Steve lo fa aspettare venti minuti, mezz’ora, anche un’ora. Poi dà il permesso, lo fa entrare in sala, non alza neppure lo sguardo, continua a leggere i giornali, hello, please tell me, comincia l’intervista, ma Steve le pagine continua a sfogliarle comunque. E’ sempre stato così, Steve. Quando fondò Apple e quando uscì da Apple. Quando fondò Next e quando uscì da Next, quando tornò in Apple, quando era in crisi e quando non lo era più. Nel 1995 la redazione di Newsweek stava preparando una lunga inchiesta sui cinquanta uomini più importanti del mondo in campo tecnologico. Di fronte al tavolo ovale della sede newyorchese, si alza la giornalista Katie Hafner, che dieci anni dopo avrebbe scritto una delle tantissime biografie su Steve. Katie chiede di poter parlare e dice: “E Jobs, dove lo mettiamo Jobs?”. I suoi colleghi, tutti insieme, rispondono: “Sorry, who is Jobs?”, “Chi è Jobs?”, chiesero. Quattro anni dopo Vanity Fair aveva però già promosso Steve dal numero quattordici al numero sette della classifica degli uomini più potenti degli Stati Uniti. Steve era rinato, era tornato a Cupertino. Il direttore di Vanity Fair già allora si chiamava Graydon Carter e diceva che Steve era il manager “X”, aveva il carisma, il fascino, aveva tutto quello che serviva. Ma Steve (come ricorda Alan Deutschman nel libro “I su e giù di Steve Jobs”) in quel numero di Vanity era descritto prima così: “Il quarantaquattrenne Jobs, noto per la sua intolleranza verso i buzzurri, cioè tutta la gente meno intelligente e meno sveglia di lui, durante una riunione espresse il suo sconforto versando un bicchiere d’acqua sulla testa di uno dei dipendenti”. E, sempre Vanity Fair, raccontava che “durante un colloquio di assunzione con una giovane, a cui si presentò indossando calzoncini corti senza aver nulla sotto, allargò distrattamente le gambe mettendo in mostra la sua merce davanti all’ingenua postulante”. Steve non gradì, non gradì affatto e nella successiva intervista che rilasciò pochi giorni dopo il suo quarantaquattresimo compleanno, alla prima occasione si rifece così: “Allora Jobs, cosa farebbe se potesse tornare indietro e dare un consiglio alla persona che lei era vent’anni fa?”, gli chiese un giornalista di Wired. E lui. “Cosa non rifarei? Niente interviste cretine, non ho tempo per queste stronzate filosofiche. Sono una persona molto occupata, io”.
Steve non ama ricordare il suo passato e non ama particolarmente ricordare che quando aveva vent’anni aveva fondato Apple, che in dieci anni Apple era diventata un’azienda da 2 miliardi con oltre duemila dipendenti, ma non gradisce raccontare che a un certo punto voleva abbandonare tutto, voleva andare via e aveva iniziato a odiare anche la Silicon Valley. Ed è per questo che Jobs tiene sotto controllo tutto ciò che in America parla di lui. Ed è anche per questo che Steve ha censurato diverse biografie (l’ultima è stata quella che si intitola “Steve Jobs, Icon or I con?”, che tradotto significa: “Steve Jobs, è un’icona oppure è una truffa?”, subito ritirata da tutti gli Apple store del mondo). Ma ci sono anche altri momenti della sua vita che Steve non ricorda volentieri. Uno di questi è il giorno in cui Steve nacque. Era il 24 febbraio 1955 e la madre aveva già organizzato tutta la vita del figlio. Steve doveva studiare, doveva andare al college, doveva lavorare bene, doveva avere i soldi e per questo non poteva rimanere con lei, dato che era ancora una studentessa. Aveva organizzato tutto, la mamma aveva preso accordi con una coppia ricca e piuttosto colta. Erano d’accordo su qualsiasi cosa, sui soldi, sull’università, sugli studi, tranne che su una cosa. I due volevano una bambina, Steve invece era un maschietto. Fu per questo che i due genitori adottivi non presero Steve e Steve finì con i secondi di quella lista di genitori adottivi. Erano due genitori poveri e neanche laureati.
Steve non ama parlare del suo passato, non ama parlare del tumore che nel 2004 lo colpì al pancreas ma non ama nemmeno parlare di tutto ciò che non riguardi le idee, i progetti, i suoi piani. Poche settimane fa però, dopo un’indagine sulle stock options della Apple, Steve Jobs si è cacciato nei guai e a molti giornali non è parso vero poter spettegolare su Steve. Cosa è successo. Apple ha scoperto che circa 6.500 stock options erano state retrodatate. Il periodo è quello che va tra il 1997 e il 2002. Quei soldi che erano usciti fuori dalle casse Apple avevano creato un buco da 84 milioni di euro. Lo scandalo si è fatto poi più pesante perché non soltanto Jobs nel 2001 aveva convertito cinque milioni di azioni, ma anche la sua vecchia Pixar era stata travolta da un problema praticamente identico. Jobs poi è stato assolto, anche se non con formula piena. Ma in quei giorni uno dei primi a difendere Jobs è stato Al Gore, ex vice presidente degli Stati Uniti, ex candidato democratico alla Casa Bianca nel 2000. Al Gore è una pedina molto importante nel panorama dei nuovi media statunitensi. Gore fa parte del board of directors di Apple ed è senior advisor di Google. Gore è molto legato a Eric Schmidt, numero uno di Google, nonché uno dei massimi finanziatori dei democratici. Anche Schmidt, da qualche mese, è entrato a far parte della squadra di Apple e la sua presenza condiziona non poco l’orientamento politico sia di Jobs sia della sua società.
Ma il rapporto tra i liberal americani e uno dei principali volti della new economy (e non solo di quella, perché Apple è ovviamente anche altro) va al di là del singolo triangolo Schmidt-Gore-Jobs. Steve Jobs, continuamente corteggiato dagli stessi democratici, si è avvicinato al mondo della politica più volte. Dal 1996 Jobs assieme alla moglie Laurene, ha versato 250 mila dollari nelle casse dei democratici. Nel 2004 è stato consigliere economico nel corso della campagna elettorale di John Kerry e otto anni prima, nel 1996, aveva conosciuto Bill Clinton proprio alla fine del suo primo mandato. Clinton, insieme con Hillary, andò in California a cena da Jobs, nella sua casa di Palo Alto e – raccontano – lì non si parlò solo di computer. Pochi mesi dopo Steve fu invitato dai Clinton alla Casa Bianca e, dopo aver cenato, fu ospitato nella famosissima Lincoln’s bedroom. Steve alla Casa Bianca c’era già stato una volta, quando Ronald Reagan nel febbraio del 1985 gli consegnò la National Technology Medal. Steve, tra l’altro, aveva già conosciuto anche François Mitterrand durante un pranzo di gala in California. Fu proprio l’ex presidente francese a invitare Jobs a pranzo e tanto per ricambiare la cortesia, una volta arrivato al pranzo, Steve disse a Mitterrand: “Potreste cucinarmi un po’ di pasta per favore?”.
Oltre a Kerry, Al Gore e Clinton, nel 2006, il San Francisco Chronicle (prendendo spunto anche dalla grande amicizia tra Jobs e Jerry Brown, ex governatore della California) dedicò un lungo articolo per spiegare quali erano gli intrecci che avrebbero portato Jobs a candidarsi come governatore proprio della California. Era un’idea poi non se ne fece più niente. Jobs però non ha fretta. Ma anche se chi lo conosce bene dice che in testa ha ben altre intenzioni, Steve i suoi rapporti politici continua a coltivarseli con una certa attenzione. Pochi giorni dopo le elezioni di mid-term, sembra che Steve sia stato adocchiato in una stanza riservata nel ristorante thailandese di Los Gotos, a Washington. Attorno al tavolo erano in tre. Lui, Al Gore e Nancy Pelosi, futura speaker democratica alla Camera e dal 1987 rappresentante dell’ottavo distretto della California in Canaa. Con Nancy, Steve – tra l’altro – condivide la passione per il gruppo musicale dei Greatful Dead. Steve, dice chi lo conosce bene, se proprio deve farlo, se proprio deve entrare in politica, non si accontenterebbe di essere un governatore qualsiasi o un senatore qualsiasi. Steve vorrebbe, e non è uno scherzo, proprio la Casa Bianca. Qualche anno fa il suo amico William Foster, così un po’ per gioco, ha fatto un tentativo, ha provato a vedere cosa poteva succedere e ha lanciato per pochissimi giorni il sito “Steve Jobs for President”. La notizia è stata subito ripresa da Wired che dopo dieci minuti aveva ricevuto diecimila click, centinaia di e-mail e tantissime proposte di donazioni a supporto della presunta campagna per Jobs. Fu una provocazione, come fu una provocazione quella del giornale tedesco Die Welt che nel 2005 dedicò un lunghissimo articolo per spiegare per quale motivo Bush fosse diventato lo Steve Jobs della politica. E’ possibile, è davvero possibile che siano tutte provocazioni; ma intanto, caso strano, su Internet è stato registrato un sito piuttosto curioso: si chiama “jobsforpresident.org”, esiste da quattro anni, scadeva nove mesi fa e, chissà se è solo un caso, Jobs, quel sito, lo ha rinnovato anche quest’anno, proprio qualche settimana fa.
Claudio Cerasa
10/2/07
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