Si chiama Walter Verini, è il suo consigliere politico ed è lui che controlla la squadra invisibile di Veltroni. Oggi, a Milano, il suo esordio nel Pd
C’era anche lui quella mattina quando Walter Veltroni uscì dall’appartamento di via Velletri, scese le scale, saltò su in macchina, sfogliò le prime pagine, guardò l’orologio, arrivò in Campidoglio, salì una rampa, ne salì due, poi tre, poi quattro, chiuse la porta, aprì la sua agenda, accese il computer, posò il telecomando, compose due numeri e quindi li chiamò; chiamò il senatore Goffredo Bettini, e chiamò, subito dopo, Walter Verini: il suo consigliere, il suo portavoce, l’uomo che ha guidato Walter Veltroni nelle sue prime campagne elettorali nazionali in Umbria, che ha accompagnato W negli anni a Palazzo Chigi (da ministro per i Beni culturali, da vicepremier del primo governo Prodi), che lo ha scortato in Campidoglio nel 2001 e nel 2006 e che, in quasi trent’anni di convivenza, si è trasformato nell’altra metà, nella metà perfetta della Doppiavvù veltroniana. Li chiamò, Walter; e poi li guardò: “E’ giusto che io dia il mio contributo”, disse Veltroni. Era il 19 giugno 2007, il comitato dei 45 del Pd si era riunito la sera prima, aveva deciso di raddoppiare i membri dell’assemblea costituente (da 1.400 a 2.400, oggi però sono quasi 2.800) e fu lì, quel giorno, – con Verini e Bettini – che Walter Veltroni decise di candidarsi a quello che oggi diventerà ufficialmente il Piddì; quel partito che oggi alle 10.30 nascerà a Milano con la prima riunione dell’assemblea costituente dove Walter Veltroni non troverà Bettini (impegnato a Roma, con la Festa del cinema) ma dove troverà il suo primo uomo di fiducia: l’unico in grado di accompagnarlo dall’ufficio di Palazzo Chigi fino all’open space del loft del Piddì; proprio lui, Walter Verini. L’uomo con cui Veltroni ha costruito la sua campagna elettorale e con cui W costruirà, da oggi in poi, il suo futuro nel Piddì.
Walter Verini e Walter Veltroni si sono incontrati per la prima volta nell’aprile 1978, al terzo piano di un bellissimo palazzo perugino, in Piazza Dante (nello stesso edificio dove un tempo, seduta ai tavoli del Bar Turreno, si riuniva l’intellighenzia umbra e comunista), dove Verini si era appena insediato da direttore della prima televisione del Pci in Umbria – si chiamava Umbria tv – e dove Walter Veltroni, per due anni, ogni lunedì mattina dalle 11 alle 13 arrivava in sala, si sedeva, guardava la telecamera, cominciava a parlare di politica, salutava i compagni (che all’epoca diligentemente lo chiamavano “Budda”), e poi, per pochi minuti, si fermava a parlare con quel ragazzo con il suo stesso nome, quasi con lo stesso cognome, con la sua stessa età (52 anni Veltroni, 51 anni Verini), con la sua stessa passione (cioè, il giornalismo), la sua stessa militanza (quindi il Pci, il Pds, i Ds e ora il Pd) e le sue stesse esperienze lavorative: prima in Fgci, poi all’Unità, poi a Palazzo Chigi, quindi a Botteghe Oscure e infine in Campidoglio. Sempre così, un po’ in silenzio, un po’ nascosto, chiuso nella sua stanza di quaranta metri quadrati, con finestra su Piazza del Campidoglio, a due corridoi di distanza dal computer di Walter Veltroni: a cui nel corso degli anni Walter Verini, con quegli occhiali un po’ alla Woody Allen e un po’ alla Bill Gates, ha cominciato a somigliare sempre di più, anche fisicamente. E’ stato proprio l’altro W, Walter Verini, a costruire per il sindaco di Roma quella lunga campagna elettorale fiutata prima al PalaMandela di Firenze (quando i Ds si sciolsero e Verini pianse come Piero Fassino) e progettata, poi, poche settimane dopo, un po’ più su, un po’ più a nord, al Lingotto di Torino: dove la discesa in campo di Walter Veltroni fu organizzata e orchestrata proprio da quel Verini che Veltroni vide per la prima volta nel palazzo di Umbria Tv, e che Veltroni poi decise di richiamare, qualche anno più tardi.
Era il 1994, W aveva appena deciso di candidarsi in Umbria, una sera salì sul palco, avvicinò il microfono alla bocca, lo afferrò con due mani e davanti a tutti disse così: “Avessimo noi un riformista come te”. E poi lo guardò. E poi squillò il telefono, quattro anni dopo: era un aprile, erano le 20.30, Verini si avvicinò alla cornetta, sentì la voce di Walter e lo ascoltò: “Vedi, Walter – disse Veltroni – stiamo pensando di organizzare un giro per l’Italia, in pullman; sai, per l’Ulivo; per le elezioni. Ecco, mi piacerebbe che ci fossi anche tu. Ti andrebbe?”. Rispose: “Quando si comincia?”. “Si comincia domani”. Era il 1996, Veltroni poi vincerà le elezioni con l’Ulivo, salirà a Palazzo Chigi, ci resterà per due anni, porterà con sé Marco Causi – il consigliere economico più ascoltato da Veltroni, attuale assessore al Bilancio del Comune di Roma, marito della potente Monique Veaute (neoamministratore delegato di Palazzo Grassi a Venezia), piuttosto famoso in Campidoglio per le sue vacanze cambogiane e considerato un po’ come il Tremonti comunista di W – si porterà con sé Claudio Novelli – il ghost writer politico di Veltroni, innamorato di Flaiano, di Calvino, di Foa e di Rodari, autore del primo intervento in consiglio comunale di W, nonché grande esperto di Martin Luther King e gran consigliere anche per la Nuova Stagione del Lingotto – e si porterà con sé, quell’anno, anche Walter Verini: portavoce ieri a Palazzo Chigi, portavoce e capo di gabinetto oggi in Campidoglio e portavoce domani chissà dove.
Solo che a differenza di Walter Veltroni, che non è “mai stato comunista”, Walter Verini comunista (“comunista italiano”, dicono di lui) lo è stato eccome: lo è stato da giovane, lo è stato in Umbria, lo è stato in tv, lo è stato nei giornali, lo è stato in squadra con Veltroni e lo è naturalmente anche oggi. E lo si è visto quando Walter Verini – che all’epoca Francesco Merlo, sul Corriere della Sera, chiamò un po’ Veltroni e un po’ Verini, in sintesi Veltrini – dopo un’esperienza da consigliere comunale a Città di Castello (a 19 anni), dopo i tre anni passati da assessore alla toponomastica nella stessa città umbra, dopo l’esperienza a Paese Sera (in redazione con Lamberto Sposini e con l’attuale corrispondente di Repubblica in Umbria, Alvaro Fiorucci), dopo essere stato nominato coordinatore della regione Umbria del Pci e dopo essere stato anche il vice di Giuliano Pajetta a Botteghe Oscure, decise di candidarsi come sindaco di Città di Castello. Era l’aprile del 1997, l’altra metà della W si presentò nella sua Città, si schierò contro il dalemiano Adolfo Orsini (Verini non è considerato esattamente un dalemiano), fece imbufalire Romano Prodi, sperimentò un nuovo conio formato da Ppi, Rifondazione, Verdi e Cristiano sociali, prese una botta niente male (29 per cento) e creò una rumorosa spaccatura anche all’interno di Botteghe Oscure; e non a caso, in quei giorni, sul Corriere della Sera, Paolo Franchi firmò un editoriale in prima pagina titolato così: “Il futuro dell’Ulivo passa da Città di Castello”; dunque, anche da Walter Verini.
Fu quella l’ultima esperienza politica del consigliere numero uno in Campidoglio, prima del recentissimo successo delle primarie, dove Verini, insieme con Causi, è stato l’unico degli uomini ombra di Walter Veltroni a candidarsi – e a vincere – nel suo collegio di Gubbio, proprio in Umbria. Ma c’è dell’altro. Perché Walter Verini è naturalmente l’uomo che offre più consigli a W, è certamente anche l’anello di congiunzione tra il mondo di Veltroni e il mondo del tartufo (al berlusconiano patto della crostata, Verini ha risposto – come tecniche di concertazione – con il patto del tubero: tanto che – pochi giorni dopo la sua elezione a Gubbio – Verini ha festeggiato al settimo piano di un albergo romano, in zona Esquilino, con un equilibrato pranzo a base di gnocchi al tartufo, tartine al tartufo, supplì con formaggio e tartufo, filetto di manzo con tartufo e tramezzini con melanzane e tartufo, seduto al tavolo con moltissimi ospiti, con il sindaco di Città di Castello Fernanda Cecchini – anche lei nell’assemblea del Pd – e dove mancava solo la sua concittadina Monica Bellucci, reduce in quelle ore dal notevole flop della prima del suo non indimenticabile film presentato a Roma). Ma Verini è anche l’uomo con cui Walter Veltroni ha ideato parte di quella politica della toponomastica grazie alla quale W ha sedotto comunisti, fascisti, laziali, romanisti, calciatori, cestisti e scrittori. Come? Dedicando nella Capitale strade un po’ a tutti, un giorno a economisti come Marco Biagi e un altro giorno – tra poche settimane, prima di Natale, e questa è una notizia – a giornalisti come Oriana Fallaci; anche se ai tempi di Città di Castello Verini si superò e diede spettacolo in Comune inventandosi una piazza dedicata a Che Guevara e un’altra a Salvador Allende.
Non basta. Perché Verini è anche l’uomo che più degli altri ha lentamente costruito attorno a Veltroni una solida rete di lavoro che ha messo insieme il sindaco di Roma e i più importanti sindaci d’Italia (Verini, tra l’altro, conosce molto bene Sergio Cofferati); è l’uomo che politici, banchieri, sindacalisti, coordinatori, tassinari, imprenditori e naturalmente assessori, devono prima chiamare e poi consultare per aver accesso alle stanze di W (vale per Luigi Abete, valeva per Alessandro Profumo, valeva per Matteo Arpe); è l’uomo che ha messo lo zampino nella fortunata lista veltroniana con la parolina “sinistra” ed è sempre anche grazie a lui che Walter Veltroni è riuscito a consolidare il suo ormai evidente asse con il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani (“Veltroni è il miglior candidato a guidare il Partito democratico”, dirà lo stesso Epifani poco prima delle primarie). Perché Verini, tra gli uomini di W, è quello che meglio di tutti conosce i sindacati, e li conosce da tempo, li conosce dalla sua prima intervista a Luciano Lama per Paese Sera (1978, ad Amelia), li ha continuati a studiare negli anni in cui da coordinatore regionale del Pci in Umbria ha conosciuto Sergio Cofferati; e lo capisci, questo, quando tu vai in libreria e quando ti accorgi che tra le 2.754 pagine che compongono l’impressionante mole di letteratura democrat, tra “La Scoperta dell’Alba”, “Che cos’è la politica”, “La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi”, “Il disco del mondo. Vita breve di Luca Flores, musicista” (con o senza dvd), “Il sogno spezzato. Le idee di Robert Kennedy”, “La rivincita di Roma Ladrona”, “Berlinguer. La sua stagione”, “Il piccolo principe”, “Walter ego”, “L’audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo” (di Barack Obama, e con introduzione di Walter Veltroni), se guardi bene trovi anche un libro che sulla copertina ha l’altra doppiavvù: quella di Walter Verini stampata su carta patinata rossa, sotto il titolo “Sinistra con vista, conversazione con Luciano Lama” (l’ex numero uno della Cgil), ristampato lo scorso giugno, con prefazione di Walter Veltroni e postfazione di chi? Naturalmente di Guglielmo Epifani.
Ed è vero, in Campidoglio sono davvero tanti quelli che sentono il nome di Verini, ti sorridono, ti guardano e iniziano a parlare piano piano; e ti dicono che Verini sta a Veltroni come Henry Paulson stava a Richard Nixon; e ti dicono – probabilmente ossessionati dal Robert Redford di “Tutti gli uomini del presidente” – che Paulson, oltre a essere stato il segretario particolare di Nixon alla Casa Bianca, era anche quello che si vantava di avere scritto su un foglio affisso sul muro del suo ufficio: “Quando li tieni per le palle, il cuore e la mente ti seguiranno”. Ma è altrettanto vero, però, che è stato proprio Walter Verini a tessere la lunga tela democratica attorno a Veltroni; e lo ha fatto soprattutto quest’estate, quando W era ancora alle Maldive e quando Verini fu decisivo nello scrivere, nel valutare e nello scegliere i nomi di quelli che sarebbero poi diventati i coordinatori regionali del Partito democratico. E va detto: non furono giorni facili quelli; tutt’altro. Perché erano i giorni in cui Veltroni era immerso tra gli atolli tropicali, erano i giorni in cui il sindaco di Roma non riusciva più a trovare sui giornali le sue toccanti citazioni quotidiane di Ghandi, di Kennedy o magari di Martin Luther King (ma si rifarà, Veltroni: tanto che nel suo unico colloquio con Repubblica – il 5 ottobre – W riuscirà a parlare di Luther King in un’intervista solo sul welfare), erano i giorni in cui – senza sindaco e senza vicesindaco – pur di farsi immortalare con la fascia tricolore di W al collo, gli assessori romani più intraprendenti venivano notati mentre si arrampicavano, la domenica mattina, su, su fino al colle del Gianicolo, per farsi fotografare accanto ai granatieri, e accanto al bum del cannone di mezzogiorno, giusto per poter essere protagonisti di quello che era ormai diventato una specie di concorso a premi, ribattezzato da alcuni smarriti e terrorizzati assessori romani: “Vuoi essere anche tu sindaco per una settimana?”.
Ecco, diciamo che Verini al Gianicolo non ci andrebbe mai; diciamo che Verini non pubblicherebbe mai un editoriale sulla Stampa, non scriverebbe mai un saggio su Veltroni, non scriverebbe mai un libro né sui compagni di scuola del Pci, né sui compagni di classe dei Ds, e preferirebbe stare lì, un po’ in mezzo ma non troppo; un po’ come Oriali e un po’ come Facchetti, l’ex presidente dell’Inter di cui Verini – già numero 10 del Città di Castello (nella vecchia quarta categoria) – era molto amico. (Una volta l’anno, la sera prima che l’Inter giocasse a Perugia, i due cenavano in Umbria, a Torgiano: al ristorante le Tre Vaselle).
Ecco, diciamo che la regola, nello staff di Veltroni e di Verini – decisamente poco dalemiano e decisamente poco poco poco prodiano – è questa; e l’altra metà della doppiavvù di Walter la ripete dal primo giorno in cui le due W arrivarono in Campidoglio: “Essere presenti ma non essere invadenti”.
Lo staff, dunque. Perché proprio a destra e a sinistra di Walter Verini, oltre ai già citati Marco Causi e Claudio Novelli, si trova un solido gruppo di alter ego veltroniani, in Campidoglio ma non solo lì: si trova il triumvirato dell’ufficio stampa formato da Roberto Benini, Ilaria Capitani e Luigi Coldagelli; si trova il vicecapo di gabinetto di W, Luca Odevaine, già segretario della sezione di Piazza Verdi – ai tempi della Fgci – negli stessi anni in cui Veltroni era appena stato eletto nella sezione di Piazza Verbano (sempre a Roma); e si trova l’altro capo di gabinetto: Maurizio Meschino, ex consigliere di stato, già funzionario della Camera dei deputati, gran lettore di Giancarlo De Cataldo, amante del cavillo giuridico più che della Festa del cinema (impressionante – si nota in Campidoglio – come la leadership della Festa del cinema sia sovrapponibile con quella del Piddì), e così apprezzato che lo stesso Veltroni ha aperto per lui un varco nel muro dell’ufficio, proprio per collegare la sua stanza con quella di Meschino; che ora è l’unica con vista su W.
Poi però gli disse di no, Verini. Gli disse di no a metà dell’anno 2000; quando Veltroni arrivò a Botteghe Oscure, accese il computer, sbirciò i giornali, chiamò Verini, lo guardò e gli disse così: “Walter, mi candido a sindaco di Roma”. E Verini gli parlò dei sondaggi, gli ricordò dei voti, gli disse che pochi mesi prima, alle elezioni Regionali, a Roma Piero Badaloni aveva preso ben otto punti da Francesco Storace e allora lo guardò e gli disse di no. No, Walter; non candidarti. Solo che Veltroni si candidò ugualmente, vinse nel 2001, vinse nel 2006, arrivò in Campidoglio, posò il telecomando, compose due numeri, chiamò Bettini, chiamò Verini e arrivò al Lingotto dopo aver scritto la sua Nuova Stagione una sera in via Velletri, a casa sua (il 24 giugno), insieme con il consigliere Marco Causi, insieme con lo scrittore Claudio Novelli e insieme con l’altra metà della doppiavvù: oggi portavoce del sindaco e oggi membro dell’assemblea costituente del Piddì; che certo, non vorrebbe apparire troppo, non vorrebbe vedere le sue foto sui giornali, vorrebbe soltanto continuare a essere un po’ ombra, un po’ politico, un po’ Facchetti, un po’ Oriali, ma che se Veltroni glielo chiedesse, se solo Veltroni lo volesse come portavoce, ora nel Piddì e domani chissà, Verini lo guarderebbe e gli direbbe così, gli direbbe semplicemente di sì.
Claudio Cerasa
27/10/07
sabato 27 ottobre 2007
Il Foglio. "L’altra doppiavvù di w"
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