Roma. E’ l’ultima pagina di una gara, combattuta finora a colpi di fioretto, tra i direttori dei giornali più diffusi d’Italia, Ezio Mauro e Paolo Mieli; una gara che parte dagli anni trascorsi insieme alla direzione della Stampa, che riprende fiato nel 2005 attorno a un tavolo seduti accanto a Giuliano Amato (si parlava, a Roma, di futuro e di Partito democratico) e che si è riaccesa ieri mattina, sulla prima pagina del quotidiano di Largo Fochetti; con il direttore di Repubblica, Mauro, che, dopo una lunga e ovvia riflessione nei giorni precedenti sull’opportunità o no di commentare quello che poteva essere un possibile flop da primarie democratiche, ha seguito le votazioni del Pd, ha letto gli exit poll sui candidati, ha acceso il suo computer e in quattro cartelle ha messo in tasca a Repubblica la tessera numero uno, oltre che del Partito democratico, anche del Partito della crisi; posizionando così il suo quotidiano ai primi blocchi di partenza nella gara a chi tra i due sarà, da qui alle prossime elezioni, il quotidiano più a favore dello strappo, dopo la delusione di Romano Prodi. E lo ha fatto, Mauro, scegliendo parole nette, naturalmente non casuali e nascondendo dietro a quella che potrebbe essere letta come una sorta di sfiducia preventiva all’attuale esecutivo (bisogna cambiare ancora, spiega Mauro, “a costo di strappare, come sarà inevitabile”), un attacco indirizzato proprio alle scrivanie terziste di via Solferino, sede milanese del Corriere. Scrive Mauro: “E’ per il paese che questa riserva di fiducia e di partecipazione può contare. (…) Perché separa la protesta di questi mesi dalla sua frettolosa definizione: non era antipolitica, infatti, ma richiesta di una politica ‘altra’, radicalmente diversa. In questo modo, la ribellione può prendere la strada (la spinta) dell’impegno a cambiare, separandosi (…) soprattutto dai sospiri impazienti di chi da fuori pesava già le macerie politico-istituzionali, sperando in una nuova supplenza imprenditorial-terzista-professorale capace di forzare con alleanze da rotocalco la Costituzione, il bipolarismo e i partiti”. Imprenditorial, terzista, professorale: dice proprio così Mauro. Ed è un attacco, questo, che arriva in un momento decisamente non come tutti gli altri. Perché Repubblica, a differenza del Corriere, non ha problemi né a rivendicare la sua appartenenza culturale al Pd di cui Carlo De Benedetti (presidente del gruppo Espresso) ha richiesto la tessera numero uno né naturalmente a schierarsi anche in maniera molto dura contro le scelte di Prodi, bilanciate ormai solo la domenica dal fondatore Eugenio Scalfari, che per motivi “deontologici” domenica ha preferito non votare. (Ieri, tra l’altro, la lettera del presidente del Consiglio, “Vi spiego i ritocchi al patto del welfare”, era sulla prima pagina di Rep. ma nascosta in basso a sinistra quasi dimenticata e con un invisibile segue a pagina 12). Dall’altro lato, invece, per il direttore del Corriere è più difficile trovare un equilibrio, nonostante le sue parole chiarissime a Capri, tra la vocazione da Partito della crisi di via Solferino e alcune istanze più prodiane presenti anche nella compagine societaria dello stesso Corriere. “Fate subito e non rinviate. Se non vi muovete vi conviene portarci alle urne al più presto”, aveva detto, accompagnato da un lungo applauso, lo stesso Mieli ospite al convegno dei giovani della Confindustria, pochi giorni fa, a Capri, aggiungendo, come per voler dare maggiore peso alle sue parole, che “parla una persona che per questo governo ha speso una parola, nel suo piccolo, decisiva”. Da quel giorno, comunque, passando da una dura presa di posizione dal presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo (“Attenzione ai facili entusiasmi, a dire andiamo a votare domani”) e da un rapporto considerato da alcuni osservatori (come Rinaldo Gianola, sull’Unità) non troppo idilliaco tra Mieli e Giovanni Bazoli (presidente di Intesa Sanpaolo, azionista Rcs e sostenitore prodiano), il Corriere rischia di lasciare spazi di manovra al giornale e al direttore concorrente in quella gara che ha in fondo un obiettivo semplice semplice: chi darà per primo uno scossone per portare a Palazzo Chigi il nuovo leader del Pd? Sarà il Corriere eurocentrista che con i suoi editorialisti – oltre a cercare con una certa continuità una sintesi politica alla propria inchiesta anticasta – non si è mai risparmiato negli elogi a potenziali tecnici protagonisti come Mario Draghi (con lui “quasi niente sarà più come prima”, ha scritto il vicedirettore Dario Di Vico) o sarà, piuttosto, quel giornale che ieri ha dato un deciso strappo sul governo Prodi, e che è arrivato all’attacco post primarie dopo una serie di editoriali, tutti firmati dal suo direttore (“La sinistra nella crisi della politica”, “Sì alla miccia del referendum”, “Antipolitica per chi suona la campana?”) i cui titoli, da soli, danno idea del clima battagliero del quotidiano (dove ormai la solitudine del fondatore Scalfari sembra essere sempre più simile a quella di Romano Prodi nel “suo” Partito democratico). Un giornale che avendo cominciato da tempo a mettere la gonna corta corta al suo Partito della crisi, e al suo Pd, gradirebbe ora essere il primo a ballarci insieme. O magari l’unico, se possibile. Poi però tocca vedere, a Largo Fochetti, che la megaintervista prima del voto Veltroni la dà al Corriere. Rep. si sta già attrezzando per rispondere, colpo su colpo, magari con Prodi.
“Noi non auspichiamo affatto la crisi del governo di Prodi. Noi – spiega al Foglio il vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini – siamo semplicemente convinti che nel caso in cui l’attuale esecutivo dovesse trovarsi in una situazione oggettiva di crisi tra una soluzione di governo tecnico-istituzionale e una soluzione politica, in ipotesi estrema una staffetta tra Prodi e Veltroni, la seconda sarebbe preferibile. Ciò non toglie che, per certi versi, questa staffetta sarebbe meglio non ritrovarsela affatto e sarebbe dunque preferibile che Prodi continuasse il suo lavoro a Palazzo Chigi; ma attenzione, questo non deve accadere a qualunque costo: perché rimanere in piedi significa governare, non sopravvivere”.
Claudio Cerasa
16/10/07
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