Nicola ha passato ventinove anni in carcere. Era il 1977, Nicola aveva diciotto anni, finisce coinvolto in un omicidio, va in galera, ha un permesso, poi scappa, comincia a fare delle rapine, rientra ancora e sconta la sua pena. Nicola, ora, ha quasi quarantanove anni e da due anni si trova in regime di semilibertà. Cinque mesi fa, poi, arriva l’indulto, che per chi se lo fosse dimenticato ha escluso tutti coloro che sono stati detenuti per terrorismo, mafia, rapina aggravata e abusi sessuali. Nicola doveva uscire nel 2011, ora uscirà definitivamente nel 2008. Fino a quella data, Nicola convivrà con la sua condizione in semiregime di liberta. La mattina alle 9.30 al lavoro, si stacca la sera, il tempo di vedere la sua compagna (l’unica tra i due a poter usare un telefonino, Nicola non può ancora averlo), poi alle 21.45, si torna in cella. Nei ventinove anni passati nel carcere di Padova, Nicola ha imparato a usare il computer, ha fatto alcuni corsi di informatica, ha finito le scuole medie, ha preso un diploma da geometra e – poco prima dell’indulto – frequentava il primo anno del corso di laurea in Scienze politiche. Il 2 agosto, due giorni dopo l’indulto, Nicola si trovava in Sardegna e i primi due ex detenuti diventati subito nuovi detenuti per aver alzato il gomito in un pub e per aver aggredito verbalmente alcune forze dell’ordine, lui li aveva conosciuti. Già dal giorno dopo, leggendo i giornali, Nicola aveva capito che si sarebbe scatenata la caccia mediatica all’ex detenuto.
Subito dopo l’indulto, Nicola, così come la maggior parte degli ex detenuti, non si è messo a rubare, non si è messo a rapinare, non si è messo a uccidere non si è messo a fare quello per cui era già finito in carcere. Nicola, dopo l’indulto, ha trovato un posto fisso. Ora guadagna circa ottocento euro al mese, lavora allo sportello Sos Indulto di Padova, fa l’avvocato di strada ed è uno dei fondatori dell’associazione “Ristretti orizzonti” (una rivista realizzata dai detenuti della Casa di reclusione di Padova).
La storia di Nicola è una delle tante storie positive nate grazie all’indulto. Una di quelle storie che, però, sui giornali non compaiono quasi mai, perché dopo l’indulto la cosa importante era dimostrare a tutti i costi il lato negativo di quell’atto di clemenza, cioè chi esce e poi subito rientra. Perché, in realtà, nelle settimane successive all’indulto, il ragionamento il più delle volte è stato questo: più ex detenuti in giro significano più criminalità, più criminali, più pericolo, meno sicurezza. Perché nell’immaginario comune, condiviso anche da qualche esponente dell’attuale maggioranza di governo, gli ex detenuti non sono soltanto ex detenuti, sono soprattutto nuovi potenziali detenuti.
Ma le cose non stanno così. Di storie come quelle di Nicola se ne trovano tante, di storie come quelle del presunto killer tunisino di Erba che avrebbe sterminato una famiglia (e che poi invece non c’entrava nulla con gli omicidi), sono pochissime. Certo, esistono e sarebbe stupido ignorarle, ma sono poche. Perché non è vero che l’indulto porta a aumento diffuso della criminalità, anche se – ovviamente – la possibilità di recidiva esiste. Ma leggendo bene i dati si scoprono alcuni aspetti molto interessanti. Una certa percentuale di recidiva (circa del nove per cento) si ha sempre quando un detenuto esce di prigione. Sempre. Esiste solo un modo per evitare una recidiva ed è quello di aumentare le carceri, metterci dentro più gente possibile e buttare via le chiavi delle celle.
Carceri più piene ma meno delitti
Gli indultati con una pena inferiore a un anno erano più della metà di quelli usciti lo scorso agosto: 11.370. Ma non solo. Uno dei dati più interessanti è senz’atro questo: dopo gli ultimi provvedimenti di clemenza (cioè indulto e amnistia a cavallo del 1990), i detenuti usciti furono 12.237 su un totale di circa 31.000 detenuti presenti nelle carceri. Ora, è vero che dal 1990 a oggi le carceri si sono riempite sempre di più. Ma non è vero che si sono riempite per nuovi delitti. Non si sono riempite perché gli ex detenuti sono tornati a fare i delinquenti. Si sono riempite soprattutto perché sono arrivate leggi più severe (come la Russo Iervolino sugli stupefacenti o come il 41bis) e perché chi è finito in cella in questo arco di tempo, è rimasto per più tempo in carcere. Non a caso, dopo gli ultimi provvedimenti di clemenza, il numero totale dei condannati dai tribunali è continuato a scendere sempre di più. Era di 292.980 nel 1998 e di 235.239 tre anni dopo. Lo stesso vale per il numero delle rapine che, nello stesso arco di tempo, è continuato a scendere: da 49.207 a 45.665. La situazione non è cambiata neanche dopo l’indulto di agosto. In pochi lo sanno, perché è più semplice parlare di un ex detenuto che torna a essere detenuto piuttosto che di un ex detenuto che non torna in carcere. Perché è più semplice dire che ad Erba c’era un tunisino indultato che ha fatto uno strage, piuttosto che provare a pensare che forse non era così. Da agosto a ottobre i reati – complessivamente – sono calati di circa 5.200 unità rispetto al 2005. Sono calati anche i reati a sfondo sessuale. Oltre a questo c’è un però, c’è un altro dato di estrema importanza. Perché subito dopo l’indulto, dopo cinque mesi, la percentuale di recidiva è intorno al sette per cento, media inferiore rispetto al nove per cento preventivato nei palazzi del ministero della Giustizia prima di agosto. Il nove per cento è, tra l’altro, la media standard delle recidive postcarcere. Anche se questo non viene raccontato spesso, nella percentuale di recidive successive all’indulto di luglio, sono moltissimi gli stranieri (778 su un totale di 2.070, fino al 5 dicembre) rientrati in carcere per un reato amministrativo. La maggior parte di questi sono rientrati perché non in regola con la Bossi-Fini, non per aver commesso altri reati.
Un dato che potrebbe tornare utile anche al ministro Antonio Di Pietro, molto contrario all’indulto. Ma quando Antonio Di Pietro per spiegare perché l’indulto sia un fallimento prende come esempio il sovraffollamento tuttora presente nel carcere di Regina Coeli a Roma (dichiarazione del 2 novembre), il ministro Di Pietro cade in una doppia trappola. Se il ministro crede che le carceri siano ancora sovraffollate, forse senza volerlo, fa capire che un indulto non basta per risolvere il problema del sovraffollamento. Ma soprattutto, in questo caso, il ministro Di Pietro non ricorda neppure che il carcere di Regina Coeli, essendo un carcere di primo accesso, è inevitabilmente sempre più pieno delle altre carceri.
Prendiamo il caso di Erika De Nardo di Novi Ligure. Erika era stata condannata a 27 anni. Dopo gli appelli, i ricorsi e le istanze, la pena le è stata ridotta a 17 anni. Con l’indulto le sono stati tolti altri tre anni. Ma secondo l’immaginario comune, i tre anni dell’indulto sono uno scandalo, gli altri dieci anni di riduzione della pena sono sempre uno scandalo, ma un po’ meno. Il ragionamento è molto pericoloso, perché seguendo questa idea sarebbero da condannare anche i permessi premio, le condizionali, le prescrizioni, i difetti procedurali o le assoluzioni in terzo grado. Cioè, tutti i casi in cui un potenziale detenuto non si trova in cella.
Ma il vero problema è probabilmente un altro. Se il numero di detenuti usciti con l’indulto è così alto è semplicemente perché da sedici anni le celle non hanno mai smesso di riempirsi di carcerati. Spostare ancora più avanti la data dell’indulto avrebbe voluto dire peggiorare la situazione, aumentare il numero di detenuti presenti in carcere e aumentare di conseguenza il numero di detenuti beneficiari dell’indulto, dando la possibilità a chi non sa leggere i dati di dire: “Ma perché tutti questi ex detenuti in giro?”.
Perché non ci sarà l’amnistia
Ed è proprio per una questione statistica che, per la prima volta nella storia della Repubblica, un indulto non verrà seguito da un’amnistia. Il discorso è semplice. Rispetto al penultimo provvedimento di clemenza, apparentemente i detenuti beneficiari dell’indulto di luglio sono quasi il doppio. Il numero degli scarcerati con pena definitiva, dopo agosto, è stato di 17.499 più 7.178 che si trovano attualmente in attesa. Tra questi ultimi c’è anche Nicola. Ma c’è anche Gennaro, quarant’anni, di Civitavecchia, che racconta al Foglio come sia stato assunto a capo del settore risorse umane di un’azienda della sua città e che da capo delle risorse umane abbia avuto il via libera dalla stessa azienda per assumere altri venti ex detenuti che erano da poco usciti dalle celle.
Rispetto al 1990, ciò che è cambiato è l’universo di riferimento. Nel 1990, in carcere, come detto, si trovavano 31.000 detenuti, mentre ad agosto 2006 i detenuti erano il quasi doppio, 60.710. Ed è per questo che il numero degli indultati di luglio è stato maggiore rispetto ai 12.237 del 1990. E’ per questo che la percezione comune porta a pensare “basta, va bene così”.
Ma se nell’indulto vanno cercati i problemi, i problemi non sono quelli legati alle recidiva, che – ripetiamolo – è un elemento comune a ogni provvedimento che dia la possibilità a un detenuto di uscire dalle carceri.
Semmai, il problema vero del post indulto è stata la gestione del passaggio dallo stato di detenzione a quello di libertà. Il governo ha stanziato diciassette milioni di euro per il reinserimento. Undici milioni sono arrivati dal ministero del Lavoro, tre milioni dal ministero della Salute e tre dalla cassa Ammende. A questi vanno poi aggiunti i finanziamenti arrivati dagli enti locali. Questi soldi, però, da soli non bastano. La stragrande maggioranza degli indultati, una volta uscita, si è trovata senza nulla, senza casa, senza soldi, senza famiglia, senza conoscenti e soprattutto senza lavoro, con il risultato paradossale che molti detenuti, uscendo di prigione, hanno perso il lavoro che avevano prima. Cosa è successo. In Italia esiste una legge che si chiama Smuraglia. Molto sinteticamente, la legge dice che alcune aziende e alcune cooperative hanno la possibilità di usufruire di una particolare ritenuta di imposta nel caso in cui facciano lavorare un certo numero di persone che rientrano nella denominazione di quelle “considerate in difficoltà”. Un detenuto è una persona considerata in difficoltà. Un ex detenuto, invece, lo è soltanto per i sei mesi successivi all’uscita dalle carceri. Sei mesi sono molto pochi. Ed è per questo molte cooperative hanno deciso di non lavorare più con delle persone che sei mesi dopo avrebbero dovuto mandare comunque via.
Tutto questo, però, non sarebbe mai accaduto se il governo avesse provato a mettere in pratica – come ammettono allo stesso ministero – l’articolo numero 88 del decreto 230 del 2000, “Trattamento del dimittendo”, che rientra nel regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario promulgato sei anni fa. Quest’articolo non è stato preso in considerazione, se fosse stato riapplicato avrebbe permesso certamente una migliore assistenza nell’uscita dei detenuti.
Ma c’è qualcuno che – almeno in parte – è riuscito a risolvere la situazione. Nicola è uno di questi. Il comune di Padova insieme allo sportello già citato di Sos Indulto, ha fatto sua una postilla di un regolamento comunitario (il numero 2204 del 2002) grazie al quale viene ampliata la definizione di quei “soggetti svantaggiati” inseribili nelle cooperative sociali di tipo B. Tra questi sono stati inseriti anche gli ex detenuti, ma per un periodo non superiore ai sei mesi. In questo modo a Padova in molti sono tornati a lavorare. O almeno c’è chi spera di poterlo fare al più presto. Tra questi c’è Nabil.
Il piano per la sanità carceraria
Nabil è tunisino, abita a Padova, è finito dentro per spaccio, ha trentanove anni e gli ultimi nove anni e mezzo li ha passati in carcere. Ora, anche lui, è in regime di semilibertà, ma al contrario di Nicola e al contrario di Gennaro, non ha trovato nessun lavoro. Uscito dal carcere, Nabil, non ha trovato nessuno. Ha trovato i suoi vecchi amici. Gli hanno proposto un colpo, lui ha detto di no. Non li ha più visti, ha dormito alcune notti per strada, poi ha trovato un lavoro. Al momento, però, solo in nero.
Ora un altro elemento di riflessione è ovviamente ciò che il governo riuscirà a fare dopo l’indulto. Che, come già detto e come più volte è stato ripetuto, da solo non basta. Perché all’interno delle carceri attualmente solo il dieci per cento dei detenuti svolge un lavoro, perché – prima di luglio – solo duemila detenuti avevano seguito un corso professionale e solo quattro di questi erano iscritti al cosiddetto “sportello per l’orientamento al lavoro”. Il primo provvedimento del ministero di Giustizia è stato quello di aumentare di 1.400 gli attuali posti letto nelle carceri. Perché aumentare i posti letto è importante, ma non per buttare dentro più detenuti possibili, ma solo per migliorare – ancora – la distribuzione della popolazione carceraria. Ma oltre ai 1.400 posti in più, un gruppo di lavoro istituito dal sottosegretario alla Giustizia, Luigi Manconi, ha realizzato un documento in cui vengono indicate le linee guida di una possibile riforma da realizzare nei prossimi anni. Le riforme dovrebbero essere articolate in questo modo. Verrà creata una conferenza nazionale sull’esecuzione penale, cioè una struttura periodica che darà la possibilità di confrontarsi sulla programmazione del lavoro da fare nelle carceri. Verrà diversificato il trattamento tra adulti e giovani adulti, in maniera tale che per chi non ha ancora compiuto venticinque anni sarà previsto un reinserimento diverso dalla normale detenzione. Verranno aumentati gli istituti penitenziari femminili. Verranno potenziate le forme di custodia attenuata e questo in particolare andrà a incidere le sezioni di lavoro riservate ai detenuti semiliberi. Verranno aumentate le case destinate a quelle madri che non possono godere delle misure alternative alla detenzione per l’assistenza ai figli minori e sarà creato una sorta di tavolo dei volenterosi, cioè una commissione di esperti bipartisan che lavorerà a un piano triennale di adeguamento delle carceri e verrà modificata la legge Smuraglia, grazie alla quale gli incentivi fiscali e previdenziali per i detenuti verranno prolungati per i ventiquattro mesi successivi alla scarcerazione. Oltre a questo il ministero della Giustizia insieme a quello della Salute, potrebbe mettere a punto un censimento delle strutture ospedaliere presenti nelle carceri italiane e, attraverso l’attuazione della “riforma Bindi”, passare le competenze di assistenza sanitaria nelle carceri completamente allo stesso ministero della Salute.
Claudio Cerasa
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