venerdì 11 aprile 2008

Il Foglio. "In morte del conflitto d’interessi"

Come nacque e come scomparve per ordini superiori una decennale buffonata


E’ stato lo scudo preferito delle ultime cinque campagne elettorali del centrosinistra, dal giorno in cui il “principale esponente dell’opposizione” è sceso in campo, ha fondato il suo partito e ha vinto le elezioni; è stato il tratto più forte che negli ultimi anni Romano Prodi, Massimo D’Alema, Francesco Rutelli, Fausto Bertinotti, e naturalmente anche Walter Veltroni, hanno scelto per disegnare il profilo più appropriato del candidato premier Silvio Berlusconi; e lo è stato anche fino a poco tempo fa, quando la serietà, che sarebbe poi arrivata azzoppata al governo, l’aveva scritto undici volte tra le pagine del suo vivacissimo programma elettorale. Erano i mesi in cui c’erano “osservatori che segnalavano”, esperti che si disperavano, girotondi che si incazzavano e candidati che rubricavano il proprio sdegno antiberlusconiano in un vocabolario minaccioso che invocava “la difesa dei valori della Costituzione”, “la grave anomalia della democrazia italiana”, “il regime di incompatibilità”, gli scandalosi “intrecci tra politica e affari”. Capita invece che a due giorni dalle elezioni quella che il centrosinistra aveva descritto negli anni come la pistola fumante di un’evidente inadeguatezza al governo sia clamorosamente uscita fuori dalla campagna elettorale dei principali avversari del principale esponente dell’opposizione. Forse un po’ eccessivamente, avrà pensato Walter Veltroni; che dopo essersi accorto che sull’argomento era stato scavalcato persino dal leader del Pli, Stefano De Luca, ieri pomeriggio ha provato a non farsi sottrarre del tutto quello che fino a pochi mesi fa era il maggior detonatore dell’anticaimanismo di sinistra. E ci ha provato così: “La legge sul conflitto di interessi va fatta. E una delle ragioni per cui spero vinca il centrosinistra è che così si libera il campo nella destra e, a quel punto, il conflitto di interessi tornerà a essere una legge liberale e non contro qualcuno. Finché c’è il principale esponente in giro – ha continuato W – parlarne sembra un’aggressione contro qualcuno. Invece una volta liberato il campo, la legge sul conflitto di interessi deve valere erga omnes e per sempre”.
Chissà dov’è finita l’indimenticabile retorica sul conflitto d’interessi e tutte quelle descrizioni un po’ deboli di “monumenti viventi all’impasto quotidiano e indecente tra partito e azienda, amministrazione pubblica e business privato, soldi e politica” (Repubblica, 5 gennaio 2006). Chissà dove sono finiti tutti quei commentatori che fino a qualche tempo fa cercavano di dimostrare che, per colpa del conflitto d’interessi, l’Italia si sarebbe trasformata nella copia solo un po’ sbiadita di una dittaturina thailandese. E invece no: invece oggi il Partito democratico ha scoperto che il conflitto d’interessi non è un argomento forte per dare vero ossigeno alla propria vocazione maggioritaria; perché il conflitto è stato sì uno dei (fragili) collanti di coalizione negli ultimi anni; ma oggi è un fatto che lo stesso Pd ha dedicato al tema solo qualche lancio di agenzia e solo due righe due nel suo programma elettorale. Ed è anche per questo che due sere fa, quando Walter Veltroni è stato ospite di Porta a Porta, nel suo metaforico contratto legislativo firmato con gli italiani e tra i titoli di quei ventitré (possibili) disegni di legge consegnati a Bruno Vespa in una bella cartellina di pelle c’era un po’ di tutto, ma non il conflitto d’interessi. Non è un mistero, poi, che l’approccio meno aggressivo allo spauracchio dello Cav catodico cambiò quando, nel 1998, l’allora primo ministro Massimo D’Alema (dopo aver ripetuto per anni che “il conflitto di interessi è un tema che investe la sostanza della democrazia e non vi sarà soluzione se non si sancisce l’incompatibilità tra la premiership e la proprietà di rilevanti mezzi di informazione”) non appena arrivato a Palazzo Chigi decise di andare in visita a Mediaset e disse pubblicamente che quelle televisioni erano “patrimonio della nazione”. Certo, non è passato molto tempo dai giorni in cui le parole di Furio Colombo si trasformavano in assist precisi per i girotondismi di piazza e di governo (“Appena entrato in Parlamento, non mi toglierò il cappotto prima d’aver depositato una proposta di legge sul conflitto d’interessi che renda incompatibili la proprietà di mezzi di comunicazione come Mediaset e qualsiasi ruolo di governo. A senso, non mi spingerei fino a chiedere l’ineleggibilità ma aspetto che un giurista mi spieghi bene la materia”, diceva due anni fa l’ex direttore dell’Unità proprio su questo giornale). Non è passato neppure molto tempo dai giorni in cui il panchopardismo non era ancora diventato semplice materiale di archivio per i libri di Marco Travaglio (“Promuoveremo una legge d’iniziativa popolare per rendere ineleggibile Silvio Berlusconi. Sarà un’iniziativa di grande pressione civile”, spiegava a pochi giorni dalle ultime elezioni il candidato al Senato dell’Italia dei Valori). Ora le cose sono cambiate. E girando lo sguardo ancora più a sinistra, per certi versi, sembra ancora più chiaro come l’argomento “conflitto d’interessi” sia diventato un’arma decisamente inceppata. Così se fino a qualche mese fa Fausto Bertinotti diceva che qui “ci vuole una legge che impedisca di fare politica a chi è proprietario di grandi imprese di interesse nazionale almeno finché resta in quella condizione”, oggi quella che per molte settimane è stata la terza punta dell’asse tra W e il Cav (CaW) dice che certo, “Il conflitto di interessi è importante ma le priorità sono altre: conflitto sociale, salari, pensioni”. Viene da pensare, dunque, che la piccola gaffe fatta due anni fa da Piero Fassino – l’ex segretario dei Ds chiedeva al centrosinistra di gestire la questione del conflitto d’interessi con una legge di tipo americano, per “separare nettamente l’interesse privato, del tutto legittimo, con il ruolo pubblico”, anche se in realtà in America non c’è nessuna legge sul conflitto di interessi che impedisca al proprietario di aziende di candidarsi a cariche pubbliche e di governo – sia stata in fondo un’innocente spia di quello che sarebbe diventato nei fatti un approccio diverso alla questione. Un approccio grazie al quale, per esempio, i custodi morali dell’ortodossia anticaimana – che non scrivono più saggi su Micromega, che non organizzano più girotondi brontoloni, che non minacciano più piagnisitei in seconda serata – per dimostrare che in Italia ci sia davvero il rischio di una democrazia peronista e videocratica, e per non essere spernacchiati pure da Bertinotti, sono costretti a rilasciare interviste polverose ai giornali stranieri (“Se vince Berlusconi assisteremo alla putinizzazione dell’Italia”, ha detto proprio tre giorni fa Paolo Flores d’Arcais in Spagna al Pais).
E così in una campagna elettorale in cui, tanto per capire, il Partito democratico parla più di Wto che di posizioni dominanti, la lancia spuntata del conflitto di interesse è stata malamente indirizzata proprio contro chi ha deciso di non considerare più il conflitto d’interesse come cuore della propria agenda politica. Ed è per questo piuttosto significativo che pochi giorni dopo la stretta di mano tra Berlusconi e Veltroni a Montecitorio (primo dicembre 2007) la vecchia stagione di Romano Prodi abbia provato a sabotore la vocazione maggioritaria del CaW gridando improvvisamente dalla Germania che “il monopolio mediatico di Berlusconi è un pericolo per la democrazia”. (Dichiarazione che anticipò di pochi giorni le intercettazioni telefoniche tra Berlusconi e Saccà; le inchieste di Giuseppe D’Avanzo su Repubblica; e le successive interviste del ministro Gentiloni, autore della legge mai approvata di riforma della Gasparri). Attenzione però: il riflesso pavloviano è sempre un po’ in agguato e impugnare il conflitto d’interessi è evidente che faccia gola a chi voglia schierarsi, un po’ superficialmente, contro il Cav. E’ sotto gli occhi di tutti l’esempio di Fini che, nei giorni in cui era decisamente ancora poco convinto della svolta predellina del Cav di San Babila, flirtava pubblicamente con il ministro Gentiloni (“Ora è il momento di una legge sul conflitto di interessi”); e l’esempio di Pier Ferdinando Casini che nelle ultime settimane ha fatto un po’ sua la retorica post-panchopardesca. Ma il punto però è un altro: sembra piuttosto chiaro che per battere il Cav elettorale la declinazione noiosa del conflitto d’interesse è ormai diventata solo la fragile scialuppa di chi prova ad affondare una nuova stagione ma senza avere più frecce nel proprio arco. Veltroni questo l’ha capito perfettamente; e non è un caso che, giusto pochi giorni dopo l’apparentamento del Pd con l’Italia dei Valori, a un Antonio Di Pietro che minaccioso intimava un aut aut al Cav (“La legge sul conflitto d’interessi andrà risolta nei primi cento giorni del governo. Perché Berlusconi o fa il politico o fa l’imprenditore della comunicazione”), sono stati proprio Walter Veltroni, Anna Finocchiaro e Massimo D’Alema a dire subito che Di Pietro parlava a titolo personale, “l’argomento non è tra le priorità del programma”. Dunque, per fortuna, oggi non c’è nessuno scandalo se un ex premier dice che le televisioni del principale esponente dell’opposizione sono un patrimonio della nazione; e non c’è neppure nessuno scandalo se il custode della seconda metà del CaW (W) ha scelto simbolicamente di inziare la sua campagna elettorale sulla magnifca poltroncina rossa di quella che Veltroni definirebbe oggi, semplicemente, una delle tv della famiglia del principale esponente del partito a noi avverso.
Claudio Cerasa
11/04/08

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